Di questo babelico pioniere dei suoni, un poligrafo di geografie ignote, l’ultimo libro si chiama Ballate di Lagosta, è di prossima pubblicazione (in calce, ne estraiamo due scaglie), pare il libro, poliedrico – un brandello è uscito nel 2014 – ‘definitivo’, come è sempre – o dovrebbe – ogni testo poetico. Alberto Bertoni, aureo prof, docente in ‘poetologia’, dice che si tratta di “poesia ad un tempo periferica ed europea” e che il poeta, Christian Sinicco, “è un poeta originale”, il che, di per sé, è originaria etichetta d’autenticità, ci si attende una scorza lirica dall’odore penetrante, evviva. Sinicco è poeta dirompente, dilagante – il primo lavoro, del 1997, s’intitola, non a caso, Mare del Poema – ‘civico’ e incivile, disseminato in placche, plaquette, edizioni rare o nascoste (si trova ancora in giro il bel lavoro, Passando per New York, che parte dal delirio delle Twin Towers), sempre tentando di far uscire – a testa alta – la poesia italiana dal sistema catacombale attuale. Dotato di estro performativo – è stato presidente della Lega Italiana Poetry Slam e ha fatto ‘concerti’ poetici un po’ ovunque, dalla Turchia alla Spagna – Sinicco è un ‘agitatore’ culturale, da sempre, da quando, con Fucine Mute, ha creato il primo periodico culturale multimediale di un certo livello. Ora, tra le tante cose, dopo aver catalogato L’Italia a pezzi dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie, Sinicco è tra gli animatori del progetto culturale Argo. Tiene sempre il piede in due mondi, tra questa Italia e l’Europa ad Est di ogni pregiudizio, tra questa lingua e tutte le altre possibili. Insomma, è uno con cui è utile parlare per capire dove va l’epopea del linguaggio – e dunque che fine fa l’uomo. E ha parecchie cose da dire.
Intanto. Tu conosci molto bene l’esperienza dello ‘slam poetry’. Oggi spopolano i poeti su Instagram. Facci capire. La poesia sta cambiando pelle? La poesia è morta? Quella via Instagram non è poesia ma la fiera dei triti sentimenti? E quella ‘via slam’?
“Sono affascinato da una domanda: come pensa dio? La poesia è il modo di pensare di dio? La mia poesia non è solo un tentativo di risposta a questa domanda, ma nel momento della formazione e a opera finita essa esplicita una molteplicità di interpretazioni che non avevo previsto o cercato. Se pensi di scalare una montagna hai la necessità di farti un’idea del percorso che farai; e poi sei lì, la montagna ha i suoi appigli ed essi erano lì prima del tuo tentativo. Per questo mi domando se la poesia sia il modo di pensare di dio. La poesia è nell’inizio, col tuo essere qui e nel prima; tutto comincia con il nostro essere nel mondo e nel prima. Sarebbe stupido pensare che la realtà della poesia, del nostro essere qui, sia solo nel disegno che abbiamo impostato o nelle scoperte che abbiamo fatto. Per questo amo molto Vittoria Colonna, che era amica di Michelangelo, e le sue Rime e la sua filosofia – che poi chissà come mai è avvicinata del tutto a Petrarca, la sua poesia ha un’autonomia al pari di quella di Petrarca e Dante, ma in Italia dobbiamo fare discendere le donne dai maschi. Pensa se su Instagram, ogni giorno, ci fosse una poeta come Vittoria Colonna a rimare. Quante persone nel suo tempo avranno letto Vittoria Colonna? Pochissime. Eppure qualcuno si è occupato della sua poesia perché era importante, e la sua poesia è arrivata a noi.
