Nietzsche, il pacifismo, la guerra in Ucraina
Idee
Federico Magrin
“Alla letale volgarità del mondo, al suo reale fetore”. Una lettera
Politica culturale
Probabilmente, la Svizzera lo aveva ingentilito. Nell’introduzione alla versione inglese del suo primo romanzo, Mašen’ka, pubblicato nel 1970 come Mary – ironica diffrazione evangelica; tradotto da Mondadori l’anno dopo con il titolo all’americana, Maria, per la cura di Ettore Capriolo, nella versione Adelphi reca il titolo alla russa (ma la versione è quella inglese), Mašen’ka –, lo scrittore si slaccia, slanciandosi nell’ebbrezza malinconica. “La nostalgia rimane la dissennata compagna di tutta una vita”, scrive. Nella sua quarta vita, presso il Fairmont Le Montreux Palace, sul lago Lemano, Vladimir Nabokov, più che altro, indugiava sugli anfratti e le malizie della memoria.
Ad ammirare l’album di quegli anni – artefatto, come tutto in Nabokov, diorama di illusioni, trappole, decori – pare felice: cacciava farfalle con ansia meno ferale, gioca – o simula di giocare – con la moglie Vera a scacchi, nel buio. Qualche anno prima, la Russia evocava in Nabokov, più che roveti nostalgici, la rabbia, a cuneo. “Tornerebbe in Russia?”, gli domandano alcuni giornalisti della BBC, è il 1962. Lui è micidiale, pura aristocrazia del disprezzo:
“Non ci tornerò mai, per il semplice motivo che tutta la Russia di cui ho bisogno è sempre qui con me: la letteratura, la lingua, la mia infanzia russa. Non ci tornerò mai. Non mi arrenderò mai. D’altronde, l’ombra grottesca di uno Stato di polizia non sarà cancellata entro l’arco della mia vita”.
La terza vita – negli Stati Uniti, dal 1940 al 1961 – aveva concesso a Nabokov la fama: i capolavori – Lolita, Fuoco pallido, Ada – li scrisse, per sfida, magone e desiderio di smarrimento, in inglese; a volte li traduceva in russo. Più che una lenta partita a scacchi, per Nabokov il romanzo è un labirinto: lo scrittore interpreta il mostro, Minotauro, che dissangua il lettore, oppure l’omicida, Teseo. Mašen’ka è stato scritto nella seconda vita di Nabokov, profugo in Europa – dal 1919 al 1940 –, e ha per oggetto, in sostanza, la sua prima vita, i fasti dell’infanzia perduta e trasognata, l’agonia del gelo a San Pietroburgo. All’epoca, Nabokov firmava i romanzi V. Sirin; nel 1925 aveva sposato Véra Slonim. È sempre Nabokov, singolarmente loquace, a dirci che il romanzo è stato scritto per “sbarazzarsi di sé prima di passare a cose migliori” e che il protagonista, Ganin, “un esule russo” che “cammina come un chiaroveggente in trance” nella notte berlinese, quando “le vaste strade erano percorse da mondi totalmente estranei uno all’altro”, è, infine, lui. Nabokov che si fa facile cronista del proprio ombelico, callido esegeta dell’ego? Per carità: il bello di Mašen’ka è che non racconta nulla, fatale gioco d’ombre, epica di un’assenza, libro leggero e fugace, vertiginoso quanto un’effimera.
In sostanza: Ganin, l’esule russo, condivide casa, a Berlino, con varia umanità di espatriati. Gli piacciono le donne, rimpiange l’esagitata Russia, è indifferente alle promesse occidentali; ama la solitudine, è scaltro, non crede nel futuro. Mašen’ka, la moglie di uno dei coinquilini di Ganin, Alfërov, attesa quel fine settimana alla stazione di Berlino, è in realtà l’antica amante del protagonista:
“In quei primi giorni del loro amore si baciarono tanto che le labbra di Mašen’ka si gonfiarono e sul collo, così tiepido sotto il nastro dei capelli, erano impressi delicati segni vampireschi. Era una ragazza incredibilmente allegra… le piacevano le filastrocche, i motti, i giochi di parole e le poesie”.
