03 Dicembre 2018

“Illusionista, fabbro, divinità sublunare… è lo tsunami che non ti aspetti”: Gianluca Barbera sfida Davide Brullo

Sarei tentato di saltare a piè pari l’introduzione per lasciarvi entrare subito nel vivo dell’intervista, che come vedrete – grazie alle doti del nostro intervistato – è così bella da scottare come una pietra arroventata tra le dita. Ma qualcosa dirò perché su Brullo non si può tacere. Brullo suscita la parola. Suscita stupefazione. Per poi annichilire. Brullo è maestro inarrivabile di stile. Illusionista, fabbro, agitatore, divinità sublunare, forza primordiale. Demiurgo di vite esemplari trasformate in arte. Come lui nessuno in Italia. È della genia dei Cèline, dei Nabokov, dei Borges. E non pensiate che esageri. Basta leggerlo per convincersene. Abbiamo per le mani un patrimonio letterario unico al mondo e ancora non sappiamo vederlo, capirlo. È come avere Pompei sotto il naso e lasciarla sepolta. Brullo non può non essere letto da tutti. È patrimonio comune. È lo tsunami che non ti aspetti, che spazza via ogni fondamento. Scandaloso, spiazzante, sempre sopra le righe. Si dice così. Ma la verità è che lui suona su un pentagramma tutto suo, collocato ben al di sopra di quello dei comuni mortali. Mi sono spesso chiesto quanto ci sia di posa in lui e quanto di inevitabile. Alla fine mi sono reso conto che è una domanda priva di senso. Perché al suo cospetto tutte le normali categorie saltano. Brullo incarna una preziosissima tipologia umana: quella del genio. E il suo Un alfabeto nella neve (Castelvecchi, 2018) è come il cesto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un’opera da cui non si finisce mai di attingere. Più lo sondi e più ne resti irretito, prigioniero per sempre del suo incanto.

BrulloCaro Brullo, Un alfabeto nella neve è l’ennesimo apocrifo. È chiaro che ormai tu sei il maestro assoluto di questo genere. Perché questa passione per gli apocrifi? Forgiare nuove vite ti fa sentire onnipotente?

Apocrifo significa ‘nascondere’: in questo caso – e negli altri – l’intento è opposto, svelare la nudità, capire se l’ultimo velo cela il dio, il mostro, il niente. In realtà, si adempie la propria vita disintegrandosi nelle vite altrui, così fa lo scrittore. Direi, però, che più che ‘apocrifo’ il termine esatto è ‘tradimento’: si tradisce la propria vita curando quella di un altro, immaginaria.

Veniamo ai personaggi. Chi è veramente Boris Pasternak? Quanto è importante la sua opera?

Un uomo che sapeva interloquire con Rainer Maria Rilke e con Iosif Stalin, che ha tradotto Shakespeare e gli ignoti georgiani e i singulti delle betulle, che ha scritto con austera semplicità e con labirintica furia, che ha tradito con innocenza, orientato dal perdono, che ha anteposto l’amore al giudizio. Direi che è un uomo compiuto – e non ne dimentico le viltà, il sonnambulismo. Il dottor Zivago, forse, è il lavoro mediocre in un’opera immensa.

E Marina Cvetaeva? Qual è la sua forza?

Bisogna eseguire l’esegesi della fiamma per capire Marina, che con arcangelica gioia dettagliò i minimi sintagmi del dolore. Quanto al resto, non possiamo classificare gli assoluti, ma sperare che ci stigmatizzino.

Quanto c’è di vero nelle lettere e quanto di falso? E nella cornice che le precede?

Le lettere tra Marina Cvetaeva e Boris Pasternak sono riportate, in parte, da Serena Vitale in due libri, Il paese dell’Anima e Deserti luoghi, editi da Adelphi, di necessaria e soffocante bellezza. Pasternak racconta, nella sua autobiografia, che l’impiegata del Museo Skrjabin a cui affidò il prezioso epistolario con la Cvetaeva smarrì il malloppo durante la Seconda guerra. Forse – in una variante narrativa che non ho contemplato – è proprio Pasternak ad aver distrutto quei fogli, verbi incuneati nel vetro e in una plateale vergogna. Quanto al resto, le lettere del romanzo le ho scritte io – cioè, nella finzione, una donna troppo innamorata per non ostinarsi alla vendetta postuma, agita sempre contro i morti, contro la morte.

