20 Giugno 2020

“L’idea di immergere il ca**o nel cavernoso umidore della gaiesca intimità”. Ve lo ricordate Alessandro Piperno? Sognava di diventare Philip Roth, invece…

«Il rovinoso precipitare nel gorgo di un destino così implausibile ave­va preso forma in una rivoluzione somatica» (Alessandro Piperno, Persecuzione, Mondadori 2010)

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Con l’approssimarsi dell’edizione 2020 del Premio Strega, dove la seconda vittoria di Sandro Veronesi è stata rimessa in discussione dalla brutale entrata in campo del dominus Gian Arturo Ferrari, tornano in mente le vicende surreali che anni fa accompagnarono la folgorante carriera di Alessandro Piperno, il cui terzo romanzo scippò lo Strega 2012 dalle mani frementi di Antonio Scurati (che se lo vide ri-soffiare due anni dopo dallo scafatissimo Francesco Piccolo, come abbiamo visto).

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Già il primo romanzo di Piperno, Con le peggiori intenzioni (Mondadori 2005), vinse i premi Viareggio e Campiello, diventando un clamoroso bestseller e facendo perdere la testa ai noti recensori-glamour della carta stampata, che si misero a invocare i santi spiriti di Marcel Proust, James Joyce, Philip Roth, Saul Bellow eccetera. A quel punto, i suoi romanzi divennero grande letteratura per definizione, per investitura, sulla quale non era lecito sindacare, e le voci dissenzienti – anche vigorose – che s’incrociavano nelle discussioni mediatiche e virtuali venivano generalmente bollate come livore invidioso. Alessandro Piperno significava qualità letteraria indiscutibile, che rivendicava un successo permanente, a prescindere dalle condizioni ambientali che nel frattempo andavano mutando, a cominciare dallo sviluppo della Rete e delle abitudini dei lettori. I principali quotidiani martellavano senza risparmio e la tv rincorreva, mentre le loro vedettes si sdilinquivano.

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Entrando nel merito, dobbiamo dire che i romanzi di Piperno sono certamente lenti, anche faticosi, con una scrittura ricercata che esonda di aggettivi per cercare l’effetto-raffinatezza; l’uso della sinestesia, la frase lunga e elaborata, le citazioni libresche, l’intellettualismo esibito dal tono demodé, strabordanti e seducenti nel primo romanzo, hanno poi perso forza e efficacia nei seguenti. Un’ampollosità complessiva che ha portato alla pretesa di pubblicare addirittura un romanzone in due puntate, Persecuzione (2010) e Inseparabili (2012), come se si desse per scontata la tenuta di un pubblico-fan che resta in attesa paziente davanti alle librerie. Evidentemente si confidava nella propaganda della grande stampa, che non ha mai allentato la pressione, ma senza tener conto dei cambiamenti che proprio in quegli anni prendevano forma.

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«Ora, lo vedete questo docile e romantico Shylock entrare al fianco di quell’amore di ragazza in una tea-room di piazza di Spagna piena di mogano e paglia e sedersi contegnosamente su una minuscola sedia, accavallare le gambe, prendere il menù con l’affettata disinvoltura d’un cinquantenne, dissimulare l’orrore per i prezzi astronomici, trattenere l’emozione nel vedere la ragazza della sua vita snodare la sciarpa sfi­lare la giacca e posare i guanti in un angolo con la fluidità d’un unico gesto, eppoi sollevare il dito per chiamare una vecchia megera pseudo britannica e ordinarle un tè al bergamotto e due muffin con burro e marmellata di arancia?» (Con le peggiori intenzioni, pag. 228).

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In questi romanzi abbiamo le famiglie ebree romane di ceto alto-borghese, l’anticonformismo esibito al punto da farlo sembrare un contro-marchio, la scorrettezza politica insistita come cifra di distinzione di classe. Abbiamo le turbe sessuali, i giovani smidollati e edonisti, la masturbazione, le fornicazioni, l’avventatezza scialacquatoria, la fauna femminile ben categorizzata (le devote madri/mogli, le fidanzate/amanti scassapalle, le libere puttanelle), il tutto immerso in una specie di cerebro-vacuità comportamentale che sembra stridere con l’intellettualismo affettato delle scelte stilistiche.

