Il Bloomsbury Group si è estinto da un pezzo, ma parte dei neo maître à penser nostrani pare non essersene avveduta. Come in una trista parodia, un nugolo di autori nostrani gioca ad imitarne costumi e inclinazioni, forse con la remota speranza che Virginia Woolf o Lytton Strachey si affaccino dalle terrazze dell’altro mondo per trasfondergli qualche goccia del proprio spirito. Nemesi vuole che invece l’attuale universo letterario del Belpaese sia costellato da romanzieri di professione obliati dal proprio ego, che, dominando le classifiche, promuovono a comune denominatore la necessità di produrre letteratura impegnata, modernamente classificata, con cui educare, catechizzare quel lettore dallo sguardo bovino che si aggira spaesato fra gli scaffali di una libreria.
Vagabondando pertanto in quel vuoto narrativo che potrebbe avere i contorni oscuri e sfumati del Nulla endiano, capita di imbattersi in romanzi di recente produzione, incensati dalla solita critica, la cui risonanza desta al contempo cruccio e meraviglia. È il caso di Spatriati (Einaudi) di Mario Desiati, classe 1977, origini pugliesi, baffi alla Freddie Mercury, un passato professionale nel mondo dell’editoria, una vita divisa fra Roma Centocelle, Berlino – refugium peccatorum dei bobo – e Martina Franca, terra d’infanzia.
Il titolo è l’emblema del neither fish nor fowl mestamente rappresentato nel libro. Il termine “spatriato” ha una particolare accezione in dialetto pugliese – spiega l’autore, equipaggiando l’avventore romanzesco di quella esegesi scolastica di cui la letteratura dovrebbe fare a meno – non è solo sinonimo di expat, ma sta anche a identificare colui che non possiede qualcosa di fisso, è sinonimo di errante, ramingo, senza meta, irrisolto. Nessuna libera interpretazione del titolo viene concessa al lettore, perché Desiati gli rifila col cucchiaino continue spiegazioni, narcotizzandolo con una narrazione pleonastica, ridondante, priva di quelle ellittiche omissioni che lasciano aperto il giudizio di chi si inoltra nella lettura. L’autore, troppo preso a fornire al romanzo un’etichetta ben precisa, una morale, finisce per imbavagliarne il testo, non lo lascia respirare e il risultato è un immaturo tentativo di indottrinamento del lettore per mezzo di quel moralismo al contrario predicato da una certa élite allineata alla magna charta del pianeta liberal. Spatriati risulta pertanto un romanzo scorretto, non politicamente parlando – ça va sans dire –, ma nel senso di disonesto, perché propone una cosa – una storia di vagabondaggi esistenziali – e ne promuove un’altra – una lettura ideologizzata dai comandamenti del gender free, già in copertina si intravede una figura androgina, cravatta, bretelle e acconciatura à la garçonne, un individuo non polarizzato nel suo genere.
Desiati mette infatti in scena una relazione che ha la velleità di essere moderna, fluida, senza identità certa, ma per raggiungere il suo intento utilizza – senza mai riuscire a superarlo – il dualismo per eccellenza, il binomio più antico del mondo, la primitiva combinazione uomo-donna. Avanguardia pura. Il remoto Lytton Strachey risulta comunque più innovativo, con i suoi dialoghi uomo-donna a ruoli invertiti, ciascuno nei panni dell’altro (in The Really Interesting Question, uscito postumo nel 1972, pubblicato da Castelvecchi nel 2015 come Uomini, donne, sesso e arte).
Lo stile pretenziosamente lirico di Desiati si mescola poi con un intreccio mal costruito a tavolino, una narrazione disarmonica, in cui le due metà del libro sembrano germogliate da due semi diversi, un pasticcio in salsa pugliese difficile da digerire. Il reflusso gastro-letterario è assicurato.
A far da sfondo ai tumulti onanistici di un protagonista con pulsioni represse da chierichetto di provincia, c’è poi l’immancabile famiglia borghese, tratteggiata con cliché stantii, come la relazione adulterina genitoriale, lui medico, lei infermiera, un canovaccio da commedia di Lino Banfi della prima ora. E ancora, nell’accezione di spatriato, già che c’è, l’autore butta nel calderone anche il patriarcato – che di questi tempi è come la petite robe noir, sta bene con tutto – compiendo un vero e proprio maschicidio dell’uomo-etero-bianco, giacché gli unici uomini del romanzo che non devirilizza vengono parodiati come portatori sani di machismo, di quella mascolinità oggi definita dalle neofemm “tossica”, facendosi così strada nel fresco filone della letteratura castrante.
Spatriati, nel suo complesso, è un romanzo floscio, molliccio, ma il suo autore veste i panni dell’alfiere dell’equilibrismo, non scontenta nessuno, porta il vessillo della gauche fru-fru e ammicca ai sostenitori delle famiglie multicolor, come pol. corr. comanda. I suoi personaggi vivono nell’eterna indecisione dei bamboccioni di casa nostra, scelgono di non scegliere, non si assumono responsabilità, esistono in maniera ambivalente e polimorfa, optano per la comodità, e lo fanno trincerandosi dietro la maschera dei diversi, dei raminghi, degli errabondi inquieti. Vengono, vanno, ritornano – come le nuvole di De Andrè – si adagiano sui cuscini imbottiti dei loro canapè, pronti per una nuova, fittizia, rivoluzione da salotto. Lasciano i nonni contadini al meridione e si trasferiscono al nord, per laurearsi in luccicanti atenei e condurre una vita inamidata da consulenti in giacca e cravatta, ingessati come manichini di Zara, o emigrano all’estero per deragliare da una prestabilita vita binaria, per condurre un’esistenza fluida, forse perché, per dirla alla Woody Allen, questa può raddoppiare le tue chances al sabato sera.
