Tommaso Labranca parla di Alberto Arbasino. “Lo ammiro in modo incondizionato”
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Tommaso Labranca
Marie Bashkirtseff – meglio: Marija Konstantinovna Baškirceva – fu l’evoluzione selvatica del prototipo Bovary. Perennemente annoiata per eccesso di ambizioni, esaltata, esagerata, a tratti dotata dell’isteria dei megalomani, Marie – nome virginale che nasconde un giaguaro – era poliglotta, sradicata, vagabonda, famelica di fama, spietata per eccesso di pietà, prona a meticolose malinconie. Non stava alla finestra: ruppe tutte le finestre; non amò per distrazione: tutti gli amanti, esausti, le parvero iniqui.
La dicono bassa, certamente bellissima. Nata nel 1858 nel Governatorato di Poltava – all’epoca impero russo, ora Ucraina – morì giovane, venticinquenne, con la corona della prediletta dal fato. I genitori si separarono che era fanciulla: seguì la madre in vasti pellegrinaggi europei; a Parigi si dimostrò un talento nella pittura, presso l’Académie Julian. Fu rivale, nell’arte, di Louise Catherine Breslau, amica di Jules Bastien-Lepage, amata da Guy de Maupassant. In verità, Marie avrebbe potuto essere tutto: cantante, pittrice, moglie gagliarda nel capriccio, regina sanguinaria. Il genio di una vita interrotta consegna Marie a ipotesi infinite.
Soprattutto, si dimostrò scrittrice eccellente, autrice di un travolgente Journal, pubblicato postumo. Sapeva dissezionare i propri pensieri fino all’astio, fino ad esaurirsi, equilibrista tra capovolgimenti e contraddizioni: alternava la vanità all’umiliazione, una austera fede ortodossa alla civetteria, il culto per Omero all’ossessione per la Vergine, il lusso alla modestia, la dissennatezza agli empirei della ragione.
Non è un caso che il diario di Marie risulti tra le letture predilette di Cristina Campo, che alternava i testi ascetici alle cronache che riferiscono i pettegolezzi delle dame francesi del Settecento. Nel gennaio del 1965 così scrive CC ad Alejandra Pizarnik:
“Conosce la piccola Marie Bashkirtseff? Personaggio assurdo e patetico, ma c’è qualcosa in lei che adoro e che non ritrovo nelle donne di oggi, ed è proprio la sprezzatura – questo orgoglio che sembrerebbe puerile ed è invece soltanto la prima maschera del rispetto della propria arte, ciò che fece dire a M.[arie] B.[ashkirtseff]: nessun principe è degno di toccare la mia mano con le sue labbra. È da qui che comincia la strada che può arrivare al dono di sé (perfino all’arte), non il contrario”.
Stordito dalla lettura dei suoi diari – una scelta dei quali è pubblicata da Mercure de France –, Anatole France scrive un ritratto di Marie Bashkirtseff, raccolto, nel 1921, in “La Vie littéraire”, e tradotto qui per la prima volta in Italia. Proprio quell’anno, Anatole France avrebbe ottenuto il Nobel per la letteratura.
Le grandi personalità, principesche, non hanno bisogno di premi. Basta la vita.
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Marie Bashkirtseff
Marie Bashkirtseff è morta a ventiquattro anni, il 31 ottobre del 1884, lasciandoci diverse tele e alcuni pastelli che testimoniano un sentimento sincero per la natura, un amore ardente per l’arte. Nipote di uno dei difensori di Sebastopoli, il generale Paul Grégorievitch Bashkirtseff, vantava di avere, per via della madre, sangue tataro nelle vene. Aveva la pelle bianca, i capelli rossi, gli zigomi alti, un naso corto, occhi profondi e labbra infantili. Era piccola e ben fatta. Amava guardare le statue. A Roma, a sedici anni, trascorse lunghe ore al cospetto dei marmi dei Musei Capitolini. Vestita da amazzone, “in drappo nero, ritagliato da un unico pezzo da Leferrière… un abito aderente ovunque, da principessa”, era deliziosa. Le mani, sottili e pallide, non avevano un disegno superbo; ma a dire di un pittore era sublime il modo in cui si posavano sugli oggetti.
Marie Bashkirtseff perfezionò il culto di se stessa. Sapeva di essere bella, eppure nel suo diario si descrive di rado. Il 17 luglio del 1874 scrive di sé: “I miei capelli, al modo di Psiche, sono più rossi che mai. Indosso un abito di lana particolarmente bianco, soffice, aggraziato; un collare di pizzo. Sembro provenire da uno di quei ritratti del primo impero; per completare l’opera dovrei essere sotto un albero e reggere un libro”. Aggiunge che le piace stare in solitudine davanti a uno specchio.
Si vantava della sua voce più che della sua bellezza. Uno dei suoi sogni era diventare una grande cantante.