Oggi potremmo scrivere con la sua produzione anche una pagina meravigliosa per la nostra scuola, non solo perché riguardo la poesia i programmi sono stati scritti da alcuni invertebrati maschilisti, ma perché abbiamo dato molta importanza alla biografia degli autori e poco o nulla alla poesia e ai suoi processi di formazione e a ciò che ci viene lasciato da interpretare, strumenti indispensabili per il pensiero e la nostra umanità. Quando nel 2013 mi hanno chiesto di diventare Presidente della Lips, cioè del poetry slam italiano, con curiosità ho accettato e sono felice che la strutturazione attuale dell’organizzazione e il format della gara di campionato siano ancora quelli che ho proposto dopo un dialogo serrato tra diverse persone. Nonostante i centocinquanta slam che si realizzano in Italia ogni anno, che dovrebbero avere una funzione ludica e formativa nei confronti del pubblico, gli strumenti che necessitano al tentativo della poesia non sono cambiati. Cosa ho visto nello slam? Sono convinto che precludermi la comprensione di alcuni aspetti della scrittura di una drammaturgia in poesia, sarebbe stato sbagliato, e ho avuto la possibilità di scoprire alcuni poeti, come Maria Valente, che ha scritto le sue poesie, le ha incapsulate nella voce e le lasciate su youtube e poi è entrata in convento di clausura; o Alfonso Maria Petrosino e i suoi endecasillabi e ottonari; Paolo Agrati, la cui opera Partiture per un addio è quanto di più raffinato possiamo chiedere alla poesia e, forse, all’escatologia; e Kento, che è un rapper e sono interessato alla sua opera in relazione al parallelismo con la ritmica di Lavorare stanca di Pavese; Silvia Salvagnini, che ha scritto una poesia potentissima sul tema della deportazione degli ebrei italiani; fino ai più giovani, come Eugenia Galli, che ha poco più di venti anni, ma è sottile e allo stesso tempo forte nel vestire la sua poesia di un personaggio, ad esempio una ragazza stuprata. Nella formazione di un’opera o di una poesia, già a partire da un endecasillabo o da un verso alessandrino, scegliendo un verso libero o lavorando su accenti fissi, gli strumenti ritmici e retorici, la costruzione di strutture teoretiche, la riflessione sulla sintassi e sulla logica, non sono meno importanti di un tempo – penso a ciò che poteva mettere in campo Vittoria Colonna per realizzare una poesia… Quelli che si danno allo slam o quelli che pubblicano libri, hanno le stesse necessità di spunti. Elaborare le questioni retoriche e ritmiche, incorporare teoresi, orientare scelte formative complesse, è il lavoro che il poeta dovrebbe saper fare. Nello slam, soprattutto nei migliori esempi europei, c’è un forte ingresso della drammaturgia, ma anche nell’opera di Franco Loi c’è, e nel libro Jeanne D’Arc e il suo doppio di Maurizio Cucchi. Se proprio lo vuoi sapere, non mi faccio mancare nulla; leggo pessimi poeti sia su carta che su schermo e altri li ascolto, anche agli slam, ma ogni tanto accade qualcosa di inaspettato”.
Poi. Dove ti muove, ora, la tua ricerca poetica. Per natura poetica, se non erro, tu sei una vagabondo, un errante, hai studiato mondi poetici altri dal nostro, circoscritto e forse un poco claustrofobico. Ecco: come vedi la poesia oltre i confini italiani: è meglio, è peggio, è nulla? E tu, ora, dove vai a cacciare le tue ispirazioni?
