25 Febbraio 2021

Discorso sul digiuno e sull’“artista della fame”

Domenica scorsa è stato letto, in liturgia, il brano di Marco che racconta la tentazione di Gesù nel deserto, ad opera di Satana. L’evangelista risolve questo momento, centrale, in due versetti, posti tra il battesimo di Gesù – il riconoscimento – e l’inizio del ministero nel mondo: quasi fosse necessario un sigillo del nemico. Appena battezzato, Gesù è spinto al deserto. “Lo Spirito, subito, lo spinge nel deserto. Rimase nel deserto quaranta giorni, tentato da Satana; era con le bestie, lo servivano gli angeli”. Non sappiamo nulla della tentazione, del tentativo di Satana di piegare Gesù, quasi che l’esito fosse superfluo (o che un qualche veleno sia stato iniettato nel corpo del Nazareno): mi commuove, però, sapere che il Nazareno sta con le bestie, che gli angeli gli sono servi. Pare la ricomposizione del creato, senza l’uomo. Sono gli altri evangelisti – Matteo, ad esempio – a dirci che nel deserto Gesù ha digiunato e che “gli si avvicinò il tentatore” quando egli “ebbe fame”. La religione è sempre questione di fame – dunque, di digiuno. Non è un pensare, ma una pratica – una pratica che avvolge e vela il corpo, lo pretende. Si può dire che la religione comporta un rapporto radicale con il corpo. Fame, appunto. Che dal falò della fame scaturisca Dio o il nemico, l’opposto, è rischio implicito.

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Il digiuno non si compie per il benessere psicofisico personale, eleggendo a dio la salute, oppure il narciso; d’altronde, il digiuno non è rinuncia finalizzata a se stessa, il gusto torbido del cilicio, la prelibatezza dell’ascesi (“Quando digiunate non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano”, dice Gesù). Il digiuno, ad esempio, è il gesto appropriato per chi si accinge alla preghiera, a Dio: immette nell’aula di una lucidità più alta, il digiuno, è l’ingresso alla visione. Leggendo i salmi, il digiuno è legato alla preghiera particolare, argentata di pianto, per implorare salvezza (“Erano malati/ e mi affliggevo nel digiuno/ preghiera echeggia nel corpo”). Il digiuno consente al corpo stesso di farsi canto; lo tramuta in un suono.

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Il nostro stare al mondo è definito dalla fame, dal pasto: “non di solo pane vive l’uomo”, dice Gesù al tentatore, finendo per farsi egli stesso pane. Mangiando il mondo mangiamo noi; eppure un digiuno svolto per una satura idea di ‘equilibrio’ è vano. Il digiuno pone uno squilibrio – rinuncio anche a quel niente – per sbandare nell’altro mondo. Crede nel discrimine della bocca, il digiuno. Nel Corano il digiuno rituale è un segno di riconoscimento: “È nel mese di Ramadân che abbiamo fatto scendere il Corano, guida per gli uomini e prova di retta direzione e distinzione. Chi di voi ne testimoni, digiuni… Quando i Miei servi ti chiedono di Me, ebbene Io sono vicino! Rispondo all’appello di chi Mi chiama quando Mi invoca” (Sura II, 185-186). Il digiuno è tra i “cinque pilastri” dell’islam: “Al Ghazali ci dice che l’astensione si applica a tre livelli. Quello del corpo comporta l’astinenza dal cibo, dall’acqua e dal sesso dalla prima luce dell’alba fino al tramonto del sole… il secondo è quello della mente, che viene costretta ad astenersi dai peccati dell’udito, della vista, della parola, ed è proprio di chi segue una via di avvicinamento al suo Signore. Il terzo è quello del cuore e si realizza con l’astensione da tutte le preoccupazioni della vita terrena, da ogni pensiero che non sia il Ricordo di Allah, e quelli è il digiuno dei Profeti, dei Giusti, dei Ravvicinati” (Hamza Roberto Piccardo). Nel buddhismo, il digiuno è parte dei tredici dhutanga, i primi precetti per avvicinarsi alla rinuncia e involarsi alla via: tra questi c’è la questua con la ciotola (pindapata), e la consumazione di un solo pasto al giorno (ekasanika). In questo caso, il digiuno è gesto superficiale, preparazione prima per percorrere il risveglio: chi prende il buddhismo come una filosofia ne dimentica la pratica; prima di speculare sulla mente, senza idealizzare “calma concentrata e visione profonda”, bisogna affilare il corpo, imbrigliare la fame. Nel digiuno l’uomo offre la sua vita al dio; si priva di ciò che gli dà vita; si fa, in piccolo, sacrificio: in questo caso, il digiuno è un di più, orienta le energie in un unico punto, rende il corpo una fiamma, e “in possesso di questa energia corporea, egli si muove – grazie ai poteri psichici – attraverso varie centinaia di migliaia di mondi” (La Perfezione della saggezza in diciottomila versi).

