
“Un Medio Oriente spettacolare”. Riscopriamo Fausta Cialente, scrittrice memorabile e remota
Letterature
Andrea Caterini
Ricordarsi di una persona è ricordarsi il primo bacio. Un ricordo tenero e crudele. Tra gli scritti di Propizio è avere ove recarsi (Adelphi) di Emmanuel Carrère il primo bacio è certamente L’ungherese disperso. Il racconto, che era nato come articolo pubblicato su «Télérama», accompagnava un reportage per la rubrica televisiva Envoyé spécial. Poi la storia dell’ungherese scomparso è germogliata in un altro libro, Un romanzo russo, in cui lo scrittore francese esplora la sua esistenza, come sempre. Ma nel laboratorio letterario di Propizio è avere ove recarsi, troviamo la purezza giornalistica della brevità.
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Che fine fa l’amore? L’origine della pazzia e l’autismo. La storia è semplice, struggente. Siamo a Nyíregyháza, Ungheria orientale. Carrère racconta di aspettare, qui, nel tranquillo paese, il ritorno dell’ultimo prigioniero della Seconda Guerra Mondiale, András Toma. Dopo cinquantasei anni d’assenza. La prima persona che Carrère incontra, al paese, è Erzsébet, “una vecchia che si scalda al sole davanti alla porta di casa, appoggiata ad un bastone”. È lei la donna del bacio, sorride all’amore di quando era ragazza. “Se l’ho conosciuto? Il primo bacio me l’ha dato lui, quando avevo sedici anni”. Che fine fa il ricordo del primo bacio? Lei aveva sedici anni, lui diciannove. “Quando scendeva il buio si dovevano spegnere le luci per paura dei bombardamenti, e così erano andati tutti a ballare fuori, nell’oscurità. Qualcuno suonava la tromba in sordina. È stato allora che lui l’ha baciata. Tre giorni dopo i tedeschi lo hanno sorpreso mentre tornava dal paese in cui lavorava come apprendista calderario e lo hanno arruolato a forza. L’Armata Rossa era appena entrata in Ungheria. La Wermacht batteva in ritirata verso nord, e al suo passaggio rastrellava soldati ungheresi diretti in Polonia a combattere le ultime battaglie della guerra”.
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Fino a qui, la storia della Seconda Guerra Mondiale, d’accordo. Ma sono passati troppi anni. Gli ungheresi, sopravvissuti ai campi, sono tornati in Ungheria, tra il 1945 e il 1946. Non è tornato, con loro, András Toma. E chi non tornava, era dato per morto. Così la bella Erzsébet si è sposata uno di quegli ex prigionieri di guerra, ha avuto dei figli, poi dei nipoti. Infine, ha perduto il marito, ma non la voglia di vivere e di bere la sua pálinka, la sua grappa di prugne. La vita postbellica di Toma è, invece, un periodo accidentato, un’altra guerra. Catturato in Polonia, è stato in un campo vicino a Leningrado, poi è stato deportato, probabilmente, in Siberia. “Secondo i suoi lacunosi racconti, sembra che nel corso del viaggio in treno un gran numero di compagni siano morti di fame, di freddo e di stenti. Lui è sopravvissuto, ma è uscito di senno. Per questo nel gennaio 1947 è stato trasferito da un campo di transito all’ospedale psichiatrico della città più vicina: Kotel’nič”. Carrère riesce a ritrovare la sua cartella clinica: la sua vita è tutta lì. I giorni dal 15 gennaio 1947 al 30 settembre 1954 sono il diario del cammino di una lucida follia. Il paziente internato parla soltanto ungherese. Carrère sottolinea che, nella cartella clinica, questa semplice frase è una litania, un sintomo. “In questa cartella c’è una cosa straziante: nei primi dieci anni András Toma è stato un paziente rognoso, violento, ribelle. Un giovane robusto che attaccava briga, scriveva sulle pareti come se lanciasse bottiglie in mare, vomitava imprecazioni in faccia ai suoi carcerieri. Un caso difficile”.