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«Gaia era come il Dio calvinista che dà la Grazia o la toglie a se­conda del suo insindacabile Volere. Ebbene, per quanto possa sembrare un’aporia, in quel momento riuscivo ad armonizzare l’idea che Gaia mi prendesse in considerazione come maschio della sua specie con l’idea che lei non mi avrebbe mai preso in considerazione come maschio della sua specie. Stavo lì con lei, forse come mai prima d’allora: ansimante e tormentato come un’astrusa formula chimica, sentivo che – sebbene Gaia racchiudesse la ricompensa per ogni desiderio possibile, al punto che il mio nome non aveva alcun valore senza il suo al fianco – il sesso (il sesso famigerato, il sesso della rivoluzione sessuale ma anche quello proibito nei secoli precedenti a essa) non c’entrava un tubo. Che non era il sesso che m’interessava. Che il sesso, semmai, avrebbe distrutto tutto (come infatti da lì a breve sarebbe avvenuto). Che il sesso era una fissazione sciocca di alcuni ingordi pansessualisti (tutto quel nutrito seg­mento di arrapatissimi ebrei che unisce Sigmund Freud a Philip Roth cui avrei dato una bella sistemata nel mio libro antisemita). Che l’idea di immergere il cazzo nel cavernoso umidore della gaiesca intimità era un’astrazione assoluta come quella della metempsicosi o del teletraspor­to. Che ciò che le chiedevo – o meglio ciò che non aveva il coraggio di chiederle ma che non potevo impedirmi di desiderare con tutto il mio ardore – era che lei mi prendesse in considerazione come un maschio del­la sua specie. Che lei mi elevasse socialmente. Che lei mi fornisse il suo azzurro passe-partout per il Paradiso. Che lei mi garantisse l’upgrade che credevo di meritare» (Con le peggiori intenzioni, pp. 231-2).

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Roba forte: Sigmund Freud, Philip Roth, la metempsicosi, il cazzo, il cavernoso umidore, l’upgrade. Ma al di là delle valutazioni letterarie, è interessante vedere come reagirono i cantori culturali del Corriere della Sera, il primo dei quali non ha bisogno di presentazioni (“è lui o non è lui?” diceva un celebre tormentone televisivo: “certo che è lui”): l’ultra-noto book-jockey Antonio D’Orrico, che al culto di Alessandro Piperno ha dedicato anni di imbarazzante fanatismo. Già quando esplose il primo bestseller, D’Orrico non esitò a definirlo il messianico punto d’arrivo, l’incarnazione di un pipernismo che reclamava quanto prima un contraltare, l’arrivo di un anti-Piperno che gareggiasse con lui per rinvigorire la nostra letteratura. Una dedizione quasi fideistica, che arrivò all’appassionante puntata della rubrica Elzeviro del 5 marzo 2012: “Credo che sia stato commesso un errore. Quello di non pubblicare in un unico volume Persecuzione e Inseparabili. I due romanzi di Alessandro Piperno sono in realtà uno solo, un romanzone. Dividerlo salomonicamente non è stata una buona idea. Il sospetto mi era venuto subito dopo aver terminato Persecuzione. Ero rimasto con la sensazione di un libro non finito, che rimaneva sospeso. Gli mancava qualcosa e, nello stesso tempo, gli avanzava qualcosa. Nel senso che c’era un difetto di provocazione e c’era un eccesso di severità. Una carenza di satira e un surplus di mortificazione. Quasi avesse scordato la lezione fondamentale di Saul Bellow, Piperno aveva fatto troppo la faccia feroce. E la severità non è la sua cifra autentica. Tanto che avevo pensato male temendo che Piperno avesse rinnegato se stesso, cedendo al ricatto della seriosità, limite eterno della letteratura italiana. E aveva tradito se stesso forse perché si sentiva in colpa per il clamore suscitato dal suo romanzo d’esordio (l’ormai proverbiale Con le peggiori intenzioni). Diventare uno scrittore di moda a Piperno aveva fatto piacere ma fino a un certo punto, poi il piacere gli si era rivoltato contro con un sentimento simile alla vergogna. All’inizio si era levato qualche soddisfazione facendo un uso moderatamente sadico del suo successo (cosa comprensibile, anzi doverosa, nell’ambiente meschino, rosicone e rancoroso dei letterati). Ma poi di quel trionfo aveva fatto un uso masochistico. E da qui era scaturita la scrittura penitenziale (pur nella sua indubbia maestria, pur nella sua algida bellezza) di Persecuzione.

