È certamente sbagliato e allarmistico parlare di agonia. Ma di forte crisi è corretto affermarlo. I quotidiani di carta, quelli venduti insomma all’edicola, sono praticamente ignorati dai giovani attorno ai 18-30 anni. Roba da vecchi? Brutto dirlo, ma è così. I ragazzi, termine col quale ormai si designano oggi pure i quarantenni, preferiscono i “social”, ovverossia le reti sociali tanto per sottrarsi alla dittatura dell’anglo-americano. Con tutti i rischi del caso, in primis le notizie false (fake news), quelle interamente inventate oppure distorte, spesso messe in rete da misteriosi algoritmi gestiti da gruppi che intendono influenzare l’opinione pubblica e le scelte politiche. Chi ha seguito lo scandalo che ha coinvolto l’entourage del presidente Usa Donald Trump conosce perfettamente ciò cui ci rivolgiamo.
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La televisione, nel bene e nel meno bene, offre un’alternativa seria. Anche per chi (come me che sono giornalista) è attento ai mutamenti comportamentali e linguistici. Con il passato governo giallo-verde (scelta cromatica che sveltisce l’eloquio, parlato e scritto) e le sue frequenti e alternanti dispute interne, i talk show sono proliferati a dismisura, dal mattino (“Agorà” di Rai 3 o “L’aria che tira” in tarda mattinata e nel primo pomeriggio e ben condotto da Tiziana Panella), come se fossero, per popolarità, copia dei vecchissimi intrattenimenti via etere quando non c’era ancora la trasmissione via cavo… I dibattiti, cui partecipano sia politici che giornalisti, hanno innalzato l’audience di alcuni canali, in primis La7.
Seguire con attenzione critica questi programmi è interessante: si assiste alla ricaduta di quel cambiamento tanto sbandierato da nuovi movimenti politici e dall’oggettivo desiderio della gente comune, stanca di antiche e fallaci dinamiche dei vari apparati pubblici. Si scoprono scandali, anche internazionali come la violazione fisica e psicologica delle donne, si viene a sapere del disagio dei dipendenti di fabbriche letteralmente spostate in Paesi dove la manodopera costa incredibilmente meno (purtroppo con la tiepidezza o l’impotenza dei sindacati tradizionali), si mostrano sacche di miseria e di degrado umano alle periferie di città ricche, si constatano pregiudizi e razzismi, si riflette su una stantia verità, ossia che gli italiani siano tutti, senza eccezione, brava gente. Viene messa in vetrina, con tanto di immagini e statistiche, l’uso drammatico e disinvolto di eroina e altri nuovi veleni. Ci si informa, infine, che esistono e si dilatano gruppi estremistici di destra, anche in terre che hanno amaramente applaudito e insieme subito fascismo e nazismo. A questo proposito i padri e i nonni hanno poco ascolto da parte di figli e nipoti, i quali hanno sempre più smemoratezza o ignoranza storica. Recentemente un sondaggio fatto in strada da un’emittente televisiva ha preso atto che rarissimi adolescenti conoscono il significato di alcune ricorrenze come il 25 aprile. E tanto meno il 27 gennaio, giorno della memoria a ricordare il massacro degli ebrei, degli zingari , dei dissidenti politici e degli omosessuali europei. Mutismo assoluto se si chiede loro perché è stato scelto il 27 gennaio. Quel giorno del 1945 l’armata sovietica entrò nel campo di concentramento di Auschwitz, scoprendone e rivelandone al mondo tutto l’orrore. Si riscontra molta perplessità anche se si parla delle leggi razziali (applicate anche in Italia) e della sconcertante e comica “razza ariana”.
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Dalla tv, come dicevo prima, emergono con nettezza comportamenti e linguaggi. Pare forse una sciocchezza o un rilievo marginale, ma fateci caso: gli uomini con la barba, lunga o appena abbozzata, aumentano di numero. Lo stesso per la cravatta: pochissimi la usano. Tendenzialmente ce l’hanno perlopiù gli anziani e coloro che aderiscono a Forza Italia, più o meno apertamente. A questo proposito va sottolineata una simpatica contraddizione: Silvio Berlusconi non ha più la cravatta (ma il doppio petto sempre), preferendo una quasi lucente camicia nera, talvolta sbottonata.