“La poesia italiana, e mi riferisco alla nostra generazione, è quanto di più bello potrebbe accadere al mondo, solo che c’è la paura di leggersi e appassionarsi. I poeti italiani contemporanei non si leggono gli uni con gli altri, e hanno paura del confronto reciproco. Noto che molti perdono tempo dedicandosi a definirsi attraverso categorie come ricerca, postmoderno, postpoesia, performatività, poesia orale o scritta, lirica, antilirica, o cose più pop come poesia slam, e così via. Questo crea confusione nelle persone, la cui necessità è la poesia. Non si capisce perché un poeta dovrebbe scrivere la propria poesia come derivazione di un modello critico pre-esistente o pre-confezionato: è una prospettiva abnorme che non ha alcun presupposto estetico. Inoltre, posizioni del passato non possono costituire il basamento unico delle opere d’arte presenti, non ci sarebbe alcuna evoluzione, oppure sarebbe l’evoluzione programmata dal critico. Forse tra cinquant’anni ci sarà qualcuno che, studiando le opere, tramanderà qualcosa. Forse si potranno comprendere come si sono combinati i molti crossover di modelli formativi nei poeti che saranno tramandati, e quella cosa inaspettata che è la poesia. Ma noi saremo morti. Non c’è dunque da aver paura se le cose dovessero andare diversamente. Sai cosa sarebbe meraviglioso? Incontrarsi senza alcuna idea ed ascoltarsi come se fosse la prima volta, e appassionarsi. Cosa hanno combinato tutti quei selezionatori di antologie della nostra generazione dal 1997 in poi? Non hanno mai selezionato la qualità, hanno solo creato dei carrozzoni. Come puoi realizzare un’antologia in un anno di lavoro? Le antologie servivano a loro per accreditarsi. Oggi dovremmo dimenticare un ventennio di quelle antologie generazionali e ascoltarci. Credo di aver letto la maggior parte dei poeti dialettali italiani per via della ricerca, durata sei anni, che ha portato all’antologia L’Italia a pezzi (Gwynplaine 2014), e una grande maggioranza di poeti della nostra generazione, nati tra la fine degli anni Sessanta e Novanta. Più i classici, amando del Novecento la poesia di Ungaretti, Quasimodo, Bertolucci, Antonio Porta… Quindi ho letto più poesia italiana che straniera. Grazie alla cura della sezione internazionale dell’annuario di poesia di Argo, ho avuto la fortuna di poter osservare il lavoro di molti poeti contemporanei stranieri, e sono un discreto lettore di poesia americana e inglese – ho amato particolarmente Wallace Stevens e Dylan Thomas, e leggo molto Nick Cave, come se fosse un poeta morto da un secolo e non avesse messo in musica i suoi testi. Le nostre grandi case editrici pubblicano poca poesia italiana e gli editor cercano i poeti italiani col passaparola o hanno limitato la propria osservazione a qualche sodale, ma la nostra poesia è buona, se non ottima, e tra poeti che scrivono in italiano e dialetto, abbiamo una qualità che nessun altro paese ha al mondo. Lavoro sempre con diversi file aperti, e rileggo anche ad alta voce le poesie. Scorro e rileggo il file dall’inizio alla fine innumerevoli volte. Al momento ho quattro file aperti, cioè sto lavorando su quattro opere diverse, più un romanzo. Mentre lavoro su queste opere, ne ho un’altra che da qualche anno è in sala d’attesa, ma è dentro di me, anche se ogni tanto ne ho parlato con amici. Quando non c’erano i computer, se cambiavo qualcosa ricopiavo perché non ho mai amato le cancellature. Questo lavoro di trascrizione è stato un allenamento. Ora puoi comprendere quanto il mio sia un vagabondaggio interiore. Sto terminando Ballate di Lagosta, un’opera di poesia molto sfaccettata; tutto nasce da un viaggio in un’isola dell’Adriatico, Lagosta. Le poesie narrano della processione di Ferragosto, dell’andare per le spiagge e innamorarsi, delle guerre e delle migrazioni, dello sguardo nei simboli. Passo da endecasillabi a verso libero, da versi alessandrini a ottonari, da poesie narrative a liriche, da sonetti a canzoni, da salmi al rap, sempre nel seno dell’atmosfera dell’isola, attraverso le storie dei suoi personaggi ‘veri’. Cosa c’è di vero? Noi abbiamo un disperato bisogno delle emozioni in quel ritrovare la nostra umanità e nel riconoscere noi stessi vita”.
