29 Aprile 2020

Herman Melville a Capo Horn. Il viaggio del 1860 nella lettera al figlio Malcolm. “La nave si piega, terribilmente, soffia neve e grandine, il vento è freddo & aguzzo. All’improvviso, un tonfo, violento – un povero marinaio che giace morto sul ponte”

Nel 1856, dopo la scarna fortuna di Moby Dick e il disastro editoriale di Pierre – “è forse il romanzo più folle mai scritto”, decretò il Boston Post; il New York Literary World lo disse “un vizio eccentrico della fantasia” – Melville, il più influente scrittore americano del Novecento (William Faulkner, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy, per dire, sono delfini del capodoglio albino), era un uomo finito. Cominciano allora le estatiche, sfiancanti peregrinazioni – “ha lasciato la casa di Pittsfield, ha sistemato sua moglie e il resto della famiglia a Boston, presso il suocero, credo, ed è ora diretto a Costantinopoli”, appunta Hawthorne – un po’ anima penitente e pia, un po’ malmostoso Enoch che vaga tra gli incavi dei segreti mondani e divini. Nel 1857 è a Gerusalemme, poi ad Atene, poi a Roma, a Firenze, a Milano, a Torino, a Francoforte; per tutto il 1858 e il ’59, anelando una fetta di fama, attraversa da destra a sinistra e da Nord a Sud gli Usa e il Canada spremendosi in tre cicli di conferenze che hanno per tema il viaggio, le ‘vacanze romane’ (titolo: Statue a Roma), i mari del Sud. Nel 1860, a fine maggio, Melville si prende una vacanza: s’imbarca a Boston, sul “Sailor”, il veliero guidato dal fratello Thomas, più giovane di lui di dieci anni. Destinazione San Francisco, passando Capo Horn. Di questa crociera, con toni da torbida fiaba, abbiamo notizia nella lunga lettera che lo scrittore invia, terminato il viaggio, al figlio primogenito, Malcolm, che ha 11 anni. Le visioni antartiche e il passaggio tra le isole della Terra del Fuoco si alternano alla descrizione, cruenta, della morte di un giovane marinaio e alle scudisciate paterne (“ora è il momento di mostrare quello che sei – se si un bravo ragazzo o un buono a nulla”). In realtà, la crociera è una onirica circumnavigazione del passato, nell’oro della giovinezza: Melville ripercorre i viaggi dei primissimi romanzi, e ci morde la nostalgia quando, avvistando una baleniera nell’Oceano Pacifico, lascia la nave del fratello, “ho preso una scialuppa”, s’avventa, memore di Moby Dick, a rincorrerla. La baleniera è piena di “selvaggi… arruolati in una delle isole intorno a Rarotonga”, che ricordano Queequeg, il formidabile ramponiere del “Pequod”. Questa serie di déjà-vu, forse, corrodono lo spirito di Melville, che dopo San Francisco, pasturando la propria irrequietezza, si dirige verso Panama, Cuba, infine New York. Esattamente sette anni dopo aver scritto questa lettera, Melville trova il figlio Malcolm riverso nel sangue, morto: si è sparato. Pochi mesi prima Herman aveva trovato lavoro come ispettore di dogana al porto di New York, incarico che esercitò per vent’anni, con mistica rassegnazione. “Per quanto fosse un parlatore affascinante quando era in vena, era anormale, come la maggior parte dei geni, e andava trattato con cautela”: Peter Toft, pittore, ricorda Melville, conosciuto da vecchio. “Sembra fare poco conto delle sue opere, e scoraggiò i miei tentativi di discuterne. ‘Le conoscete’, diceva, ‘meglio di me. Io le ho dimenticate’”. Melville non è stato la Balena Bianca né Ismaele e tantomeno Achab. Era l’oceano. Quieto, indomito – ha incenerito la propria opera, continua ad abitare il nostro futuro. (d.b.)

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A Malcolm Melville, 16 settembre 1860

Oceano Pacifico (Al largo delle coste del Sud America, sul Tropico del Capricorno)