Nel suo Journal si mostra com’è, senza celare i difetti, le perpetue contraddizioni, l’incostanza. Quando Edmond de Goncourt scrisse Chérie, pretendeva di svelare le confidenze di giovani fanciulle. Lo ha fatto Marie Bashkirtseff. Ha detto tutto, se vogliamo crederle, ma non era adatta a rivolgersi a un singolo confessore, per quanto distinto; la sua vanità non poteva che darsi a una confessione pubblica: era al mondo che svelava la sua anima.
Chi non avrebbe avuto pietà di una povera bimba la cui sventura è quella di non aver avuto un’infanzia? A quindici anni possedeva le ali, senza il ricordo di un nido. La gioia ingenua e la semplicità le sono state sottratte.
I primi segreti che ci svela riguardano un intrigo durante il carnevale, a Roma: nient’altro esito che un bacio sugli occhi. La ragazza, però, seppe mostrare civetteria e audacia. Il giovane nipote di un cardinale era molto tenero con le, ma Marie Bashkirtseff non si lasciò ingannare: “Sarei felice di credergli, ma dubito della sua aria sincera, del suo andare così ingenuo. Se fossi un mascalzone mi comporterei allo stesso modo”.
“Sono ambiziosa e vanitosa sopra ogni cosa”, scrive. Vuole mettersi in mostra, apparire, brillare. L’orgoglio la inghiotte. “Se fossi una regina!”, esclama, a passeggio per Roma. “Voglio essere Cesare, Augusto, Marco Aurelio, Nerone, Caracalla, il diavolo, il papa!”. Trova bellezza soltanto nei principi, il resto non vale il suo sguardo.
Le idee più incoerenti le affollano la testa. È un caos strabiliante. Marie è pia, prega Dio dal mattino alla sera, implora un duca per marito, una bella voce, la salute della madre. Esclama, come il Claudio di Shakespeare: “Non c’è cosa più terribile che essere inibiti al pregare”. Ha una devozione speciale per la Vergine, pratica la religione ortodossa, legge l’avvenire in uno specchio rotto, dove scopre una moltitudine di piccole figure, il pavimento di una chiesa in marmo bianco e nero, una tomba, forse. Consulta il sonnambulo Alexis, che scorge nel sonno il profilo del cardinale Antonelli; si fa predire il futuro da una cartomante. È saggiata dalle superstizioni: è certa che papa Pio IX abbia il malocchio. Teme la sfortuna perché ha visto la luna nuova con l’occhio sinistro. Le sue idee mutano di continuo. A Napoli, d’improvviso, si chiede se sia possibile per un’anima immortale fare indigestione di aragosta. Non concepisce come possa conciliarsi la celeste Psiche con un fastidio allo stomaco e conclude che l’anima non esiste, è “pura invenzione”. Pochi giorni dopo, si mette al collo un rosario per assomigliare a Beatrice, perché “Dio nella sua grandezza non basta. Abbiamo bisogno di immagini da contemplare, di croci da baciare”.
È civettuola e un poco folle, ha la testa affollata come quella di un vecchio bibliotecario. A diciassette anni, Marie Bashkirtseff leggeva Aristotele, Platone, Dante, Shakespeare. Ricorda con gioia “un libro interessante di Confucio”. Conosce a memoria versi di Orazio e Tibullo e le sentenze di Publilio Siro. Ha sintonia con la poesia di Omero:
“Nessuno può fuggire l’adorazione degli antichi. Nessun dramma moderno, nessun romanzo, nessuna sensazionale commedia di Dumas o di George Sand lascia in me un ricordo così profondo e nitido come la descrizione della presa di Troia. Mi pare di aver assistito a quegli orrori, di udire le grida, di vedere il fuoco, di essere al fianco della famiglia di Priamo, con quelle sventurate che si nascondono dietro gli altari dei loro dèi, mentre i bagliori sinistri del fuoco divorano la città e orde di nemici le cercano… Chi non prova un brivido all’apparizione del fantasma di Creusa?”.
La sua mente è un magazzino dove appaiono alla rinfusa Corinna e Madame de Staël, Alexandre Dumas figlio, l’Orlando furioso, i romanzi di Zola e quelli di George Sand. Viaggia di continuo, da Nizza a Roma, da Roma a Parigi e Pietroburgo, poi a Vienna e a Berlino. Costantemente vagabonda, continuamente annoiata. La vita le sembra vuota, amara:
“In questo mondo, ciò che non è triste è trito, stupido; ciò che non è stupido, è triste”.
Tutto le manca perché tutto vuole. Vive nell’angoscia, eppure ama la vita.
“Tutto mi sembra bello, buono, perfino le lacrime, il dolore. Mi piace piangere, amo disperarmi. Amo essere triste… perché amo la vita. Voglio vivere. È inutile uccidermi quando sono tanto accomodante”.
