Houellebecq: un’erezione lunga 750 pagine
Libri
Fabrizia Sabbatini
Scrivere, cioè difendere la solitudine in cui siamo; azione che sorge soltanto da un isolamento effettivo, ma da un isolamento che si può comunicare – proprio in ragione della distanza dalle cose concrete, è possibile svelare il segreto del loro rapporto.
Perché scrivere se esiste la parola? Perché l’immediato, ciò che scaturisce dalla nostra spontaneità, è cosa di cui non siamo totalmente responsabili, non sorge dalla totalità di noi stessi; è una reazione sempre urgente, pressante. Parliamo perché qualcosa ci preme e la pressione viene dall’esterno, da una piega, da una trappola in cui le circostanze pretendono di possederci; la parola ce ne libera. Attraverso la parola, ci liberiamo, liberi di quel momento, della circostanza immediata, che ci assedia. Ma tale parola non raccoglie e non crea; al contrario, l’uso eccessivo della parola provoca una disgregazione; grazie alla parola otteniamo una vittoria momentanea, ma presto ne saremo sconfitti da coloro che sostengono il nostro attacco senza darci la possibilità di rispondere. È una continua vittoria che infine si muta in disfatta.
Da questa disfatta, un dirottamento intimo, umano – non di un uomo in particolare, ma dell’intera umanità – nasce l’esigenza di scrivere. Scriviamo per recuperare terreno sulla perpetua disfatta del parlare troppo.
La vittoria può essere ottenuta soltanto nel luogo della disfatta. Le parole scritte avranno dunque una funzione diversa: non saranno a servizio dell’oppressore istante; non serviranno a giustificarsi al cospetto di un momentaneo attacco, ma, a partire dal centro del nostro essere, nella riconoscenza, ci difenderanno davanti alla totalità degli istanti e delle circostanze, davanti alla nostra intera vita.
Ogni vittoria umana deve sfociare nella riconciliazione, nel ricongiungimento dell’amicizia perduta, nella riaffermazione dopo il disastro di cui l’uomo è stato vittima; vittoria che non comporta l’umiliazione dell’avversario, dacché non sarebbe vittoria; cioè una manifestazione della gloria dell’uomo.
Ed è così che lo scrittore cerca la gloria, la gloria della riconciliazione attraverso le parole, antichi tiranni della facoltà del comunicare. È la vittoria di un potere di comunicare. Lo scrittore in effetti non esercita soltanto un diritto richiesto dalla necessità impellente, ma anche un potere, un potere nel dire che accresce la sua umanità e trasporta l’umanità dell’uomo alle frontiere della scoperta, alle frontiere dell’umano, dell’essere dell’uomo e dell’inumano, a cui arriva lo scrittore vittorioso nella sua impresa di riconciliazione con parole troppe volte fuorvianti, mistificatrici. Salvare le parole dalla loro insita vanità, dal loro vuoto, forgiandole con fermezza, assegnandole alla durezza, è l’obbiettivo che persegue chi scrive veramente, anche se lo ignora.
Salvare le parole dall’istante, dalla loro natura transitoria e condurle tramite la riconciliazione al perdurante è il compito di chi scrive.
Ma le parole dicono qualcosa. Cosa vuol dire lo scrittore e perché dice? Perché e per chi?
Egli desidera dire il segreto; che non può dirsi ad alta voce tanto è grande la carica di verità che contiene. Le vaste verità non si esprimono a parole. La verità di ciò che accade nel seno segreto del tempo è il silenzio delle vite, e non può dirsi. “Ci sono cose che non si possono dire”: è vero. Ma è ciò che non può essere detto a dover essere scritto.
Scoprire il segreto e comunicarlo: stimoli gemelli che muovono lo scrittore.
Il segreto viene rivelato allo scrittore mentre scrive, non se lo dice. La parola proferisce segreti soltanto nell’estasi, ai margini del tempo, nella poesia. La poesia è segreto parlante, che esige di essere scritto per fissarsi, ma non può riprodursi. È con la sua voce che il poeta dice il poema, il poeta ha sempre una voce, canta o implora il suo segreto. Il poeta parla, si trattiene dal dire, misura e crea con la voce le parole del dire. Se ne libera senza farle tacere, senza ridurle al solo mondo visibile, senza annientare il suono. Ma lo scrittore incide le parole, le fissa senza voce. La sua solitudine è diversa da quella del poeta. Soltanto nella solitudine il segreto si svela allo scrittore, non immediatamente, ma in modo graduale. Scopre il segreto nell’aria e deve fissarne i lineamenti, per completare e infine abbracciare la totalità della figura… e questo nonostante abbia uno schema preliminare per i suoi scopi. Lo schema stesso dice che bisogna fissare la figura; raccoglierla tratto dopo tratto.
