30 Ottobre 2023

“Al cospetto del nulla ci si gioca l’immortalità”. La resurrezione di André Malraux

Nel 1972 André Malraux, “affetto dalla malattia del sonno”, fu ricoverato al Salpêtrière. Da questa esperienza nasce Lazare, uno dei suoi libri più belli, scelto per chiudere il ciclo Miror des limbes.

Molte volte lo scrittore aveva immaginato il ritorno di un uomo sulla terra, dopo aver sfiorato la morte. Che lo strumento fosse una tempesta nell’Aurès o il fuoco incrociato degli anticarro, la morte minaccia dall’esterno aviatori e avventurieri. Questa volta, la morte agguanta Malraux dall’interno: come Lazzaro, lo scrittore però riuscirà a resuscitare. La presenza della morte nel corpo del paziente governa il libro, dalla prima all’ultima riga. La massima prossimità della morte accade nel cuore del libro, quando, di notte, nella sua stanza d’ospedale, Malraux perde coscienza, ritorna in sé, annaspa: “Ho sperimentato… un io-senza-me”, “ho perduto la terra”.

Prima e dopo questa esperienza di “vita sonnambula”, l’io di Lazzaro, proprio perché la morte lo scalfisce dall’interno, è Malraux. Ascolta il suo corpo, si sorprende di non soffrire, si appella ad altre malattie. Si confida: “Roquebrune, il rumore delle ciabatte di mio figlio nel giardino con gli alberi di Giuda in fiore”. La voce narrante di Lazzaro non è quella dei libri precedenti, che non rivelano la sua intimità. L’io-Malraux, qui, non è troppo distante: sotto l’effetto della Desipramina dialogherà con “l’amico professore” sulla vita, la morte, la fede.

Il narratore organizza la storia in un disordine magnetico, dove il vortice di immagini e ricordi si armonizza alla malattia del personaggio.

Secondo Pierre Bockel, Lazare è uno dei libri più riusciti di sempre sul tema della morte. Può essere letto, in effetti, come un lungo sviluppo della frase pronunciata da Perken in La Voye royale: “La morte non esiste… esiste solamente… l’io… io che vado a morire”. Qui la morte si staglia in una “ironia inspiegabilmente riconciliata”. Questa ironia superiore è quella dell’agnostico che scrive: “La rivelazione è che nulla può essere rivelato”. E ancora: “Il pensiero agnostico parla alla morte da eguale, a tu-per-tu, perché si fonda sulla medesima fede”. Mero gioco di parole? Dovremmo concludere, come fa Claude Tannery, che Malraux è “l’agnostico dell’assoluto”? In fondo, non è anche questo un gioco di parole?

Di certo, l’ironia non esclude la fede. Anche se non si tratta della fede cristiana, verso di essa l’autore mostra un rispetto sospetto. In un brano che riecheggia le meditazioni su san Giovanni delle Antimémoires, Malraux contrappone la “fine” di Socrate, che “ha la fortuna di ignorare il dolore”, all’“agonia di Cristo”.

“Io che non credo alla Redenzione”, scrive Malraux, “sono arrivato a pensare che soltanto il sacrificio può fissare negli occhi la tortura, che il Dio di Cristo non sarebbe Dio senza la crocefissione”.

Benché non creda alla Redenzione, allo scrittore resta la fratellanza. Lazare è un libro sulla morte, ma è anche un libro sulla fratellanza. Fin dalla prima pagina questa “parola sopravvissuta”, come la chiamerà Malraux, risplende come “la sola che risponda al cristianesimo”. Il malato sperimenta ciò che ha provato nel 1944 a Villefranche-de-Rouergue: “Tutto ciò che resta nella memoria è la fratellanza”. Al Salpêtrière vita e opera si confondono, la memoria restituisce scene, gesta, parole di fratellanza: il dono del cianuro ne La Condition humaine, il dono del pane ai prigionieri nel 1940, e, naturalmente, “l’assalto della pietà” a Bolgako. “La comunione, a volte, è forte come la morte”.

Esitiamo a parlare di arte a proposito di quest’opera testamentaria, scritta sul crinale di una grave malattia: eppure, essa attesta la maestria dell’autore, nel descrivere il contesto – l’ospedale – e la coscienza dell’esperienza, a tratti ebbra.

Il vortice, infine, si orienta: infine, resta “la fratellanza che un destino non annienta”. Malraux probabilmente pensava che Lazare “fosse la mia ultima opera”. Nessun altro libro, in ogni caso, potrebbe costituire miglior finale per Miroir des limbes. Intanto, perché l’autore assume per la prima volta la totalità del suo essere, anima e corpo. E poi perché con l’approssimarsi della morte, tutti i ricordi che costellano le sezioni precedenti – “l’azzardo della memoria” – passano nello spirito del malato e nel testo dello scrittore.

Lazare è la sintesi febbrile di una vita intera, di un’intera opera. Il viaggio iniziato nel 1965 termina, letteralmente, al Salpêtrière. I compagni di brigata, ma anche il suo figlio piccolo, gli eroi dei romanzi, “una vecchia di cui ha dimenticato il nome”, Charles de Gaulle e Marcel Arland, sono tutti lì, attendono il viaggiatore al porto. Tutti lo aiutano se non a concludere la narrazione, a trovare una pace, il patto con la quiete.

Lazare, o la resurrezione dello scrittore.