In alcuni istanti, ha l’oscura consapevolezza di ciò che cova in lei. Nel 1876 ha una sorta di preveggenza:
“Proprio ora, in data 3 giugno, esco dal bagno, spaventata da una superstizione. Vedo accanto a me una donna vestita con un lungo abito bianco, un lume in mano, lo sguardo fisso, la testa leggermente china, che si lamenta, come i fantasmi delle fiabe tedesche. Eppure, ero semplicemente io, riflessa in uno specchio! Temo che le mie torture morali abbiano come effetto un male fisico”.
Dal 1877 una sola passione occupa quest’anima addolorata: Marie Bashkirtseff si consacra alla pittura. Tutte le sue ambizioni si fondono in una: diventare una grande artista. Studia diligentemente all’accademia di Julian, ne diventa una delle studentesse più talentuose. Fu, per così dire, una di quelle conversioni improvvise di cui le vite dei santi offrono molti esempi, che rivelano un carattere schietto, eccessivo, instabile. Da quel momento, la nobiltà e i principi furono poco più che nulla. Marie diventa repubblicana, socialista, rivoluzionaria. Non indossa più gli abiti da amazzone di chez Laferrière ma il camice nero delle artiste. Scopre la bellezza dei miserabili. Si muta in nuova creatura. Dopo sei mesi, primeggia nella classe insieme a Mademoiselle Breslau. Abbozza un ritratto della rivale, non lusinghiero: “Breslau è magra, vizza, rovinata, con una testa interessante, da ragazzo, benché priva di grazia”.
Nel gennaio del 1882 scopre la pittura di Bastien-Lepage, che ammira e imita. “È tutto piccolo, molto biondo, con i capelli alla bretone, il naso all’insù, la barba da adolescente”. Soffriva già del male di cui presto sarebbe morto. Lei se ne sentiva atterrita – e attratta. Quasi subito, Marie precipita nel suo stesso male: due anni di tosse straziante. Perde peso. Diventa sorda. L’infermità porge il dono della disperazione:
“Perché Dio mi causa questa sofferenza? Se è lui che ha creato il mondo, a che pro il male, il dolore, la sofferenza? Non guarirò mai. Ci sarà sempre un velo tra me e il resto del mondo. Il vento tra i rami, il mormorio delle acque, la pioggia che cade sulle finestre, le parole appena sussurrate… nulla di tutto questo potrò più udire!”.
Presto scopre che il male le dilania il polmone destro. “Concedimi altri dieci anni, dieci anni di gloria e di amore! E morirò felice, trentenne. Se potessi trattare con qualcuno, patteggerei: morire a trent’anni, ma dopo aver vissuto”.
La tubercolosi segue il suo corso, fatale. Il 29 agosto del 1883 Marie scrive:
“Tossisco sempre, malgrado il caldo; oggi pomeriggio, mentre la modella si riposava, sul divano, mi sono vista sdraiata, con una grossa candela al mio fianco. Morire? Ne ho paura”.
Proprio ora che la vita fugge, la ama perdutamente. Arti, musica, pittura, libri, mondo, abiti, lusso, rumore, calma, risate, tristezza, malinconia, amore, freddo, sole, le stagioni, le placide pianure russe, le montagne di Napoli, neve, pioggia; la primavera e la sua follia, le quiete giornate estive, le belle notti stellate, ammira, adora tutto! E deve morire. “Morire è una parola che scriviamo con facilità. Ma credere che moriremo presto… Lo credo? No, ma ne ho paura”.
Pochi giorni dopo, messe a parte le illusioni, tanto ostinata da stare al capezzale dei tubercolotici, vede distintamente la sua morte:
“Ecco, dunque, la fine delle nostre miserie! Tante aspirazioni, tanti desideri, tanti progetti… e morire a ventiquattro anni, sulla soglia di tutto”.
Mentre muore, il morente Bastien-Lapage le fa visita, ogni giorno. Il diario di Marie si blocca a lunedì 20 ottobre. Anche quel giorno Bastien-Lapage, accompagnato dal fratello, si mostra a lei. Marie Bashkirtseff muore undici giorni dopo, “in una giornata di nebbia”, scrive André Theuriet, “pari a quella che aveva dipinto in uno dei suoi ultimi lavori, Il vicolo”.
È sempre uno spettacolo commovente quando la natura, in un terribile scorcio, ci mostra amore e morte fianco a fianco; ma nella breve vita di Marie Bashkirtseff c’è un sovrappiù di disperazione che preme il cuore. Si pensa, leggendo le pagine del suo diario, che sia morta inappagata, che la sua ombra si aggiri ancora, da qualche parte, carica di desideri irrisolti.
Pensando a quest’anima turbata, una vita sradicata, mossa dai venti di tutta Europa, sussurro come una preghiera questo verso di Sainte-Beuve: “Nascere, vivere, morire nella stessa casa!”.
Anatole France