26 Ottobre 2020

“Amore, sempre egli sarà tra noi, ha un nome di lusinga e dannazione”. Tommaso Landolfi tra spettri, fantasmi e orridi pupazzi

Il gesto originario del pensiero consiste nel tentare, ogni volta fallendo, di comprendere la natura delle immagini, attraverso cui la mente si rappresenta o ri-presenta il mondo. Nella Grecia dei primi filosofi, ‘fantasia’ era il nome di questa facoltà, da cui l’immagine è concepita come raffigurazione mentale della cosa che, apparendo, s’imprime nell’anima di chi vede. Non è un caso che nel greco di Platone e Aristotele, parole come phantasia e phantasma siano ambiguamente legate alla stessa idea del visibile, di ciò che appare ‘in luce’ (phaos). Idea che, dopo Epicuro, viene traghettata nel mondo latino da Lucrezio, che dedica il libro IV del De rerum natura ai ‘simulacri’ (le immaginicopie da cui la mente è invasa) e all’amore che, attraverso di essi, spinge alla conoscenza del reale.

Il Medioevo cristiano non fa che rielaborare questi nuclei, costituendosi come vera e propria tradizione del pensiero rappresentativo, schiavo dei phantasmata che, assolutizzati, non costituiscono più la soglia, l’accesso all’oggetto amato, ma ne prendono il posto. È ciò che avviene in Dante, e che, dopo di lui, tutta la grande letteratura ripete. Soffermandosi proprio su Dante, Gianni Carchia ha spiegato come il suo spiritus phantasticus consista in «una concezione dell’amore al cui centro si colloca… l’idea dell’impossibilità per l’amante… di raggiunger mai l’amato». Ma è stato Giorgio Agamben a tratteggiare il retaggio di tale amore fantasmatico, in cui il desiderio «diventa… insoddisfacibile, mentre il fantasma, che era il mediatore e garante dell’appropriabilità dell’oggetto del desiderio… diventa ora la cifra stessa della sua inappropriabilità… Per questo, in Sade… l’io desiderante, acceso dal fantasma… trova davanti a sé solo un corpo, un objectum che può soltanto consumare e distruggere senza mai soddisfarsi, perché in esso il fantasma sfugge e si nasconde all’infinito». Ecco l’arco teso che da Dante conduce alla Nouvelle Justine, e oltre.

Ultima eco di questa tradizione è Tommaso Landolfi. Nel suo primo romanzo, La pietra lunare (1939), la giovane Gurù è detta donna «“lunare” (cioè sterile), come si sarebbe certo dimostrato se ella si fosse sposata» (in questo nesso tra lunarità e sterilità sta l’inaspettata analogia tra Landolfi e la cultura Navaho, dove le vergini – non partecipando della generazione, della fertilità vivificante il cui archetipo è la luce solare – sono dette ‘figlie della luna’). E se confrontata alla sua immagine la donna risulta «meno splendente e più carnea», l’autore mette in guardia: «confrontare una donna con la sua immagine lunare, è in genere assai pericoloso per l’oggetto della comparazione». Ma Landolfi avrebbe dolorosamente lottato per tutta la vita con questa comparazione – fino al diario in versi Viola di morte (1972), dove l’oggetto d’amore si fa immagine, spaventosa perché impossedibile («Questa donna-terrore, / Che è sempre altrove»), diventando per l’amante condanna inappellabile («O mia caduca sorte, o donna arcana, / Groviglio di racimoli contorti»). Questa scarnificazione dell’amata, infatti, getta l’uomo in una perenne insicurezza («Ma non oso affermare il mio diritto, / Poiché so che non sei carne di donna. / Vivo dunque in sospeso e titubante»), stringendolo in un perverso gioco amoroso in cui sempre, di corpo in corpo, l’immagine fuggirà, in una corsa senza fondo («La mano delicata d’una donna / Ci traeva. Ma dove? – Un laberinto, / … / Oh furioso volere / D’eternità sempre deluso, assalti / Non a te, donna: all’infinito»).