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Attraverso il digiuno ci mortifichiamo o moltiplichiamo, svanendo in polline?

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Il punto esatto del digiuno accade quando la fame è sconfitta: abbiamo denti ovunque, sconfinati, sulle braccia, sotto le unghie, tra le ascelle. Perfino le palpebre sono denti che azzannano il sonno. Quando accade il digiuno i denti tornano innocenti, fatui: per questo è facile la veglia.

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Nel digiuno il rapporto è tra consumo e consumazione, tra occasione e consunzione, clausura e claustrofobia.

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Nel 1924 esce sulla rivista tedesca “Die neue Rundschau” un racconto di Franz Kafka, Un digiunatore, cioè – letteralmente – “Un artista della fame”. Come si può fare della fame un’arte, anzi, un artificio? Di cosa, d’altronde, abbiamo fame? Il digiunatore abita in una gabbia, è l’attrazione di un circo: la sua ascesi è uno show; il pubblico, in effetti, si sfama del suo digiuno, fino a sospettarne una malinconica malizia. E se il digiuno fosse una menzogna e il digiunatore un falso? Se il digiuno è arte – e non rito – è esposto alla contraffazione. Fin dal principio – “In questi ultimi decenni l’interesse per i digiunatori è moto diminuito” – sappiamo che l’arte della fame sta svanendo. Tra i famelici che valore può avere la fame educata con la stessa perizia con cui si cammina su una corda, si scrive una poesia? “Sono costretto a digiunare”, dice il digiunatore al custode delle gabbie, dando all’arte, allora, natura sacra. “Non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, senza fare tante storie mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e come gli altri”, dice, in punto di morte. Qual è il cibo prediletto – e di chi, digiunando, diventiamo cibo? Il digiunatore, dopo la morte – “fu sotterrato insieme alla paglia”, forse per evanescenza di carne –, è sostituito da “una giovane pantera”. A dispetto del digiunatore, la pantera, essendo totalmente se stessa, al di là di ogni arte, divora con piacere inappagato. “Il cibo, che le piaceva, glielo portavano senza tante storie i guardiani; non sembrava neppure che la belva rimpiangesse la libertà; quel nobile corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi”. La vita è connessa alle fauci, al morso: anche la libertà – che è libertà di mangiare ciò che piace – è situata tra i denti. A chi non mangia crescono i denti fino a diventare una divinità, un tempio bianco; armi per addentare gli angeli. Il Santo è una grande bocca che inghiotte chi lo varca – trasfigura la fame in luce.

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Nei bestiari medioevali la pantera è figura di Cristo; forse il digiunatore si incarna, realizzato, nella pantera. Quando Verlag pubblica come Un digiunatore l’ultima raccolta di Kafka, lo scrittore è morto da qualche mese, effuso in un’altra fame, diversa. Nell’anno in cui scrive quel racconto, è il 1922, sogna “ratti che mi strappano e io li moltiplico col mio sguardo”, e appunta, il 13 febbraio, questa frase: “Possibilità di servire con tutto il cuore”. Mettere a servizio il cuore, cioè: strapparsi il cuore perché altri ne mangino. Del digiuno dei cuori è ancora da dire.  

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