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C’è poi il dolentissimo argomento libri. In Italia si legge pochissimo. Anche se alcuni giornali, come La Stampa con Tuttolibri, La Repubblica con Robinson e il Sole 24 ore con La Domenica, ne parlano bene e diffusamente, dando una mano a una parola quasi magica nel mondo dell’editoria, il passaparola. La televisione dà notizie sui libri. Un milione di persone segue ogni giorno, condotto per anni su Rai 3 alle 12,25 da Corrado Augias cui è subentrato il collega Giorgio Zanchini. È un ottimo strumento di conoscenza, non solo letteraria, ma anche scientifica e civile. In questi giorni – faccio un esempio – Zanchini ha intervistato due giornalisti, Carlo Bonini e Giuliano Foschini, autori di Ti mangio il cuore (Feltrinelli). I quali hanno scavato sulla cosiddetta quarta mafia (dopo Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra). L’attività criminale di questa coda lunga mafiosa agisce nella Capitanata, in provincia di Foggia e nel Gargano. I killer sparano in faccia, subito dopo pare che lecchino il sangue delle vittime; non a caso i criminali, chiamati dalle Procure locali sbrigativamente “i baresi”, si sottopongono a riti di iniziazione. “La mafia al Nord non esiste”: questa la frase sciocca di un politico di destra, tempo fa. Ebbene, in Quante storie si è mostrata la cartina dello stivale in cui sono segnate in rosso (colore del pericolo) Lombardia e Lazio. Ricordate “Mafia capitale”? Tv e giornali hanno informato, ma ovviamente i giovani sanno poco o niente. Non sanno, per esempio, che uno dei mafiosi, tale Gaudenzi, un giorno ha sparato in aria dal balcone di casa sua pur di farsi arrestare. In un video, mostrato dalla televisione, il Gaudenzi ha pronunciato una frase su cui riflettere: “Non siamo mafiosi, noi siamo fascisti”. E ha aggiunto di voler vuotare il sacco solo di fronte al procuratore di Catanzaro, l’ottimo Nicola Gratteri.
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Torniamo alla sbornia dei dibattiti, che ha avuto un picco questa estate dopo l’exploit di Matteo Salvini. Molte parole che, in temporanea assenza di fatti concreti, somigliavano a divinazioni o, se volete, a oroscopi. Comunque gli spettatori, grazie ai dibattiti, scoprono finalmente che faccia hanno molti giornalisti dei quali hanno solo sentito parlare o dei quali forse leggono gli articoli. Generalmente, occorre aggiungere, che se si domanda a qualcuno di elencare almeno cinque reporter, scatta l’imbarazzo. Forse esagero, ma il cosiddetto uomo della strada tende a citare Indro Montanelli, Enzo Biagi o Giorgio Bocca, maestri di decenni fa.
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Veniamo al linguaggio. Anche se chi parla ha una buona cultura pronuncia parole alla moda, senza accorgersi di ingerire così un conformismo lessicale. Gli spettatori ogni giorno sentono dire: narrazione (o story telling), perimetro, due passi indietro o di lato, il problema è culturale, avversario da non demonizzare, spin doctors (i consiglieri o suggeritori intellettuali; ma che buffo: il termine indicava originariamente un gruppo musicale rock di New York), default, atto di responsabilità, fasce sociali, trash o splatter (genericamente spazzatura), perimetro, influencer (persone che influenzano l’opinione pubblica, anche se davvero poco valenti). E via dicendo, l’elenco è davvero lungo. Con “antipatica” annotazione, c’è da dire che per un giornalista divenuto televisivamente visibile i talk show possono essere occasione per fare carriera. Da vice-direttore si può passare a condirettore. È successo, credetemi. Un ulteriore vantaggio per il giornalista che sa “bucare il piccolo schermo” ed è anche autore di un libro: la regia mostra la copertina. Una graditissima pubblicità. Il lato indubbiamente favorevole per tutti è che ci si ricorda il nome di un giornalista che parla chiaramente e, soprattutto, scrive con grande bravura. Ce ne sono. La speranza è che siano anche letti sui giornali.
Pier Mario Fasanotti
*Pier Mario Fasanotti ha lavorato all’Ansa e a “La Stampa”, è stato caposervizio Cultura e inviato di “Panorama”. Tra i suoi libri, ricordiamo la biografia di Salvador Dalì (“Io sono pazzo”, il Saggiatore, 2004) e “Tra il Po, il monte e la marina. I romagnoli da Artusi a Fellini” (Neri Pozza, 2017)