01 Ottobre 2022

“Basta con la cultura delle marchette: torniamo a indignarci”. Dialogo con Alessandro Mosti

Tutto va bene. Dunque, distruggiamo tutto. Lo schema attuato da “Libropolis”, Festival del Giornalismo e dell’Editoria che si svolge a Pietrasanta da cinque edizioni – la prossima è la sesta – è salutare, indisciplinato, necessario. Al posto di fossilizzarsi in vaghe formule istituzionali – l’uomo è così: tende alla poltrona più che al rischio, s’inchina al risaputo, è incline all’ozio – rilancia, anzi, “resetta” tutto, come bombarda il titolo, “Reset. Anno zero”. Gli editori – di qualità – restano, gli ospiti di rilievo – scelti tra gli anomali e gli inattuali – pure (tra gli altri, segnaliamo Franco Cardini e Gian Ruggero Manzoni, Paolo Nori, Toni Capuozzo, Giuliano da Empoli, Dario Fabbri e Fuani Marino; tra gli incontri quello che promette vertigini è l’incontro tra Pietrangelo Buttafuoco e Giovanni Lindo Ferretti), gli autori audaci anche (su tutti: Louis Aragon, Banine, Dante Arfelli), muta il paradigma, per così dire. Per la prima volta, quest’anno, sono previsti dei “processi” – a Nietzsche, con Paolo Ercolani e Riccardo Roni; al maschio con Francesca Romana Recchia Luciani e Franco La Cecla –, l’“Uno contro tutti” (cioè: “Nessun moderatore. Nessun argomento prestabilito. Nessuna domanda concordata. Nessun argomento intoccabile”; si cimentano Aurelio Picca e Alessandro Di Battista), un premio, “diretta e sovrana e autarchica emanazione di Libropolis”, che non si sa – ovviamente – a chi andrà, e che – ovviamente – non prevede giuria né regolamento. Pare che in quel brandello toscano, tra marmo e ludibrio, severità e sconcezza, monti e Tirreno, abbiano scoperto una sintesi – scaltrita – che mesce caos e ragione, destrezza pubblica e facoltà mistica. Per fecondare qualcosa, d’altronde, bisogna bruciare, e laminare di dubbi il credo: dalle ceneri sorge la fenice e la terra, graziata, si rinnova.

Lui è Alessandro Mosti

Del festival, in attesa di invaderlo e smobilitarlo, abbiamo interpellato il presidente, Alessandro Mosti. L’appello è chiaro: vogliono un pubblico di sovversivi, con uova nel paniere e lotte nell’intestino, più che casti uditori, proni all’applauso, reclini al conforme. Li accontenteremo. Si parte venerdì 7 ottobre – conferenza emblematica di Franco Cardini: “L’odio nella Storia” – per tutto il fine settimana.

La nuova edizione /versione di Libropolis si intitola Reset. Che cosa c’è da “resettare”?

Abbiamo deciso di parlare di reset, senza alcun riferimento alle balzane teorie del grande reset che circolano in rete, per due motivi. Uno, diciamo, interno e l’altro esterno. Quanto al primo, si tratta di una riflessione che abbiamo fatto nei mesi invernali, dopo la quinta edizione del festival. Si è trattato di un’edizione che non ci ha soddisfatto in pieno: pur avendo invitato ospiti di grande prestigio, è mancata quella vivacità e quel fermento che invece, a nostro avviso, hanno caratterizzato le prime edizioni. Insomma, come abbiamo scritto a chiare lettere nella presentazione, il rischio era di fare di Libropolis un rito stanco che si reitera ogni anno, rimanere prigionieri di noi stessi rinunciando a marcare la nostra differenza e unicità. Insomma, c’era il rischio di istituzionalizzarci, il che significava tradire la nostra natura e la missione di Libropolis.

E allora, abbiamo deciso di resettare tutto.

Da un lato, lavorando sugli ospiti: trasversali nell’orizzontalità ideologica e verticalità anagrafica, irregolari, non allineati. Dall’altro, giunti alla conclusione che la presentazione del libro sia un format ormai superato, abbiamo provato a sperimentare, dando vita a processi, duelli, uno contro tutti (nessun moderatore, solo domande del pubblico, senza censura) e dibattiti con la sorte (in cui nessuno conosce i temi dell’incontro). Non è stato semplice, perché molti, troppi, vogliono rimanere nella loro zona di comfort, ma alla fine il risultato mi pare soddisfacente. L’obiettivo è non vedere il pubblico soddisfatto che se ne esce applaudendo il relatore di turno: noi vorremmo contestazioni, dibattiti, risse (verbali, naturalmente), scontri, gente che si incazza, che esce dal festival senza certezze, ma con solo dei dubbi…non sarà semplice, non avverrà integralmente nella VI edizione, ma questo è l’obiettivo che ci siamo posti.

