Lo so, adoro riesumare i cadaveri, qualcuno potrebbe darmi del necrofilo. La prima volta in radio. Francesco Borgonovo, ora braccio armato di Maurizio Belpietro a La Verità, all’epoca pimpante stagista a Libero, teneva una trasmissione radiofonica. Mi telefonava una volta alla settimana. La rubrica si chiamava ‘L’animale della critica’. Lo so. Logo orrendo. Comunque. Stroncavo un libro. Accennavo a un altro, beatificato. Sarà stato il 2003. La rubrica radiofonica, poi, è diventata una rubrica vera (La stroncatura) su Libero, ed è durata finché è durata, fino allo scorso anno, quando consensualmente – peccato – io e Francesco Specchia abbiamo ‘divorziato’. D’altronde, lo stesso ‘genere’ lo pratico su Linkiesta, nella rubrica – perdonate la mia consueta banalità – Il bastone e la carota. Ogni settimana bastono un libro e consiglio il libro buono. Ovviamente, faccio infelici tutti: tutti s’incazzano per il libro bastonato e a quello beatificato non va bene essere usato come carotina per nutrire i conigli. Il punto, appunto, è questo. L’Italia è il paese dei leccaculo ma non dei duellanti. Didascalia per orfani di senso. La ‘stroncatura’ è un genere letterario antico come i giornali. Per sua natura, la ‘stroncatura’ esaspera i toni, abusa in metafora, è una eresia retorica. La ‘stroncatura’ non è un esercizio critico, ma un informato sfottò. Con la strategia del grottesco, dell’orrido e del funambolico s’intende sbertucciare l’autore di quella che si ritiene essere una emerita cretinata. Una cretinata tale che non ammette lo sforzo critico. L’esercizio della stroncatura – che deve far scompisciare dalle risa il lettore e far rosolare di rabbia lo stroncato – però, chiede un degno florilegio di citazioni, cioè, pretende che il libro sia letto con attenzione. Cosa che i giornalisti ‘culturali’ non fanno quasi mai: sfogliano quattro pagine, dicono che il libro è ‘il più bel libro degli ultimi cinque anni’ (giusto per gusto della sobrietà) e fan felice il corteo: editor, editore, scrittore, amici dello scrittore, se stessi, predisposti ad aurea carriera negli happy hour dell’editoria odierna. Solo che… Solo che questo non è un Paese dove è possibile fare le stroncature. Per ragioni intrinseche, certo – il mondo culturale, sempre&comunque, è una mafietta dove è bene essere amici di tutti – ma anche ‘professionali’: il giornalista ha l’obbligo della verità (ovvio), della pertinenza (che sia roba che interessi al pubblico) e della continenza (non è lecito sbracare retoricamente). Tutte cose buone&giuste in alcuni campi specifici (la cronaca), ma non in quello culturale, che reclama norme apposite. Remo Ceserani, non certo un ‘camerata’, su il manifesto, il 3 gennaio del 2016, ha scritto, finalmente, “Il mondo letterario e giornalistico americano continua a coltivare, sia pure sporadicamente, il genere della recensione tagliente, criticamente ben motivata, incurante delle buone maniere e degli intrecci editoriali tipici del mercato letterario dei nostri tempi. Un po’ d’invidia, chi approda negli States dal paludoso mondo del giornalismo letterario italiano, non può non provarla”. Ad ogni modo. Io sono un lettore compulsivo ed emotivo, non certo cattedratico. La risposta alle stroncature che ho scritto su Linkiesta (qui un repertorio) sono il degno specchio di questo Paese in cui la cultura è uno specchio per i lacché. Di solito mi si offende. Via social, ovvio. Non siamo ai tempi in cui Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli si sfidavano a duello per difendere le proprie opinioni, artisti con le palle. Di solito dicono che sono un ‘fascista’ – se conoscessero il pedigree di famiglia arrossirebbero, in tutti i sensi; comunque, io non ho tessere di partito e prendo parte solo al ‘bel gesto’ dei perduti, dei perdenti, dei poeti. L’unica eccezione è Carlo Rovelli, il fisico. Ho stroncato il suo libro edito da Adelphi. Mi ha cercato. Ci siamo scritti. Ci siamo scambiati dei libri. Abbiamo parlato di Rainer Maria Rilke. Altrimenti. C’è chi ti fa scrivere dall’avvocato. C’è chi ti fa minacce velate di seta. L’ultima è simpatica. Paolo Di Paolo. Lo scrittore, il giornalista, quello che è. “Non sapevo della tua stroncatura. Leggerò con curiosità ma non è una strada produttiva. Dice Caterini che hai scritto un bel libro, magari meglio concentrarsi su quello che sul risentimento”, mi scrive. Io gli rispondo, semplicemente, “sono semplicemente stufo di leggere libri modesti”. Segue scambio tra scrittori in isteria. Di Paolo, ne sono certo – vince la mia visione antropologica ingenua e ottimista – è un bravo cristo, un bravissimo ragazzo. Ha scritto un libro che non mi è piaciuto. Stop. Mi auguro ne scriverà di migliori. Dov’è il problema? Rispondi. Se hai voglia. Sennò passa oltre. Che vuol dire, non è una strada produttiva? Che forse farei meglio a scrivere altro, di meglio, per facilitarmi la ‘carriera’ letteraria? Ma la letteratura è lotta e delirio, mica roba da portaborse e da educande. Capisco, però, che qui c’è davvero una idea opposta di letteratura. Cresciuto nella redazione di Atelier, ho imparato da Marco Merlin (che può permettersi di scrivere una cosa come questa) la ferocia. Il lavoro funzionava così. Tiravamo fuori i testi. Ci denudavamo. E ce ne dicevamo di ogni, ulcerandoci con le armi della critica. Scassandoci le angeliche ali. Solo così si fa letteratura. Menandosi. Sapendo che un conto è la persona, l’amicizia, l’umanità – indiscussa. Un conto l’opera, la forma, lo scritto, su cui è necessario, terapeutico perfino, agire con violenza. Ma gli scrittori italiani, oggi, non accettano di essere smutandati, che qualcuno, con lo schiacciamosche, gli faccia totò sulle pingui chiappe.
Davide Brullo