Si ha l’impressione che tu nasconda qualcosa d’irrisolto nei confronti di tuo padre: è così? È qualcosa di personale o di universale?

Mio padre si è ucciso quando avevo dieci anni. Mi rivelarono la natura della sua morte – il suicidio – quando ne compii venti. Dopo dieci anni, un corpo morto espia la carne, non resta che un alfabetiere d’ossa. Mi sembra un evento propizio alla scrittura. C’è cosa più universale della morte del padre e del trovare il figlio attraversando il padre?

Forse no. Sempre da lì si passa. Torniamo all’arte. Sul piano estetico, ti senti più vicino a Borges, a Nabokov o a nessuno dei due?

Borges mi ricorda il dito mignolo che ho sepolto alla Recoleta, il cimitero di Buenos Aires, una città di metamorfica bellezza, una città costruita sul dorso di un giaguaro. Di Nabokov ricordo Zembla, la città immaginata, puro nevaio letterario. Nabokov, troppe volte, è stucchevole – tanto quanto è geniale –, Borges troppo spesso è meccanico, ovvio, nel suo proteiforme citazionismo. Sono entrambi costruttori di labirinti, prodigiosi – io vorrei essere il Minotauro, o la sua sorellastra, Arianna.

Ti vedo meglio nei panni del Minotauro. Ma toglimi una curiosità. La tua scrittura procede tutta per metafore: trovi che siano così risolutive?

Penso che si parli tradendo la parola – per questo, la poesia è un atto di verità. Chi parla a vanvera di ‘retorica’ non sa che è eludendo la grammatica che si tocca l’ugola di un dio.

Di recente hai scritto che pubblicare è un atto osceno: puoi spiegarti meglio? Non c’è un pizzico di snobismo, ancora una volta, in questo? Non è che si dice una cosa per celarne una’altra (per esempio le proprie ambizioni)?

In tutto ciò che scrivo c’è il narcisismo di un bambino senza padre, un vittimismo colpevole, astuto, idiota. Che pubblicare sia osceno è certo: si mostrano le proprie vergogne in pubblico, con astio si ostenta il deforme. Più osceno di così.

Hai dei modelli letterari, per così dire?

Prendere a modello qualcuno significa tradire prima ancora di aver studiato una strategia di menzogne. Occorre sfidare il ridicolo, sfondarsi, nudi – sapendo che si è il calco di un suono inaudito, da sondare. D’altronde, sono un cane, un vile, continuo a mostrarmi per ciò che non sono, un genio, mentre la mia natura è quella di fuggiasco.

I tuoi tre libri capitali?

Una volta ho allineato Moby Dick, La morte di Virgilio, Mentre morivo. Ora direi l’opera di Rainer Maria Rilke, quella di Boris Pasternak, Saint-John Perse. Domani sarà lecito cambiare confini.

Non mi aspettavo niente di diverso. Se non sbaglio ami più visceralmente la poesia della narrativa. Perché?

Sarei degenerato a pensare l’atto letterario per ‘generi’: amo l’opera che esplode, che torchia l’anima. I libri della giungla e i racconti di Franz Kafka non sono inferiori alla grandezza di tanti poeti ed è vertiginoso leggere il libro di Giobbe insieme al viaggio iperuranio di Enoch e a Meridiano di sangue di Cormac McCarthy: l’aritmia sapienziale è simile.

Brullo
Davide Brullo, qualche tempo fa, in una fotografia di Simone Casetta

Nel tuo romanzo scrivi che il poeta è il vero re poiché sa togliersi “dalla Storia, ne ammira il cataclisma, come una pioggia prodigiosa che sembra far esplodere le finestre, perché quella pioggia, in realtà, è fatta dagli occhi e dalle mani dei sopraffatti, dei rivoluzionari, dei soldati, dei re – tutti chiedono di essere estratti dall’estinzione melmosa dal poeta. Ma il poeta non fa differenza tra l’acquazzone e la luna, e dorme coinvolto in quella litania di scrosci. Il male, voglio dire, è nell’ipnosi della Storia, che di volta in volta adotta i propri seguaci, a cui elargisce fama e desideri incoerenti. Eppure, il poeta è un sonnambulo, un disadatto, un imperiale incapace: con le parole con cui un re condanna, erige memorabili odi al mattino”. Mi pare che qui ci sia il nocciolo della tua poetica. È così?