Ma la necessità di un profondo rinnovamento del festival non è l’unica ragione che ci ha indotto a parlare di reset: siamo convinti che il COVID, prima, e la guerra, dopo, siano stati acceleratori di processi già in corso: la fine della globalizzazione, il crollo del mondo unipolare, la riscoperta degli stati nazionali, insomma, come abbiamo scritto:

“Siamo in uno di quei momenti in cui le lancette della storia segnano un nuovo inizio. Tutto si dissolve, tutto si dissipa, tutto è da ricostruire: gli spazi che abitiamo, gli orientamenti che sentiamo, i sentieri che percorriamo, le coordinate in cui ci muoviamo, le idee in cui crediamo. Sono anni decisivi, finestre temporali, attimi fuggenti, per ripensare l’avvenire, viverlo da protagonisti, oppure, costruire un rifugio contro l’inclemenza di esso e sopravvivere nella dissimulazione”.

L’obiettivo del festival, quindi, è quello di animare un dibattito serio, vero, sulle sfide della contemporaneità, dismettendo i panni del tifoso da social e del leone da tastiera.

Nel programma ‘ideologico’ del festival vi scagliate contro “i padroni del vapore” (chi sono, poi?) e i festival librari del “marchettificio”. Bellissimo. Ma non rischiate anche voi di costituire una setta alternativa, l’ennesimo sistemino di potere? Non credete che i vostri proclami siamo un tanto velleitari?

Urca! Questo non ce lo aveva mai detto nessuno! Partiamo dalla fine: siamo velleitari? Assolutamente si! Siamo consapevoli di non avere una potenza di fuoco sufficiente a dare concretezza ai nostri proclami. E allora, non possiamo fare altro che muoverci come una nave corsara, combattendo una guerra di movimento e non di trincea. Noi ci siamo, siamo qui, da sei anni, a Pietrasanta, che abbiamo eletto a nostro quartier generale. Il sasso nello stagno lo lanciamo e continueremo a lanciarlo. Vediamo che succede. Ma poi, sai che ti dico… forse non c’è neppure bisogno che i nostri proclami trovino qualcuno che gli accolga. Voi di Pangea lo sapete bene: gli indici di vendita crollano, le case editrici chiudono, si accorpano, vengono inghiottite da gruppi più grandi perdendo la loro identità, oppure pubblicano biografie di calciatori o influencer per tentare di alzare le vendite. Le librerie vendono palle di Natale e gli autogrill i libri. Al festival più importante dell’editoria italiana si dà spazio al self-publishing (la morte dell’editoria) e Jovanotti diventa poeta. Forse c’è solo bisogno di aspettare per assistere al crollo del establishment culturale in Italia. Mi chiedi se costituiremo una setta alternativa, un ennesimo sistemino di potere… la vedo difficile: nessuno di noi con il festival ci mangia. Ci danniamo per questo festival senza alcuna prebenda o riconoscimento. Non abbiamo nulla da offrire, se non che a Pietrasanta nei giorni del festival ci si diverte parecchio… Su queste basi, quale sistema di potere vogliamo costruire? 

E veniamo alla prima parte della domanda: quando ci riferiamo ai “padroni del vapore” ci riferiamo a chi gestisce i festival più importanti, le principali case editrici, i premi e le riviste di settore; chi decide se un libro vale o no. Il che, beninteso, è del tutto normale, è la ferrea legge dell’oligarchia. Il problema si pone nella misura in cui ad essere valorizzati, premiati e spinti non sono, nella stragrande maggioranza dei casi, libri che rispondono a canoni estetici o culturali, ma libri che si adeguano ai dogmi del pensiero liberal, fatto di fluidità, lingua inclusiva, ambientalismo “gretino”, buonismo caramelloso e retorico. Caso di scuola è stato il premio Strega di quest’anno, assegnato a Spatriati di Mario Desiati. Un libro “floscio e molliccio” per citare proprio questa rivista, ma che ha ricevuto applausi dagli ambienti radical chic, dai giornali e dal caravanserraglio che gira intorno ai premi letterari. E chi prova a rilevare che si tratta di un romanzo modesto, si becca del retrogrado nella migliore delle ipotesi, o peggio, viene lasciato a marcire nell’indifferenza. Molto modestamente, noi Desiati lo abbiamo sfidato a duello e neppure si è degnato di risponderci, anche solo per declinare l’invito. Altri tempi quelli di Puškin e Heeckeren d’Anthès, Lermontov e Martynov o Ungaretti e Bontempelli, solo per fare alcuni esempi…

 Che cos’è per te quel termine fumoso e vago, “cultura”? Cosa intendi per “politica culturale”? 

