Per una donna libertina, la redenzione è ossessione. Da giovane la intravede nel matrimonio, da attempata, nella Chiesa. Sempre, comunque, al cospetto di Dio.
Aveva fatto indigestione di uomini, Banine, mantide di razza azera, piglio letale e alcova affollata, nata nell’Azerbaigian russo da un’agiata famiglia di musulmano rigore, in pieno contrasto con l’educazione occidentale impartitale dal padre, di simpatie progressiste.
Seduttrice impenitente, seminò seta e turbamenti fra artisti e intellettuali, per sempre effigiata nei migliori salotti della Ville Lumière. Montherlant, Kazantzakis, Malraux, li declassò ad amorosi sparring partner, Ernst Jünger – fratello elettivo di letture e bureaux d’esprit – lo idolatrò con la devozione di chi ama non riamato. Dell’uomo fece un dio, e in Dio finì per cercare l’uomo.
Si imbatté nel Vangelo in tarda età, l’approccio fu virgineo, incipriato dal candore dell’autodidatta. Peccatrice estrema, allo stremo, fatalmente fa il suo ingresso in una chiesa, per la prima volta, al culmine d’una crisi esistenziale, accesa da spasmi passionali. Creatura ormai insensibile al disagio d’esser traviata, sulle ginocchia non avverte più il dolore della trasgressione e si abbandona alla recita di preghiere di cui non coglie il senso ultimo.
«Entrò in una chiesa di cui non sapeva il nome, ci restò un’ora, mezzo gelata, a ripetersi: “Oh no, neppure Dio può far soffrire quanto un uomo!”»
scrisse l’amico Henry de Montherlant, ritraendola inconsapevolmente, prima del tempo, nella sua opera Les jeunes filles (1936). Nel suo journal, Banine, racconterà infatti, anni dopo, un’analoga scena. I due condivisero un certo, sincero scetticismo per i fedeli tout court, nel tempo in cui si intrecciarono con venerea spiritualità, sollazzandosi fra i passi di Sant’Agostino. E quella mediazione, o meglio, sovrapposizione dell’uomo con Dio, che per Montherlant rappresentava il colmo del disonore, fu per Banine questione cruciale, croce di spine, faticando lei stessa ad accettare la grazia divina con la ragione, ben più incline a vivere il rapporto con Dio come un surrogato, una proiezione, un transfert, – “Non avendo saputo amare un uomo, ti consoli con Dio…”.
Ma a Dio – decretò Montherlant – non si può appartenere “in modo vago”.
Fece infatti appello al dio più abbordabile, Banine, quello della menopausa, dopo un trascorso gravido di passioni, passando direttamente dalle sfilate parigine di haute-couture alla castità prêt-à-porter. Quest’ultima la indossò, con discinta nonchalance, come una stola di animale raro.
Avida di trascendenza, nel 1959, in Francia, da alle stampe Ho scelto l’oppio (J’ai choisi l’opium) – il diario di bordo della sua conversione al cattolicesimo – di cui le edizioni Magog / Pangea pubblicano un florilegio di brani.
Nelle sue pagine tutto è contrasto, dissonanza, discordia. L’atea rincorre l’aspirante credente, la ragione è in lotta con la ricerca spirituale, il fanatismo religioso delle origini si scontra con un’insofferente attesa di grazia. Le sue memorie si aprono con un interrogativo – «Quando è cominciata esattamente la “cosa”, e come? Ma soprattutto, perché?» – per concludersi con l’anelato battesimo, atto ultimo, o primo, di un cammino che si muove fra abiezione e ascesi, senza picchi d’estasi, mediato da una costante solitudine interiore.
“Ho voluto essere libertina, e una passione (non ricordo più se stupida o sublime) mi ha consumato. Ho voluto recitare la parte di donna libera e, mio malgrado, sono stata afferrata da un’altra passione che sembra legare e invece può liberare interamente, può condurre alla totale liberazione. Lo può, se io l’accetto”.
E mentre a Parigi i castagni si spogliano e nei salotti fioriscono volti, una Banine ormai appassita e misantropa si macera nella solitudine, nell’insonnia, nella nevrosi. Legge Tolstoj, Broch, Puškin, scrive per provocazione, ossessionata dalla rinuncia, mentre ogni sua privazione rimanda solo a un altro desiderio da respingere. Incapace di avvicinarsi a Dio senza una mediazione terrena, si avvicina infine a padre Gustav Wildt – indirettamente conosciuto per mezzo di Jünger –, seducendone le vesti talari, amandolo come solo si può amare un angelo, fuor dai diletti della carne ma con erotico ascetismo.
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Al cuore della dissipazione, Banine, scrisse Jours parisiens, romanzando le sue avventure in terra francese – amici, amanti, licenziose cugine –, dopo gli anni più austeri vissuti nel Caucaso. Lei, che dalle pagine d’un romanzo, sembrava sbucata come un’ombra. Ne traduciamo alcuni brandelli.