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Poi è successo qualcosa: l’11 dicembre 1954 il soldato Toma è stato, nel suo paese d’origine, a Nyíregyháza, dato per morto. Lui, nel suo carcere russo, invece si era docilmente “stabilizzato”. E si ostinava a parlare la sua lingua ungherese, che nessuno capiva. Immerso, naufrago, annegato nell’incomprensibile nemico russo che lo sovrastava. “Toma è rimasto qui come un bagaglio smarrito, e a poco a poco anche la sofferenza si è sgretolata. Finiti gli anni della ribellione, la cartella registra soltanto un sussulto. «15 febbraio 1965: Il paziente si è affezionato alla dentista dell’ospedale. La segue per farsi estrarre dei denti sani. La dentista rifiuta. Il paziente si spacca la mascella a martellate». Sarà la sua unica manifestazione violenta nel corso di quegli anni impietriti, il suo unico slancio verso un altro essere umano”. Forse era il tramonto del ricordo di quel bacio? O András tentava disperatamente di strapparsi i denti per articolare una lingua compresa dagli altri? Perché si ostinava a parlare ungherese? I denti sani non glieli strappano, ma la gamba sana, questa sì. Nel giugno del 1996, ad András Toma, viene amputata la gamba destra, per sospetta arterite. I famigliari non possono essere consultati, né avvisati.
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E poi capita un fatto che precipita la storia di Toma sui giornali. Nel dicembre di tre anni dopo, in occasione di una visita all’ospedale psichiatrico di “un pezzo grosso della Sanità”, una giornalista locale – di cui non è dato sapere il nome – scrive che c’era lì “l’ultimo prigioniero della seconda guerra mondiale”. Sei mesi dopo, András Toma si ritrovava nella sua Ungheria. Il vecchio che ritorna al suo paese è completamente sdentato, sputa molto, parla poco. Non crede più che esista l’Ungheria, che si mastichi una lingua che ha il caro sapore dell’ungherese. “Laggiù, in Russia, gli hanno detto che l’Ungheria non esisteva più. Cancellata dalla carta geografica. Ma allora chi sono quelle persone che gli parlano in quella lingua scomparsa? Che si comportano come se lo riconoscessero, gli porgono mazzi di fiori, gli mandano baci? Non sarà un’altra trappola? Il volto sotto il berretto è in sfacelo. Un volto da zek, come definivano se stessi i detenuti dei gulag, il volto di quelle persone di cui Solženicyn e Šalamov hanno raccontato le vite spezzate. Toma ha una gamba sola, lo sostengono, gli tendono le stampelle, impiega cinque minuti abbondanti per posare il piede a terra”. Emmanuel Carrère sceglie la parola autistico: “era diventato completamente autistico”.
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Le cause dell’autismo non sono ancora state completamente chiarite, decifrate. La letteratura ormai non parla più delle suggestive “madri frigorifero”. Prima di essere riportato alla sua vera famiglia di origine, confermata dal test del DNA, András Toma è stato chiamato con nomi diversi. Ma poi ha ritrovato una sorella, Ana Toma, e un fratello, János. La donna che gli ha regalato il suo ultimo bacio e a cui lui, da giovane, aveva dato il primo bacio è lì che lo accarezza, che lo prende per mano, gli canta una canzone sull’acacia, fra le lacrime. Lui, sul sedile posteriore della macchina, guarda quella vecchia che vede, di fronte ai suoi occhi, la rovina della giovinezza, il giovane a cui pensava se lo bacia sulla guancia. Lo chiama András, mio caro. “Non ti ricordi di me, mio caro András? Erzsébet, Erzsébet, quella che hai baciato alla festa di matrimonio, devi ricordarti, ti ricorderai…”. Niente da fare, András Toma non si ricorda di quella che un tempo era la fanciulla che aveva baciato. Ha solo detto, dopo un momento di silenzio: “Mi manca la mia gamba”. Forse era soltanto “la promessa di un flirt il fantasma della sua giovinezza”. O, forse, è il primo bacio della giovinezza ad essere un fantasma, nient’altro che il ricordo di un morto. Che lui si ricordi noi? Il pretendere, così umano, di trovarselo lì, il nostro amato defunto. E che ci riconosca. Con tanto amore.
Linda Terziroli