Ecco l’incubo: la donna non è ma appare, sommamente desiderabile, e pure chiama a sé – ma è di uno spettro che Landolfi sa di essersi innamorato («Perché ci sfugge tra le dita? / Perché, se mai pensiamo d’abbracciarla, / Al petto non serriamo che vuota aria? / … / Perché a suo modo non ci plasma, / Anzi ci elude in labile fantasma?»), al punto da leggere l’intero dominio di Eros come il sadico luogo dell’immagine – impossibile e necessaria, dolce e crudele a un tempo («Amore, sempre egli sarà tra noi, / … / Ha un nome di lusinga e dannazione, / … / Adorata fanciulla, tu potresti / Mostrare vano il nulla e vero il vero, / … / Ove non fosse tra noi due / Un rivo di bollente vetro»). Altra vertiginosa tangenza: fu Eckhart il primo a indicare questo carattere ‘ribollente’ dell’immagine, definendola rem ex se ipsa intumescere et bullire in se ipsa).

Ascoltando il ribollire di questo schermo-scherno, alla luce della comune origine greca di fantasia e fantasmi, occorrerà correggere, rovesciandolo, il giudizio spregiativo che Montale espresse sulla poesia di Landolfi, definito uno scrittore «d’immaginazione, non di fantasia». Perché scavando i meandri del fantastico, Landolfi conobbe più di ogni altro i tormenti che l’amore per un dolce fantasma cela in seno. La sua opera è figlia d’una folgorazione che travolge le polverose filologie, che convoca a una corsa disperata verso l’impossedibile amata, dove il fantastico è il fantasmatico, regno perverso delle apparizioni da cui l’intero mondo è avvolto. Se Viola di morte è l’esito ultimo di questo strazio, i versi conclusivi di Des mois (1967) avevano già iniziato a nominare l’identica ossessione: «Non più la nostra corte e il nostro mondo / Abbiamo innanzi alla vetrata porta, / Ma un commosso fantasma, ma un profondo / Abisso d’aria, una regione morta». Così, l’occhio dell’amante è ormai condotto al bivio definitivo: «o mettere in fuga i fantasmi, o saziarsi della loro vista», come si legge in Ombre (1954), la raccolta in cui questi motivi s’erano per la prima volta fittamente annodati, favolando figure che con maniacale coerenza tratteggiano questo triangolo spettrale: donna-fantasma-morte. Emblema di queste ossessioni è il racconto La moglie di Gogol, dove la compagna Nicolaj Vasil’evič non è una donna, ma un’oscena bambola, un fantoccio di gomma chiamato Caracas, il cui colore ricorda solo vagamente quello della pelle umana. Quest’orrido pupazzo, nelle mani sapienti dell’artefice, appariva «grandemente mutevole nei suoi attributi… Pur poteva, certo, una volta mostrarsi magra, quasi sfornita di seno, stretta di fianchi, più simile a un efebo che a una donna; un’altra prosperosa oltremodo o, per dir tutto, pingue. Mutava inoltre di frequente il colore dei capelli e degli altri peli del corpo, concordemente o non». Ma non esaurendosi in alcun corpo che gli venga assegnato, il fantasma-amato fuggirà all’infinito, lasciando eternamente inappagata la fame dell’amante. Per questo Gogol’ «otteneva, colle sue manipolazioni, press’a poco il tipo di donna che volta a volta gli conveniva», senza mai plasmare il desiderio in carne. E se l’intero universo è ciò che la mente si rappresenta, secondo le apparizioni e le illusioni che le si impongono, ecco l’esito dell’amore malato – colpito da un morbo che ogni amore dilania: la distruzione dell’amato stesso. Il racconto infatti culmina nello smembramento del corpo di Caracas, che poi Gogol’ dà alle fiamme.

Donna-fantasma-morte: il gesto con cui il poeta risponde a questo circolo infernale è la sprezzatura, la pietà della perfezione. La foga con cui Landolfi classificava le mostruosità e le mutilazioni del reale, lo condusse a rilevare, con LA BIERE DU PECHEUR (1953), che «esistono almeno due specie degli esseri cui abbiamo dato il nome di fantasmi: quelli che hanno già vissuto e quelli che ancora devono vivere, e che nella maggior parte dei casi non riusciranno a farlo». Certamente Caracas appartiene a quest’ultima schiera; ma una simile vocazione alla vita – insostenibile perché impossibile, irrimediabilmente mancata – è per Landolfi ciò che accomuna, nei gorghi della storia, l’umanità intera. Un fallimento necessario, chiamato pietosamente per nome da questa scrittura infera, inseparabile dalla perfezione del proprio stile. Perché Landolfi sempre tormenta le purulente piaghe del male, pungendole con prose e versi che, non potendo redimerne l’orrore, nondimeno lo volgono in bellezza, come dolcissimo fiore nero.

Tommaso Scarponi

Gruppo MAGOG