“Negli anni successivi alla Rivoluzione russa si formò a Parigi una minoranza etnica piuttosto singolare: turbolenta, recriminativa, sprezzante nei confronti degli ‘autoctoni’, in fiduciosa attesa della sconfitta dei bolscevichi, ma temporaneamente priva d’un reddito fisso. Di conseguenza, metà di questa minoranza si lasciò nobilmente morire di fame, non avendogli mai attraversato la mente l’idea di lavorare, mentre l’altra metà – più fortunata – visse agevolmente, vendendo gli ultimi gioielli di famiglia, o prendendo denaro in prestito da autoctoni creduloni, impressionati dall’evocazione della ricchezza passata e futura e sedotti dall’idea del guadagno facile.
In questa minoranza si sostanziava tutta l’emigrazione russa. Tuttavia, sbaglio a parlare di una minoranza “etnica”; in realtà, si componeva – proprio come l’impero degli zar – di un numero impressionante di razze. Armeni, tartari, georgiani, baltici, ebrei, piccoli russi e russi tout court, formavano un gruppo eterogeneo, i cui elementi avevano in comune una sola disgrazia: la perdita della loro nazionalità, della loro fortuna e della loro patria. Nel giro di qualche anno, hanno poi cercato di organizzarsi, ma nell’epoca di cui scrivo sembravano ancora abitare, non sulla terraferma, ma su un pianeta irreale. […]
In tempi fausti e di grande abbondanza, l’uomo si sente obbligato a invitare la donna a cena prima della consumazione del peccato. A nutrire la preda prima di cacciarla: glassarla e ingrassarla; riscaldandola con l’alcool e rosolandola sotto tutti i punti di vista. Ma non bisogna compatire troppo la presunta vittima: si trova perfettamente a suo agio in questo preliminare balletto. E se si atteggia da martire, non lo fa che per decenza e buon costume. È come un incontro fra belve, dove nessuno può prevedere quale divorerà l’altra.
Da sola, ho trangugiato un pollo di media grandezza. Ho tracannato bicchiere dopo bicchiere. Mi sentivo l’anima di un’orchessa, lo ero. Decisa a cedere alle lusinghe di Blandot, intendevo prendere il timone della situazione e non lasciarmi impressionare da un uomo che mi ispirava solo disprezzo e a malapena desiderio. Libera, mi sono proposta di rimanere tale e per affermare a me stessa la mia indipendenza, ho ordinato un altro bicchiere di cognac.
Blandot, tuttavia, che non sembrava affatto disgustato dal mio rude appetito o dal mio atteggiamento poco aggraziato, iniziò a osservarmi. La cosa mi infastidì. Per fortuna, i fumi dell’alcol ogni tanto gettavano un velo di leggerezza sul mio stato d’animo bellicoso: poi, tra una portata e l’altra, ho ceduto la mano a Blandot e lui, in un impeto di passione giovanile, l’ha stretta con vigore, nonostante i suoi quarant’anni.
Dopo cena mi accompagnò al Bois. Lì, non ha mancato di fermarsi in una stradina deserta, mostrandomi con aria stupida la luna appollaiata in cima agli alberi; sospirando, mi chiamò “piccola bambina crudele” e mi baciò il collo. Fu allora che eruppe in me quella sorta di duplicazione che sarebbe rimasta una costante nei miei rapporti con lui: la sua piattezza mi disgustava, mi riempiva di disprezzo; eppure, la mia carne fu commossa dal caldo tocco delle sue labbra. […]
Forse Blandot è capace di indovinare i miei pensieri. Mi ha tolto il cappello, la borsa. Poi si è sfilato le scarpe e mi ha slacciato il vestito. L’ho aiutato un po’, con discrezione, perché non se ne accorgesse; sono arrossita di desiderio, come fosse qualcosa di cui vergognarmi. Questo imbarazzo, giunto da chissà quale profondità del mio essere, è stato impiantato lì da chi, da Dio o dagli uomini? Questa sensazione di vergogna, nell’amore, mi ha infastidita per tutta la vita. Vorrei sapere se Dio voleva davvero l’amore o no. Vorrei sapere perché l’ascesi assume un fascino particolare agli occhi dei più libertini. Vorrei sapere… ma lasciamo perdere tutte queste domande irritanti.
La pressione del suo corpo contro il mio è stata lieve. Blandot non parlava più, aveva smesso con le parole insipide. Per alcuni istanti si è trasformato in un dio e io ero solo la sua creatura. E, alla fine, sapevo che l’amore sarebbe valso tutti i disagi, tutte le fatiche, tutti i rischi che ne derivano. Poi la pressione si è allentata. ‘Piccola bambina mia!’ biascicò Blandot; e il dio vertiginosamente cadde verso la terra e divenne un uomo come gli altri, e anche più ridicolo degli altri. Poi la corsa frenetica al bagno, e il rumore del rubinetto, e l’intera fiaba spazzata via dall’acqua corrente. La vita, il grottesco della vita, è tutto lì”.
La traduzione del brano e la cura dell’articolo sono di Fabrizia Sabbatini