Ora Inseparabili (appena pubblicato da Mondadori) ha fatto tornare i conti con un Piperno in versione non solo quaresimale. «Il fuoco amico dei ricordi» (cioè il supertitolo che tiene assieme Persecuzione e Inseparabili) è un grande libro del nostro tempo. Ero preso da questi ragionamenti, l’altro giorno, e non ero sicuro che fossero tanto giusti quando ho ricevuto una mail di Stefania Motti, affezionata lettrice patita di Philip Roth. «Stasera ho acquistato l’ultimo libro di Piperno e lo osservo nella mia libreria, speranzosa e anche un tantino preoccupata. Lo leggerò fidandomi ciecamente di lei ancora una volta! Persecuzione è stato una delusione cocente, dopo che il mio palato aveva gustato con soddisfazione Con le peggiori intenzioni. Ma la speranza è l’ultima a morire. Le saprò dire».

Passano un paio di giorni e arriva una nuova mail della lettrice. «Da ieri sono all’attacco di Inseparabili. Mancano solo 70 pagine e la lettura compulsiva, senza tregua, è già un segnale positivo. Un libro entusiasmante, con una mia rivalutazione anche di Persecuzione. La quadratura di un cerchio che Persecuzione aveva lasciato aperto. Stanotte, o al massimo domani, il gran finale (con il retrogusto amaro e quella tristezza che mi accompagnano quando finisco un gran libro). Sarà dura trovarne un altro degno».

Ho aspettato con un filo d’ansia il verdetto conclusivo di Stefania. Il finale di Inseparabili è maestoso e strappa il cuore ma con i giudizi dei lettori non si può mai sapere. Poi la sentenza è arrivata: «Anche questa volta lei ha fatto centro. Ho finito Inseparabili e devo dire che l’entusiasmo ancora vibra! Il finale poi… che dire? In questo romanzo c’è praticamente tutto: la commedia, la tragedia. È un libro infarcito di opposti in cui aleggia l’odore della catarsi incombente. Ma sa una cosa? Ho iniziato a rileggere Persecuzione perché alla luce dei nuovi fatti cambia tutto! A mio parere Persecuzione è un libro “storto” che ha bisogno di Inseparabili per raddrizzarsi. I due libri stessi sono inseparabili! Ho timore che le vendite siano condizionate dalla scarsa fortuna del primo libro. Io stessa l’ho comprato dubbiosa. Ora cercherò di spingerlo, dato che lavoro a ore perse nella libreria di un’amica e sono molto abile nella persuasione più o meno occulta! Intanto procedo nella rilettura accantonando per l’ennesima volta 1Q84 di Murakami. Inizia a essere un tormento che si trascina da più di un mese…».

È Piperno che ha fatto ancora una volta centro, cara Stefania. Accantoni tranquillamente Murakami e rilegga Piperno. Rilegga le pagine estreme di Inseparabili: «La mattina del funerale Semi indossò una vecchia camicia la cui manica sinistra, secondo una consuetudine ebraica, avrebbe dovuto strappare alla fine del rito funebre per dare inizio alla settimana di lutto». Una norma tribale che Piperno disseppellisce dalla tradizione ebraica, quasi una mossa da striptease per denudare non un corpo ma l’anima tribale del mondo d’oggi”.

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Il ricatto della seriosità, limite eterno della letteratura italiana: ecco il giogo da cui D’Orrico vuole liberarci, per il quale ha «aspettato con un filo d’ansia il verdetto conclusivo di Stefania», la groupie assatanata. Ora, rendiamoci conto: il giornalista culturale di punta del quotidiano più importante del Paese recita la parte di chi aspetta ansioso i giudizi della lettrice, perché il libro di Piperno è come se fosse suo, ci ha investito la passione del fan che deve difendere la sua star dall’ambiente «meschino, rosicone e rancoroso dei letterati». Questo è il Corriere della Sera e questo il suo modo di nutrire la cultura: con «l’anima tribale del mondo d’oggi» che viene denudata da una mossa di striptease. «Ho timore che le vendite siano condizionate dalla scarsa fortuna del primo libro», dice l’appassionata lettrice patita di Philip Roth: «Ora cercherò di spingerlo, dato che lavoro a ore perse nella libreria di un’amica».