Lo scrittore fugge dalla sua solitudine comunicando il segreto.
La scrittura è anche lo strumento per sanare la sete inestinguibile di comunicare, di “pubblicare” il segreto scoperto e la sua bellezza formale non può privarla della vocazione primigenia: produrre un effetto, fare che qualcuno apprenda qualcosa.
Un libro, finché non lo leggiamo, è soltanto un essere in potenza, una bomba potenziale, inesplosa. Ogni libro deve avere qualcosa della bomba, dell’evento che, quando accade, minaccia e mette in evidenza, sia pure col tremore, la falsità.
Come uno che lancia una bomba, lo scrittore getta fuori di sé, fuori dal suo mondo e dunque dalla sua atmosfera controllabile, il segreto scoperto. Non sa l’effetto che produrrà, cosa ne sarà della sua rivelazione, e non può dominarlo. Ma è un atto di fede, come piazzare una bomba o dare fuoco a una città; è un atto di fede come lanciare qualcosa la cui traiettoria resta fuori dal nostro controllo.
Puro atto di fede, dunque, la scrittura, ancor più nella misura in cui il segreto rivelato non cessa di essere segreto per colui che lo comunica scrivendo. Il segreto si mostra allo scrittore, ma ciò non significa che sia per lui comprensibile; in altre parole, non cessa di essere segreto per lui come per chiunque altro – e forse solo per lui, perché il destino di chi per primo incontra una verità è mostrarla agli altri e a loro soltanto, il suo pubblico, perché ne svelino il significato.
La scrittura esige lealtà. Più di ogni altra cosa. Essere fedeli a ciò che domanda di apparire dal silenzio. Una cattiva trascrizione, un’interferenza delle passioni dello scrittore, sbricioleranno la necessaria fedeltà. Ed è così che lo scrittore diventa opaco e interpone le proprie passioni tra la verità trascritta e coloro a cui vuole comunicarla.
Lo scrittore non deve porsi come soggetto benché venga da lui ciò che trae scrivendo. Estrarre qualcosa da sé è l’esatto contrario dal porsi come soggetto. Il gesto di estrarre da sé con fiducia rende trasparente la verità; anteporre con vana incoscienza le proprie passioni appanna e oscura la verità.
La fedeltà chiede, per essere realizzata, la purificazione totale delle passioni che devono tacere per far posto al vero. La verità esige un grande vuoto, un grande silenzio dove possa alloggiare, senza che nessun’altra si mescoli alla sua, sfigurandola. Chi scrive, deve mettere a tacere le proprie passioni e soprattutto la propria vanità. Vanità significa gonfiarsi di qualcosa che non è riuscito ad essere, che si gonfia fino a coprire la sua vacua interiorità. Lo scrittore reso invalido dalla vanità dice tutto ciò di cui deve tacere, non ha scopo, dice ciò che non ha esistenza manifesta, e per dirlo mette a tacere ciò che deve manifestarsi, tacciandolo di miseria, sfigurandolo.
La fedeltà forgia in chi la custodisce un essere solido, integro. La fedeltà annienta la vanità che consiste nell’affidarsi a ciò che non è. La verità ordina le passioni, senza strapparne le radici, le pone al suo servizio, le mette al loro posto, l’unico adatto a sostenere l’edificio della persona morale che con esse si forma, mediante l’opera della fedeltà verso ciò che è vero.
In seguito a tale eroica caccia, la gloria si incardina sulla persona dello scrittore, da lui si riflette. Ma quella gloria, in realtà, è di tutti; si manifesta nella comunità spirituale, formata dallo scrittore e dal suo pubblico, e li attraversa.
Contrariamente a ciò che si crede, la comunità dello scrittore e del suo pubblico non si forma dopo che il pubblico ha letto l’opera pubblicata, ma prima, nell’attimo in cui lo scrittore comincia a scrivere la sua opera. È allora, precipitando il segreto partecipato, che si crea la comunità dello scrittore e del suo pubblico. Il pubblico esiste prima che l’opera venga letta o meno, esiste fin dall’inizio dell’opera, convive con essa e con lo scrittore. Solo le opere che ne hanno avuto uno fin dall’inizio riescono ad avere, nella realtà, un pubblico. Dunque, lo scrittore non deve porsi la questione dell’esistenza o meno di un pubblico perché esso esiste in lui appena comincia a scrivere.
Tale gloria, dunque, arriva sempre come una risposta a chi non l’ha cercata né desiderata, benché ne speri, per trasmutare, grazie ad essa, la molteplicità del tempo, consumato, perduto, nella grazia di un solo istante – unico, compatto, eterno.
María Zambrano
*Il testo è tratto da: “Hacia un saber sobre el alma”
*In copertina: Vittore Carpaccio, San Giorgio e il drago, 1502