Esiste ancora, a tuo avviso, un ‘canone’ della poesia – direi, della letteratura – contemporanea, o tutto è sbrindellato, fratturato, ferito? Quali sono, per dire, se ci sono, i tuoi ‘maestri’?
“Sono stato recentemente a una lettura a Bologna e il collettivo Zoopalco, che curava l’evento, ha scritto nell’informativa che sarebbero intervenuti dei poeti canonici. Leggevo assieme a Domenico Brancale, Vito Bonito, Franca Mancinelli, e doveva esserci anche la giovanissima Carolina Rossi. Quindi c’è qualcosa che viene avvertito come ‘canone’. Sospetto che si tratti di un’impostazione, ma potrebbe essere anche uno sbaglio nell’utilizzo del termine. Quindi, essendo un rappresentante del ‘canone’, ho scelto di leggere le poesie da un’opera inedita che ho spesso utilizzato per realizzare le canzoni con il gruppo rock con cui ho collaborato, e si tratta di una raccolta sperimentale, creata sotto l’effetto dei Depeche Mode e dei Placebo, dal titolo La libertà è la mezzaluna di questa primavera, in cui secondo me shakero Petrarca, Bertolucci, Porta, e rivedo Zanzotto e Pagliarani,… Vedi, quello che ho appena affermato è molto falso, non sai mai cosa stai shakerando, e purtroppo i miei maestri sono tutti morti. La poesia segue la sua corrente, e dove la critica vede il sasso sulla riva, vedo scorrere l’acqua di molti fiumi e torrenti. Non c’è da preoccuparsi, dunque”.
Che rapporto c’è – o ci deve essere – tra poesia e storia, tra poesia e ‘politica’? Con la poesia tu costruisci mondi altri o percuoti il presente? Insomma: cosa ti interessa leggere dell’oggi?
“Nel 2001 ho realizzato Città esplosa, recentemente pubblicata da Galerie Bordas di Venezia, e Passando per New York. Città esplosa è un’opera visionaria che fa irrompere il linguaggio nella scomparsa della civiltà umana o prospettando altre civiltà – ad esempio in una poesia dell’opera un cyborg sente ‘il vento di ciliegia’ ed è proprio questo aspetto del ricombinare la nostra percezione che mi interessa, perché la nostra percezione dell’esistenza è stata per troppo tempo banalizzata. Passando per New York, opera che è stata poi pubblicata da LietoColle nel 2005, è un libro completamente politico e immerso nel presente e nei suoi simboli, dopo il crollo delle Twin Towers. Quindi siamo di fronte alla separazione estetica che hai evocato. Come puoi aiutarmi, considerando che ho lavorato su queste opere nello stesso lasso di tempo? Oppure, un esempio più illustre: quale tipo di schizofrenia formativa è quella che porta Mario Luzi a scrivere Al fuoco della controversia e Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini? Noi non siamo separati né dal tragitto che vogliamo intraprendere né dal presente di questo tragitto, e se guardiamo alle stelle per sognare siamo ancora vivi, anche se non ci possiamo arrivare sono meravigliose. Se vuoi viviamo un attimo prima della tragedia e del suo compiersi. Mi sarebbe piaciuto chiudere qui, ma sento la necessità di dire, più che indicare, la mia lettura del presente. Il problema che avverto di più è l’inquinamento, che è connesso alla crescita economica sregolata e all’incapacità delle élite di realizzare dei programmi di sviluppo e salvaguardia del pianeta. Non voler risolvere i problemi è ciò che mi colpisce dell’uomo: più problemi si sommano, più ci circondano. L’uomo deve avere uno scatto di intelligenza, e per questo c’è bisogno di collaborazione. Non siamo separati da chi soffre, già oggi. Il futuro dei nostri figli è importante, e dobbiamo mettere i semi di una giusta crescita, realizzare una politica