Bella domanda. “Cultura” è la parola d’ordine, la panacea, mantra recitato un po’ da tutti, istituzioni e salotti buoni, soloni, anime belle. Eppure, non c’è concetto che sia stato così maltrattato, usurato e svuotato di senso. Che cos’è cultura? Dopo che è stata sottoposta a infinita decostruzione/contestazione è rischioso dare definizioni. Una certa idea di cultura, forse a ragione, è morta, resta il “culturame”: che da anni rimastica, rimugina e ri-assembla tutto e il contrario di tutto, alto e basso, cerebrale e pop. Credo che una seria critica della cultura sia ancora possibile. Ma non per intellettualistico gioco di demolizione. Piuttosto, per lasciarsi alle spalle tanti “steccati” ideologicamente allestiti, peggio ancora quando appaiono “soft”. E provocare, pungolare ad una postura spirituale che accolga il rischio e l’azzardo, in vista di sintesi nuove. E magari misurarsi con l’assoluto, se si vuole, dopo anni di debolismi. Ciò ha vita difficile in epoca di influencer. Ma tentiamo ugualmente. Se grazie al quel piccolo fenomeno che è Libropolis qualcuno, magari tra i giovanissimi, guadagnasse anche solo un grammo di capacità di giudizio estetico (nel senso globale del termine estetica), “soggettivo ed universale”, per dirla con Kant, sarebbe già molto. Un minuscolo spazio in meno per l’Industria Culturale!

Quanto alla politica culturale, credo che sia un po’ quello che ho accennato prima: la valorizzazione di un libro (o di un gruppo musicale, basti pensare ai Måneskin), non sulla base di canoni estetici ma di criteri ideologici. E il dramma sta nel fatto che questa politica culturale a senso unico non trova argini. Sulle ragioni di questo deserto, bisognerebbe interrogarsi a lungo… Che poi beninteso: qui non si tratta di ergersi a censore di idee. Ci mancherebbe altro. Direi la stessa cosa se a fare incetta di premi fossero libri che valorizzano il conservatorismo più retrivo e reazionario… qui non si tratta di premiare una parrocchia piuttosto che un’altra. Il problema c’è nella misura in cui il substrato ideologico di un libro prevale sul valore letterario del libro. Insomma, servono grandi scrittori, non modesti scrittori di destra o di sinistra…

Ti chiedono di dirigere il Salone del Libro di Torino. Cosa fai? 

Nomino Davide Brullo Direttore Generale, o Vice-Presidente, quello che conta di più in base allo statuto, e gli chiedo di valorizzare l’editoria di qualità (che in Italia esiste, e non è necessariamente fatta dai piccoli) e di creare eventi intriganti, suggestivi, estremi. Basta saloni in cui basta pagare per avere uno stand, basta felpe di Harry Potter o i manifesti fantasy. Basta stand dedicati al self-publishing. Credo si debba provare a valorizzare quegli editori che praticano questo mestiere con la cura dell’artigiano, che vedono nel libro non soltanto un bene di consumo, ma soprattutto un bene immateriale. Che non guardano all’istantaneo, ma all’eterno e al duraturo. E poi gli eventi… ragazzi, due palle colossali. Un enorme marchettificio, sviolinate per qualunque libro venga presentato, mai una stroncatura, una critica… centinaia di libri presentati e neanche uno brutto, o meritevole di critica. E nel frattempo, in Italia non si legge più. Magari si preferisce fare altro, piuttosto che leggere un libro mediocre…

 L’ultimo libro che hai letto, il primo che ti ha emozionato fino a cambiarti la vita. 

Io sono un lettore abbastanza compulsivo: di recente ho letto, quasi contemporaneamente, I due stendardi di Rebatet, La Russia eterna di Luca Gori e Il Mago del Cremlino di Giuliano da Empoli. Quanto ai libri che mi hanno cambiato la vita, tra i primi che ho letto, direi l’Iliade e Il Signore degli Anelli. Ma avendo passato gli ultimi vent’anni a leggere soprattutto saggi, ti direi quei libri usciti da quella straordinaria fucina di intellettuali nata negli anni Ottanta, guidata da un brillante pensatore fiorentino, poi divenuto uno dei principali politologi italiani, e ispirata da un filosofo francese.

Gruppo MAGOG