Desiati manda avanti i due personaggi che, sotto le mentite spoglie di nomadi dell’esistenza, celano una lettura totalmente ideologizzata dal genderismo, che va ben oltre il giuoco dello scambio degli abiti e dei rossetti, presentando una narrazione calata unicamente nel tempo presente, che ambisce a lasciare il segno ma non ha i numeri per farlo. È destinata sul nascere a finire nel dimenticatoio perché l’autore punta tutte le sue chips avendo in mano una coppia di sedicenti anticonformisti e un tris di presunte trasgressioni, tenta l’all in senza rendersi conto che al tavolo delle lettere il suo full è debole, le presunte disobbedienze non bastano, laddove il campo letterario in cui l’autore anela a prendere posto è fatto di grottesca ordinarietà raccontata con un linguaggio misurato ed elegante, privo di quegli inutili orpelli che ne involgariscono la narrazione. Si prenda a mero titolo di esempio Le sere, in cui lo scrittore nederlandese Gerard Reve riesce a raccontare di una gioventù traviata in maniera amorale e ironica.
Come prevedibile, avendo compiaciuto un po’ tutti gli attuali tipi umani à la page, il romanzo riceve un immediato radical chic spin, l’élite progressista lo endorsa sui giornali e sui social, il circolo di mosche che ronza attorno ai premi letterari lo premia con gli zuccherini, lo centrifuga con l’ammorbidente, lo carezza con guanti felpati, riservandogli melodiose parole d’entusiasmo. I suoi protagonisti vengono definiti “fuori dalle righe”, la storia qualificata come “sovversiva”.
Atteso che il lettore inconsapevole di Desiati abbia voglia di osare davvero, gli si suggerisce piuttosto la lettura di Scende giù per Toledo di Giuseppe Patroni Griffi, autore anticonformista, libero intellettuale che, nel 1972, sovvertiva gli schemi di genere con la relazione fra il femminiello napoletano Rosalinda Sprint e il militare Jack Cateratta, una storia cruda, nuda e poetica, una forma d’amore, non come la sottospecie di friendship with benefits con pretese di profondità emotiva inscenata da Desiati, una relazione che si sostanzia in due egoismi che in maniera reciprocamente opportunistica si incontrano in diverse fasi della vita.
E per tenersi alla larga da quel meridionalismo caramelloso e retorico che pervade Spatriati, fatto di strade già battute, dei soliti colori e sapori del Sud, del qualunquismo di coloro che non si lavano la salsedine dalla testa per trattenerne il gusto, alla scrittura che secerne melassa di Desiati si esorta il lettore a preferirvi quella di Alessio Forgione, autore che verga parole con la penna eretta, figlio putativo di La Capria, che con i suoi romanzi – Napoli mon amour e Giovanissimi (NNEditore) – scava nelle bassezze umane con ferocia, non neghittosamente come lo scrittore della Val d’Itria, che ne lambisce la superficie senza arrivare al sottosuolo. Forgione inoltre non tradisce i propri natali da meridionale con stucchevoli piagnistei, ma li carezza con attimi di malinconica nausea, di spleen, senza lieto fine, che lo rendono, oggi, massima espressione contemporanea dell’esistenzialismo partenopeo.
E qui il cerchio si chiude, si torna al titolo, allo spatriamento, raffigurato come una faccenda da radical chic da raccontare allo psichiatra del quartiere bene prima della lezione di yoga all’aperto, non certo una pagina di letteratura da ricordare, con la sua narrazione pavida, che non tocca mai gli estremi, non deborda, è priva di eccessi, corre su un filo e si tiene sempre in equilibrio, non si sporca le mani, non rimesta nel torbido. Lontana anni luce dalla letteratura che racconta degli esiliati, dei confinati, Spatriati è la storia dei borghesucci annoiati dalla famiglia tradizionale che giocano agli eterni Peter Pan, di un progressismo che si sconfessa da solo, riempendosi la bocca di libertà dai ruoli e tornando sempre ad Adamo ed Eva, invocando relazioni ma tornando sempre a quelle particelle elementari, coppia e famiglia che, per dirla alla Houellebecq, rappresentano l’ultima isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale e fungono, per l’uomo contemporaneo, forse da unica soluzione alla frammentarietà della vita moderna.
Desiati, per il momento, rimpatriatelo nel tacco dello Stivale.
*Era già tutto previsto. La stroncatura che si propone in questa pagina è stata pubblicata in origine il 10 agosto del 2021 su “L’Intellettuale Dissidente”. Fabrizia Sabbatini, con elegante spietatezza, aveva già intuito plausi, premi, zuccherini.