Non leggetelo prima di andare a dormire. Non fatevi fregare. Non lasciatevi trascinare dalla forza suadente della prosa che scorre senza intoppi, né cali di tensione. Potreste rimanere intrappolati nella trama quasi epica, malgrado l’argomento, e stare svegli fino alle 4. Peggio. L’alba potrebbe cogliervi di sorpresa, mentre avete ancora il testo tra le mani.
Fenomenale. C’è poco da aggiungere. Al diavolo la solita tiritera ossessiva propinata in loop: “la narrativa italiana è morta”, “non leggete i contemporanei, fanno tutti schifo”. Di giovani autori italiani di valore è pieno il paese, solo che bisogna andarseli a cercare. Di certo, non stanno in bella mostra nelle vetrine di Feltrinelli, in centro. Non sono di grido e bisogna tenere le orecchie ben aperte, se si desidera averne notizia. Qualche ora di Facebook, in tal senso, vale più della lettura di pagine e pagine di critica letteraria su inserti e quotidiani nazionali. E anche gli editori, non sono tutti degli invertebrati votati al guadagno facile. Giovanni Turi, editor, taumaturgo e demiurgo di TerraRossa Edizioni, per esempio, è un cecchino della letteratura. Non nel senso che uccide i suoi autori, per carità. Casomai, nel senso che ogni colpo da lui messo a segno è un centro sicuro. Di più, non ne sbaglia mai uno. E certo non ha fatto un passo falso scegliendo di dare alle stampe Cristò, al secolo Cristò Chiapparino, con Restiamo così quando ve ne andate.
Finalmente! Se ne sentiva il bisogno. Un romanzo che, al netto della bella trovata surreale di far parlare anche i muri – difficile da spiegare su due piedi, prendete l’informazione per buona –, ha il grande pregio, a livello tematico, di riportare al centro la tanto vituperata realtà. Eh già, perché in tempi di iperrealismo, nuovo realismo, postumano e chi più ne ha più ne metta, l’unica cosa che sembra latitare nel disinteresse generale è proprio la realtà, la dimensione quotidiana, la vita stronza e disgraziata che conducete voi e il vostro vicino. All’opposto, è il momento di Harry Potter, della fantasia al potere, ovvero un periodo in cui si parla sostanzialmente di scempiaggini, invece che partire dalla prima cosa che si vede la mattina, quando ci si alza: eccoti, sei tu allo specchio. Sei quello che ha quarant’anni e una bella vita del cazzo. Un contratto di lavoro – sempre se ce l’hai – che fa schifo. Fai qualcosa che presumibilmente esula da ciò che hai studiato. Qualcosa, soprattutto, che non ti piace. Vivi in affitto, se non stai ancora con i tuoi. E, a dirla tutta, non hai realizzato niente di ciò che sognavi, di quelle che erano le tue aspirazioni da ragazzo, oramai rivelatesi velleità. In amore non va meglio. Anzi, fai pietà e ti senti patetico: o sei solo, o vai con le nigeriane, oppure ti scopi una per cui… è dura da ammettere… provi poco più di uno sporadico desiderio privo di trasporto. Da tempo hai perso la capacità di amare. Spiacente, il treno è passato, ma non ha fischiato.
Ecco, partiamo da qui. Cristò lo fa e con stile. Ci presenta Francesco, un personaggio che è su per giù come quel generico tipo umano appena descritto. Perché Francesco è generico e particolare, come ognuno di noi. Come in una sineddoche, dove il tutto sta per la parte o la parte per il tutto: Francesco è anche un po’ tutti i diversamente giovani che in lui potrebbero ritrovarsi e in molti sono un po’ Francesco. Un personaggio della grande narrativa è sempre così: una fattispecie che è anche una certa forma di universalità.
Il protagonista lavora in un supermercato e, grazie al cielo, non è soddisfatto della vita che conduce. Gli brucia di essere un musicista mancato. Non si rassegna. Piuttosto fuma canne come se non ci fosse un domani, si rincoglionisce su Facebook, o cercando inutili info su Google. Si chiede se debba ridursi tutto a questo. Non può essere, o almeno non è umanamente sopportabile e lui lo sa. Basta un evento traumatico. La morte di un collega cassiere, uno che a sua volta non si voleva arrendere e che aveva pure scritto un romanzo. Di fronte alla presa d’atto che si può crepare e per di più in modo stupido e idiota, magari tornando a casa da lavoro, Francesco non può che fare un scelta di rottura, o andare lui stesso in frantumi. Palesemente, seppur forse con la beata inconsapevolezza dell’autore, ma questo è Heidegger e il suo concetto di essere-per-la-morte: quando si prende coscienza di dover morire – quasi nessuno lo fa –, non si può che fare una scelta per un’esistenza finalmente autentica. Ma cosa vuol dire fare una simile scelta? Significa, pirandellianamente, superare la forma in nome della vita, dismettere i panni che ti hanno costretto a indossare, il ruolo in cui ti hanno relegato, e mandare tutti a fare in culo, affermare una volta per sempre “io sono vivo”. Come andrà a finire? Non proprio bene, ma neppure con un’ecatombe. La grande tragedia non appartiene al nostro tempo. Questa è piuttosto un’agonia atrocemente lenta, una storia che non torna, se non su sé stessa, ma per non condurre da nessuna parte. Cristò lo sa e la fine a cui ci porta sarà dunque solo un rimando al principio di tutto, lì dove sappiamo già non ci aspettano né gioia né consolazione.
Matteo Fais