Icona della memoria, del tempo perduto e impudente, Mašen’ka è il vuoto attorno a cui è costruito il romanzo di Nabokov. Ricco di debiti con Lev Tolstoj, il libro, rotondo, rapido, è un repertorio di leccornie verbali:
“Mašen’ka, ripetè Ganin, cercando di mettere in quelle sillabe tutta la musica che un tempo avevano contenuto – il vento, il ronzio del palo del telegrafo, la felicità – insieme a un altro suono, intimo, che infondeva in quella parola la propria essenza vitale. Si sdraiò supino, ad ascoltare il passato”.
La memoria, pare dirci Nabokov, è impulso erotico, bramosia. In un saggio pubblicato nel 2019 sul “New Yorker”, Vladimir Nabokov, Literary Refugee, Stacy Schiff, già autrice di una biografia su Vera. Mrs. Vladimir Nabokov (con cui ha vinto, nel 2000, un Pulitzer), ricostruisce la fuga dello scrittore dalla Russia rivoluzionaria. Emigrati in Crimea, estremo dominio dei “Bianchi”, costretti a virare verso l’Europa, “I Nabokov si affollano su una nave da carico greca. Invasa dai profughi, Costantinopoli li respinge. Per giorni si trascinano su un mare agitato, mangiano biscotti per cani, dormono per terra. Quando compie 20 anni, Nabokov sbarca ad Atene”.
Dalla Grecia, la famiglia si sposta in Inghilterra: Nabokov, “perfettamente trilingue”, si iscrive al Trinity College, Cambridge; i genitori proseguono verso Berlino. Durante una visita al British Museum, Nabokov è folgorato dai diari di Robert Falcon Scott, inquietanti come la livrea della Acherontia atropos: la rovinosa avventura per conquistare il Polo Sud gli ispira un testo teatrale, Polyus, abbozzato in Francia, pubblicato sulla rivista russo-berlinese “Rul’” nell’agosto del 1924, ancora inedito in Italia (ma raccolto e tradotto da Dmitri Nabokov in The Man From the USSR and Other Plays, 1984). Nei meandri antartici, profezia della Zembla di Fuoco pallido, “regno di pace e di eleganza”, Nabokov intravede la Russia e il suo delirio, la cupa colpa dell’apolide, lo stigma dell’apostata. Mašen’ka, pubblicato poco dopo, è un inno alla Russia desiderata e sfinita, maledetta, amata, tradita: la donna rincorsa da Ganin, implume sentimentale, ne è l’emblema (“Domani gli sarebbe stata restituita tutta la sua gioventù, la sua Russia”). Se Lolita è il simbolo dell’estremo Occidente, degli Stati Uniti, leccornia carnale, per sempre giovane, accogliente, Mašen’ka raffigura l’efferata Russia, evanescente e dunque indimenticabile, un cratere di spettri: “L’amore richiede intimità, riparo, un rifugio – rifugio che loro non avevano”.
Il 23 ottobre del 1970, Mary è appena sbarcata nelle librerie inglesi, in un articolo pubblicato sul “Times Educational Supplement”, Nabokov lamenta “l’esclusione della Russia” dalla Guida alle farfalle britanniche ed europee:
“La scienza non utilitaristica non prospera in quel paese triste e guardingo; il mite signore straniero che sogna di raccogliere farfalle nelle steppe si troverà ben presto con il retino impigliato in un groviglio di filo spinato”.
Amore, odio.
In uno dei passi più delicati del libro, il narratore dice di Ganin, cioè di se stesso, che “il suo vero io era in Russia… per lui il tempo era diventato il corso del ricordo”. A Berlino, Nabokov aveva scelto come maestro Vladislav Chodasevič, “il più grande poeta russo che il Novecento abbia prodotto”: raffinato, isterico, nichilista, livido di un male interiore, aveva raccontato in un libro ricco di illuminazioni e di pettegolezzi, Necropoli (in catalogo Adelphi dal 1985), la fine di un mondo e lo sterminio dei poeti sotto il regime sovietico. La prima volta si erano incontrati nel 1922. Il padre di Nabokov, Vladimir Dmitrievič, aristocratico, politico di fede progressista, era stato ucciso da poco durante una conferenza, a Berlino, da un gruppo di monarchici russi. Quindici anni dopo, per poter emigrare dalla Germania hitleriana, Nabokov fu costretto a chiedere un visto a uno degli assassini del padre, Vasilij Biskupskij, nel frattempo assunto tra gli alti ranghi della burocrazia nazista. Cose che possono accadere soltanto a un romanziere russo.