Devo dire che ogni volta mi rileggo con un misto di ammirazione e di disgusto – in realtà, ciò che ho scritto mi sopravanza, è un avanzo. E io, allora, dove vado? Non ho idee, non ho proposte, non ho trame – sono soltanto attraversato del linguaggio. Di solito, non capisco – ascolto. Senza casco né scudo, in attesa che qualcosa mi pietrifichi le labbra – ho un caravanserraglio nei reami dei morti, dove spartisco ghepardi con i re.

Non capisco, ascolto. Mi pare un interessante punto di vista. Scrivi anche che “tanto è grande la poesia così è insignificante il poeta”. Ti ritengo uno dei più significativi scrittori italiani. Stilisticamente forse il migliore. In quanto uomo invece come sei?

Dovrebbe esserci una analogia tra lingua e azione, verbo e atto. In realtà, il mio cinismo sconfina nella compassione, la mia indifferenza nell’amore sconfortato, l’urto con il turbamento. Qualcuno potrebbe dire che sono dotato di rara gentilezza, un altro che sono meschino, fino allo schifo: è bene, credo, continuare a coltivare il fraintendimento, le false opinioni che gli altri hanno di noi.

Nel tuo romanzo si legge: “Secondo Pasternak, l’arte proviene dalla felicità. Ma è la felicità, allora, a perturbare”. Possiamo esplorare questo pensiero?

Si può vivere senza colpa, aureolati dalla carne? La colpa – cioè: l’esigenza della salvezza – va amata, va accudita. La felicità è il sussurro con cui ci paralizza il demonio – o il nostro demone privato. Lo scrittore, per natura, tormenta la propria quiete – scrive per non scrivere più.

In che rapporto stanno l’arte e la vita? E l’arte e la storia, l’arte e la realtà politica e sociale? Lo scrittore deve essere impegnato in politica, nella società? In quali forme?

L’arte è forma, cioè disciplina – l’arte forma alla vita e forma la vita. L’uomo può fare quel che vuole: impegnarsi nella rovina, di massima, è meglio che impegnarsi in politica. Lo scrittore reagisce alla Storia creando una forma duratura, indelebile: le poesie di Boris Pasternak restano, rendono più vasta la vita dei vivi e confortano i sogni dei morti; i discorsi di Stalin passano, sono maceria per gli storici.

Nel tuo romanzo annoti: “Si scrive per sopprimere il passato”. Perché?

Chi scrive cancella le epigrafi sulla lapide, annulla i nomi sulle tombe. Si scrive esercitando l’acido sul proprio passato: quando scrivi una cosa, essa, rievocata, si consuma. E tu sei libero di vivere la prossima vita.

Ti rigiro una domanda che mi hai rivolto a più riprese: che ne pensi della letteratura italiana contemporanea e dell’editoria attuale? Quali autori di rilievo vedi in circolazione?

Penso che non siano mai stati scritti romanzi attraenti come oggi, tecnicamente efficaci – ma inefficaci a dominare il tempo, a restare, deboli, debilitati. L’editoria – pur peccando di scarsa avventatezza – risponde alle esigenze del lettore colto come dello scrittore della domenica, che vuole pubblicare i propri stracci. Da quando la scrittura è materia d’insegnamento, cerco l’ingenuità snaturata, il dilettantismo indipendente, gli indifesi e gli indomiti, chi, quando sente pronunciare il suo nome, non scatta sull’attenti, ma si dimentica, non vuole il riconoscimento, ma la riconoscenza, semmai, l’irrisione. Questo d’altronde è un bene, la migliore delle ere possibili: lo scrittore scrive rispondendo a interrogativi che gli porgono i morti, proiettandoli nei millenni a venire. Alieno, scrive per i marziani.