Sabato primo settembre 1860. Mio caro Malcolm: sono passati esattamente tre mesi da quando il “Sailor” è partito da Boston – un quarto di anno. Durante tutto questo tempo, la nave è stata sempre in moto, ha attraccato soltanto per due giorni. Immagino che tu abbia seguito la rotta sulla mappa (spero che il mio globo sia messo meglio – altrimenti dì a Mamma di pulirtelo) da Boston a San Francisco. La distanza, in linea retta, è di 16.000 miglia; ma prima che sia arrivata, la barca dovrà navigare per 18 o 20.000 miglia. Quando abbiamo attraversato l’Equatore, sull’Oceano Atlantico era molto caldo; & per diverse settimane è stato così; poi spostandoci verso Sud il caldo ha cominciato a scemare, il clima è diventato fresco, poi freddo, poi sempre più freddo, e infine è spuntato l’inverno. Indossavo due maglie di flanella, guanti enormi & un cappotto, poi un grosso cappello di Russia, che è un berretto di cuoio molto spesso chiamato così dai marinai. Infine siamo arrivati in vista di una terra coperta di neve – disabitata, dove non vive nessuno e nessuno mai vivrà – tanto arida, fredda, desolata. Si chiama Staten Land – un’isola. Vicino, c’è la grande Terra del Fuoco. Siamo passati attraverso quel dedalo di isole, siamo riusciti a osservarle. Alcuni “selvaggi” vivono nella Terra del Fuoco; ma essendo tanto abissale l’inverno, credo che vivano in caverne. Ad ogni modo, non ne abbiamo visti. Il giorno dopo eravamo a Capo Horn, il punto più a Sud di tutto il continente americano. Il tempo era cattivo, alle tre di pomeriggio è caduto il buio. Il vento fischiava in modo terribile. Abbiamo subito una tempesta di grandine e di neve, il ponte si è ghiacciato. La nave ha rollato, abbiamo imbarcato tanta acqua da lavarci le gambe. Scrosci d’acqua hanno colpito diversi marinai, che hanno rischiato di essere sbalzati dalla nave. Questo mi ricorda una cosa molto triste che è accaduta il mattino stesso in cui eravamo al largo del Capo. Era la prima luce dell’alba; soffiava selvaggio il vento; lo Zio Tom ordina che le vele superiori (quelle grandi) vengano piegate. Mentre i marinai armeggiavano su un albero, la nave si piega, terribilmente, soffia neve e grandine, il vento è freddo & aguzzo. All’improvviso, Zio Tom vede qualcosa che cade, poi un tonfo, violento – guardiamo: un povero marinaio che giace morto sul ponte. Caduto dall’albero, morto all’istante. I compagni lo prendono e lo portano sotto coperta. Quando il tempo lo permette, un uomo cuce il corpo dentro un pezzo di tela per le vele, mette delle palle di ferro – palle di cannone – ai suoi piedi. E quando tutto è pronto, il corpo è posto su un’asse e scortato lungo il fianco della nave, alla presenza di tutti. Allora lo Zio Tom, il capitano, legge una preghiera, poi dice una parola, i marinai inclinano l’asse, il corpo scivola verso l’oceano barbaro, scompare. Così un povero marinaio è stato sepolto in mare. Ray – così si chiamava quel marinaio. Aveva un amico, volevano raggiungere insieme la California, pensavano di vivere lì – e guarda cosa è accaduto.

Siamo stati in tempesta per quaranta o cinquanta giorni. Ora il tempo è buono, il sole splende, caldo.

Oceano Pacifico. 16 settembre 1860. Mio caro Malcolm: da quando sei arrivato alla quarta pagina di questa lettera, navighiamo nella bella stagione, il tempo procede buono. L’altro giorno abbiamo avvistato una baleniera; ho preso una scialuppa e ho navigato nell’oceano fino alla baleniera, sono stato lì per un’ora. A bordo c’erano otto o dieci “selvaggi”. Il capitano della baleniera li ha arruolati in una delle isole intorno a Rarotonga. Dovrebbero aiutare a tirare la balena dopo che è stata catturata. L’equipaggio dello Zio Tom ora è tutto preso a rendere elegante la nave per quando arriveremo a San Francisco. Sistemano il sartiame, dipingono la nave & gli alberi e la coperta. Adesso la nave è corrosa da tutto il brutto tempo che abbiamo subito fino a poco fa. Quando arriveremo a San Francisco ti spedirò la lettera, la riceverai entro 25 giorni. Con un piroscafo voglio andare in un posto chiamato Panama, sul Golfo di Darién (tira fuori la mappa & cerca) poi attraverserò l’istmo grazie alla ferrovia fino ad Aspinwall [l’attuale Colón, ndr] o a Chagres sul Golfo del Messico; lì prenderò un altro piroscafo e dopo aver toccato L’Avana, a Cuba, andrò direttamente a New York, e poi a Pittsfield.

Spero che, quando arriverà, questa lettera ti troverà bene, te e tutta la famiglia. Spero che tu ricordi quello che ti ho detto prima di partire riguardo al tuo comportamento. Spero che tu abbia obbedito alla mamma, le abbia dato aiuto, le sia stato di supporto. Ora è il momento di mostrare quello che sei – se sei un bravo ragazzo o un buono a nulla. Qualunque ragazzo che alla tua età disobbedisce alla madre, o è irrispettoso, è un povero disgraziato; se conosci qualcuno di questi ragazzi, è bene che non li frequenti.

Ora, mio caro Malcolm, devo finire la lettera per te. Penso spesso a te, a Stan & Bessie e Fanny; e spesso vorrei stare con te. Ma non può accadere questo, per ora. Ho una immagine di te in testa, la guardo, finché non mi sembra reale. Ti saluto, mio caro ragazzo, & Dio ti benedica, il tuo affettuoso padre,

Herman Melville 

*Il testo è tratto da: “The Letters of Herman Melville”, a cura di M.R. Davis e W.H. Gilman, Yale University Press, 1960

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