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Nella libreria di un’amica: eccoci arrivati al punto cruciale, le vendite. Qui entra in scena il secondo grande cantore del Corriere della Sera, anch’egli rimasto stregato dall’incantesimo piperniano: l’umorale Pierluigi Battista, detto Pigi. Un giornalista che nei suoi articoli, editoriali, interventi riesce quasi sempre a dare l’impressione di non aver centrato il punto, ma di ruotarci intorno in un equivoco laterale senza uscita. Il 19 marzo 2012 – a breve distanza dal book-jockey – un risentito Pierluigi Battista imbraccia il fucile automatico: «Ogni weekend, sbirciando le classifiche dei libri, si rinnova la sofferenza della confraternita ultrà di Piperno. Il suo Inseparabili va giù, non decolla. Uno dei più bei romanzi italiani non scala le vette». Colpa dell’«ostilità cocciuta della critica», che però sarebbe pure nobilitante, visto che «anche Philip Roth venne massacrato, esattamente come Saul Bellow». Capito? Con le alte parentele sempre esibite (nipote di Proust, figlio naturale di Bellow, cugino di Roth), vediamo l’ostilità della lobby dei critici che non spinge il beniamino, il disappunto per il mancato decollo delle vendite, le invettive contro la società letteraria: «Piperno risulta misteriosamente ‘antipatico’ a una Repubblica delle Lettere solitamente propensa a elargire con grande prodigalità attestati di grandezza a delle mezze calzette». Per un attimo abbiamo pensato si riferisse al collega D’Orrico, ma ovviamente no, vista la sua difficoltà a centrare il punto, come dicevamo.

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Dunque, Pierluigi Battista arriva a vestirsi da “Procuratore Generale della Pi­pernezza”, secondo la felice definizione di Pippo Russo: se gli italiani non si precipitano a comprare il libro dev’esserci un complotto, non certo il fatto che ognuno decide di spendere i suoi soldi come gli pare. Il dispetto è ancor più forte perché il Corriere della Sera – di cui Piperno è collaboratore fisso, quindi collega dei due cantori osannanti – ha continuato a spingere senza ritegno, ma senza risultati. Com’è possibile che uno scrittore che anni prima aveva sfondato, ora stenti così? Si deve forse varare un decreto che imponga recensioni encomiastiche sui giornali e in televisione, appostarsi agli ingressi delle librerie per redarguire chi ne esce senza il suo libro? Non si può smettere di amare uno che a pagina 83 del suo primo romanzo scriveva: «Il suo approccio musicologico era l’inevitabile emanazione e la folgo­rante epitome del suo feeling con l’universo: curioso, talvolta addirittura coraggioso, se non proprio sperimentale, certamente onnivoro e quindi totalmente immune da qualsiasi snobismo préalable».

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Non chiediamoci che avrà voluto dire, e andiamo al sodo. Poiché le copie invendute pesano, diventa necessario che Inseparabili vinca il Premio Strega, infatti lo vincerà. «Piperno non sta nei cuori dell’establishment», prosegue la delirante lamentela di Pierluigi Battista, «ma anche quel partito culturale che si vive come contro-establishment, tipo “Il Foglio”, stavolta latita o addirittura partecipa al rituale dell’isolamento. E così un grande scrittore italiano non viene adottato da nessuno». Addirittura si tirano in ballo gli altri giornali, correi del rituale dell’isolamento: sembra proprio che si sia persa la bussola, che non si percepisca più il senso delle cose. Anche perché le recensioni più visibili sono quelle favorevoli, e se il suo beniamino non decolla nelle classifiche – anzi, sprofonda ogni settimana – bisogna chiedersi se per caso i tempi sono cambiati, se uno scrittore che ha sedotto il mercato imitando Marcel Proust possa permettersi di aspettare cinque anni per sfornare il secondo romanzo, e altri due per proporne il seguito, pensando che tutto resti immobile aspettando lui. Una visione simile può averla chi passa il tempo fra le redazioni, i salotti e le terrazze, senza preoccuparsi di sentire il polso della società, il suo cammino, le sue dinamiche. È così che i recensori-star finiscono per mettere in scena sé stessi ed esibire il proprio ego, affamati di visibilità e incapaci di saziarsi. Un esercizio narcisistico così irritante che verrebbe da chiedere “spostati e lasciaci leggere l’articolo”.

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Per chiudere, concediamoci un altro “préalable” piperniano, che tanto avrà deliziato i suoi recensori-cheerleader: «Naturalmente si guarda bene dal trasformare quei desideri cartacei (libreschi?) in realtà. Anche se c’è da dire che le pochissime volte (di solito per il vigoroso sprone del marito) in cui si risolve a visitare finalmente uno di quei luoghi sognati, la sua delusione viene enfatizzata da una specie di scetticismo préalable» (Con le peggiori intenzioni, p. 144).

Paolo Ferrucci

* Per approfondire i temi piperniani si rimanda a Pippo Russo, L’importo della ferita e altre storie, Edizioni Clichy, Firenze 2013

*In copertina: Alessandro Piperno, la fotografia è tratta da qui

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