12 Aprile 2018

Vi ricordate “l’uomo nero”? Abitava i nostri incubi incredibili. Era una rivendicazione femminista contro l’uso delle donne come robot

Vi ricordate quando eravamo bambini e mamma ci diceva: “Se non mangi, chiamo l’uomo nero”. Oppure: “Se non vai a scuola, viene l’uomo nero a prenderti”. E ancora: “Se non ti addormenti, arriva l’uomo nero e ti dà una botta in testa”. Prima ci facevano piangere di paura e poi ci minacciavano: “Se non smetti di piangere, l’uomo nero si prenderà i tuoi giocattoli”.

Io da bambino non capivo quasi niente di economia, ma una cosa sì: fare l’uomo nero era una professione molto redditizia, anche se stancante. Un uomo nero correva di casa in casa per tutto il paese senza un attimo di respiro né un giorno di ferie. Persino la domenica c’era sempre una mamma pronta a dire: “Se non vieni a messa arriva l’uomo nero e ti porta all’inferno”. Ero arrivato a temere che mia madre, sostenitrice di un’accoglienza senza ‘se’ e senza ‘ma’, volesse riservare una cameretta all’uomo nero proprio accanto alla mia. In questo modo, al primo accenno di pianto o alla prima marachella, l’uomo nero sarebbe stato pronto a intervenire più veloce di un orco e di un vampiro ma anche di una volante della polizia. Questa spaventosa creatura veniva continuamente evocata, e tanto bastava a farmi accettare di inghiottire appiccicose e insipide pappette.

Crescendo, ho visto i miei amici di infanzia distrutti dalla paura che l’uomo nero potesse prima o poi ripresentarsi. Molti di loro mi hanno confessato di svegliarsi ancora in piena notte con in testa un’inquietante melodia: “Ninna nanna ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Lo darò all’uomo nero che lo tiene un anno intero”.

Se le nostre mamme avessero provato a spaventarci con l’uomo rosso, nessuno sarebbe diventato razzista. Anche perché ai pellerossa ci avrebbe pensato Tex Willer, ci sentivamo al sicuro.

Ma allora perché non l’hanno fatto? Perché le nostre mamme hanno continuato a perpetrare l’idea che l’uomo nero fosse più cattivo dell’uomo rosso? Studiando a fondo il problema, ho capito che i neri africani non c’entrano nulla: la questione è politica e riguarda l’egemonia della cucina comunista. Negli anni Cinquanta, tra le donne italiane circolava un curioso libretto intitolato Il manuale della cuoca bolscevica, scritto da Galina Cocimelova. Vi era scritto che i cibi rossi facevano bene al cuore, mentre la preparazione di un piatto di spaghetti al nero di seppia era sufficiente a mandare una cuoca a spaccare pietre in Siberia. Molte casalinghe italiane cominciavano allora timidamente a ribellarsi al perdurante maschilismo dell’epoca e rigettavano con forza l’idea fascista della donna vista come perfetta espressione delle occupazioni famigliari. Da questa prospettiva, l’ossessione di mia madre per l’uomo nero assume un senso tutto nuovo: è la rivendicazione femminista contro l’uso delle donne come robot da cucina. Quello che mia madre non ha mai saputo, è che mentre in Italia governava il fascismo, nella Russia bolscevica venivano istituiti i Commissariati del Libero Amore. Alle donne veniva suggerito il nome del politico con cui andare a letto, e quelle che si rifiutavano venivano frustate. Che brutta cosa! Se mia madre l’avesse saputo, altro che uomo nero! In un impeto di rabbia femminista si sarebbe rifiutata di fare l’amore, e a voi lettori sarebbe toccata una sorte assai peggiore: perdervi gli articoli del sottoscritto.

Francesco Consiglio

 

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