E la critica letteraria: come se la sta cavando di questi tempi?

La critica non esiste – esiste lo snobismo accademico, il sapientino che muove il culo sulle ‘terze’ dei giornali quotati nella borsa dell’intelligenza patria, il leccaculo che scodinzola davanti all’ennesimo capolavoro altrui. Eppure, c’è gente come Andrea Caterini in grado di sfidare il destino per un libro, perché l’arte è carne, è atrocità e violenza, e di crivellarsi di verbi con un libro anomalo come Vita di un romanzo; oppure uno come Fabrizio Coscia, che ha una capacità di lettura devastante, da camaleonte e da falco. Del resto, cosa vuoi che ti dica?, se pensi che per una serie di stroncature mi hanno intimato il silenzio a suon di diffide e di querele: uno scrittore che si rivolge a un avvocato per un articolo che scrittore è? Non è la critica a essere morta, sono troppi scrittori/scrivani a essere moribondi.

Non ti chiederò delle querele, anche se i lettori di questa intervista resteranno forse delusi. Cambiamo passo. Cosa pensi della morte e della vita? Nel tuo romanzo scrivi: “Nella morte non c’è mistero, si muore perché non siamo immortali, perché il limite e il fine sono la natura delle creature. Non credo, perciò, nella resurrezione come il riscatto di una vita frustrata – Cristo si è incarnato per decretare l’importanza di questa vita e di nessun’altra”. Ci sei tu in questi pensieri o è finzione?

La morte è tutto – la vita è il vanto e la vanità, la vittoria e la rinuncia. Se gli dèi, ripetutamente, vengono sulla terra, significa che questa carne non è solo arguzia della corruzione, ma argine. Gli dèi sono gelosi della carne, sono golosi dell’umanità. La morte gratifica il nostro impero sugli assoluti.

Un colpo a bruciapelo: chi governa il mondo, l’ordine o il caos?

E che ne so, non sono mica dio. So che l’uomo inscrive storie nel caos. Il cosmo, di per sé, è insondabile, ci fa sentire piccoli, inutili, mortali. L’uomo cammina in stazione eretta per guardare la stellata, unisce le stelle, crea figure, e intorno alle costellazioni dirige delle storie, la transumanza dei miti. Così. Ciò che doveva farlo sentire perduto, disperso in mezzo al cosmo, le stelle, che inchiodano alla nostra infermità, è ciò che lo orienta, che gli dona la direzione. Meglio di così… Ai miei studenti dico: sposatevi uno che conosce le stelle e le costellazioni e gli alberi. Non vi farà mai perdere di vista il Nord né l’orientamento, cosa volete di più nella vita?

Esiste la trascendenza?

Amo profondamente l’al di qua per non credere che tutto sia specchio di un al di là – che frequento spesso.

Ma che cos’è il mondo? Come è venuto a esistenza? O c’è sempre stato?

Potremmo chiederci se il mondo esiste davvero, a questo punto. Non sono un filosofo, ma una casalinga del pensiero: ora il mondo mi pare avere la consistenza dell’albero nel giardino di casa – un albicocco – della sera che cola come il pianto di un ghepardo, del desiderio che, pare, non riuscirò a risolvere, risollevandomi. Questo, del mondo, per ora, mi basta.

E l’arte? In che bisogni affonda le sue radici?

Ciò che ami muore – lo vuoi salvare – il ricordo non ti basta – crei una forma che sia più vasta della forma che è defunta. Ma a beneficiare di questa resurrezione non sei tu – è il lettore. Non c’è altro bisogno che vincere la morte, che salvare l’amore.

Siamo giunti alla fine. Domanda canonica: quale epitaffio sceglieresti per te?

“Sono il nome che vuoi darmi, il desiderio di cui ti vergogni, la vita che vuoi assegnarmi – c’è forse affinità tra stella e pianto, tra la memoria della tigre e l’ambiguità del bambino che tiene in ostaggio l’alba”. Ma questo è un putiferio retorico. Preferirei la lapide nuda. Chi passa scriva ciò che gli passa in mente – la morte non ha paragoni, ma solo epigoni.

Che altro aggiungere? Alla prossima.

Gianluca Barbera

Gruppo MAGOG