Marius-François Guyard

[Marius-François Guyard è il curatore delle opere complete di André Malraux per l’editore Gallimard]

Avventuriero, ministro plenipotenziario della cultura francese, gollista, mitomane, scrittore di genio: André Malraux (1901-1976)

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Lazzaro

Da tempo, soffro della malattia del sonno; le gambe cedono più volte, cado, come in una sincope, ma senza perdere coscienza; due volte nella stessa settimana – la seconda, preceduta da un turbine convulso. Esami. Professori e medici si consulteranno tra una dozzina di giorni. Nel frattempo: sclerosi dei nervi periferici, minaccia al cervelletto, pericolo di paralisi. Perché?

Forse perché sto lavorando alla mia ultima opera: ho ripreso da Les Noyers de l’Altenburg, che ho scritto trent’anni fa, uno degli eventi imprevedibili e sconvolgenti, la crociata dei Bambini – centomila ragazzini che volevano, da soli, salpare per Gerusalemme, e furono sterminati o presi come schiavi – che sembrano segnalare le crisi di follia della Storia: il primo attacco tedesco con il gas a Bolgako, sulla Vistola, nel 1916.

Ignoro perché l’attacco della Vistola faccia parte di Miroir des limbes. Pochi “soggetti” resistono alla minaccia di morte. Ciò ci mette a confronto con l’affronto della fratellanza, della morte – intendo, quella parte di umanità che cerca il suo nome, oggi, che non è certamente individuo.

Il sacrificio continua con il Male più profondo e il più antico dialogo cristiano; dopo questo attacco sul fronte russo, è seguita Verdun, la guerra chimica nelle Fiandre, Hitler, i campi di sterminio. Tutto questo corteo non annulla il giorno convulso in cui l’umanità prese la forma della demenza: davanti alla bomba atomica, o alla frenetica compassione. Se l’aviatore si fosse fatto esplodere con la bomba, invece di sganciarla su Hiroshima, non lo avremmo dimenticato – nemmeno dopo l’altra bomba; se investigo questo è perché cerco la regione cruciale dell’anima, dove il Male assoluto di appone alla fratellanza.

Sappiamo piuttosto bene cosa accadde quel giorno, possiamo immaginarlo; di ciò che accadde in seguito, non resta nulla. I ricordi pubblicati marciscono nell’ambulanza; non speriamo di scoprirne altri sessant’anni dopo. In Alsazia, alla fine del 1944, nessuno conosceva più i nomi dei sopravvissuti a Bolgako. La Storia offusca e cancella perfino l’oblio degli uomini; folgori che si dissolvono nel nulla dei giorni di guerra, finché il secondo reggimento, che si sta avvicinando alle ambulanze, non sfonda la linea russa.

Nulla rimane di quell’avvenimento. Per recuperare il suo sovrumano splendore, il lampo deve ancora svanire? Forse si è perduto in quell’epica di delirio, ebbrezza e terrore che le nazioni non amano ricordare. Questo attacco esercita in me l’azione possente e contraddittoria dei grandi miti della rivolta, come Antigone.

L’umanità arcaica viveva del mito; fino al 1911 l’imperatore di Cina conduceva l’aratro per tracciare il primo solco dell’anno, come il mitico imperatore aveva tracciato il primo solco sulla terra. Ho rivissuto lo sconosciuto mito della Vistola, perché l’ho scritto – sotto un’altra forma, nel 1940, quando mi presero prigioniero. In questo libro si scontrano frammenti di memoria, ossessioni, premonizioni. Ho studiato per la prima volta l’attacco a Bolgako perché molti dei soldati che hanno condotto quelle azioni erano alsaziani. La Germania assegnò volentieri l’Alsazia al fronte russo. (Da qui la libertà interiore del mio personaggio, che combatte per la Germania con animo indifferente). Nel 1941 ignoravo che sarebbe esistita un giorno la brigata Alsazia-Lorena, che io sarei rimasto legato nel sangue all’amata Alsazaia. La morte che continua a girarmi attorno mi consegna qui, oggi; trent’anni fa mi raggiungeva, all’altro lato della vita.

La parola convulsione mi perseguita. Il testo che correggo da undici giorni potrebbe avere questo titolo. Eppure, la violenza si attenua (ma non il suo smarrimento). Volevo aggiungere quali ricordi evoca in me, oggi, questa storia. Davanti alla mano sospesa dai gas nella casa della Morte, in un’ora che tutti gli uomini considerano l’ora del destino, penso all’affresco di Nefertari, a Luxor: all’ingresso della tomba, la moglie di Ramses gioca contro il dio invisibile dei morti, di cui intuiamo la presenza soltanto dalla disposizione delle pedine sulla scacchiera. Al cospetto del nulla, ci si gioca l’immortalità.

Con i primi gas utilizzati in guerra, Satana riappare nel mondo; ma il Flagello non prevale sul cieco istinto della vita che sorge nell’unica foresta d’Europa in cui vive il bisonte del quaternario. Conosciamo molti esempi di uomo e di morte, macinati dalla fraternità selvaggia – inscritti nell’uomo, programmati, direbbero i crudeli computer. Quel giorno, giunto dal lontano Male, la mezza bestia degli abissi, delle profondità dove nacque l’uomo scoprì, sbavando, la disfida di Prometeo.

Investito dalla morte, mi rifugio nei più enigmatici slanci della mia vita. L’individuo non esiste.

André Malraux

Gruppo MAGOG