globale che sviluppi la migliore economia possibile e il minimo impatto ambientale. La realtà del capitale si basa, come sappiamo, sulla finzione. Le maggiori venti economie del globo si possono mettere d’accordo domani e produrre debito per lo sviluppo di energie rinnovabili, senza alcun tracollo finanziario. Guardiamo più in piccolo, a come è stata trasformata la società italiana negli ultimi venti anni: è stato generato un diffuso precariato con i contratti a progetto, poi progressivamente depenalizzati i reati economici e quelli connessi al mercato del lavoro e, infine, è arrivata la nuova legge per un lavoro a ‘tutele’ crescenti e il binomio scuola/lavoro. In funzione di cosa? Di una mentalità diffusa e criminale, imprenditorialmente mafiosa, che guarda allo sfruttamento e ricattabilità delle nuove generazioni. Mentre il debito pubblico continua a peggiorare, l’ultimo spettacolo del parlamento è stato quello che ci ha dato una legge elettorale che non permette a nessuno di governare, e la dice lunga sulla dignità delle persone che l’hanno votata. Molti italiani, la maggioranza, silenziosa, è indignata, ma è questa ancora la parte del nostro paese a cui rivolgere una preghiera, la preghiera di non diventare degli ‘sciacalli’, di guardare in alto e dentro se stessi, di non aver paura e di percepire la nostra vita e la sua profondità, perché dobbiamo collaborare, mettere i semi di una giusta crescita”.
*
Il ramo bianco
Oh che tranquillo mar, che placide onde
Vittoria Colonna, poeta
non so per quanto tempo la luce mi inchioderà alla gioia,
è una deriva che guarda l’acqua, un sogno che dispone lo splendore:
forse hai paura di entrare, e l’inquietudine può rovesciare
l’ostinazione e la tua permanenza – come avrai capito io non sono
e non so quando cadrà la pioggia, qualcosa che sia assente
che cambi l’inerzia abituale, lavando anche solo un pezzo di mare,
il ramo bianco, coperto di salsedine, su qualche pietra e le alghe
restate all’asciutto; è la marea e questo rende il tentativo
ancora più fragile, l’equilibrio precario: dovrei lasciarti dove sei,
dovrei lasciarti lì, mentre il sole sulle onde ti porta a me
Le argomentazioni di Mojmir
sulla costituzione della Repubblica
arrossisce la nostra lingua col vino
e il pensiero che liberiamo
sollecita le pareti della casetta,
paralizzando la sera
che si interroga se possiamo elevare le costituzioni
con le pietre intagliate e bianche che ornano
questa dolce augusta insula;
siamo partiti per un cielo lontanissimo
che discute le leggi dell’immaginazione
e oltre le innumerevoli finestre –
il reggimento di stanza nell’isola,
i trinceramenti e le postazioni di Pasadur,
le baracche abbandonate al porto di Ubli,
la fine stessa della Jugoslavija – la scura canzone
esplode bombardata dal mare nella sua voce
sediamo sulle pietre o le sedie in plastica
e le strade nell’afa sono un souvenir di Zagabria:
non ci sarebbero motivi di tornare indietro,
ma chi ha trovato i soldi per acquistare le armi
ha combattuto la guerra dagli edifici grigi
e ora è un dirigente di banca
che vende i palazzi appesi ai mutui,
la dignità del paese su gocciole minuscole
che una vacanza non può trasformare,
nonostante il parlamento sia vuoto
e ordinato; dopo i tuffi del pomeriggio
per amore della pace,
per condurre l’opera alla gioia
ci si chiede come rimpicciolire
i centri di qualsiasi potere
lasciando perdere le formiche, impertinenti
con i sandali
(le poesie di Christian Sinicco sono tratte da “Ballate di Lagosta”, raccolta di prossima pubblicazione, introdotta da Alberto Bertoni)