17 Agosto 2018

Erano per Almirante, ma piacevano a Berlinguer: ode ai “bad boys” del calcio, la Lazio irriverente di Chinaglia e Maestrelli

“Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”, diceva Jorge Luis Borges. Li hanno definiti maneschi e fascisti, eppure hanno scritto una delle pagine più belle del calcio italiano. C’è tutta una letteratura su quella squadra di cui ha parlato nel libro Pistole e palloni, ripubblicato nel 2017 da Liet Edizioni, il giornalista e scrittore Guy Chiappaventi. La Lazio di Tommaso Maestrelli, l’allenatore buono, nel 1972-’73 sfiorò lo scudetto e vinse il campionato di serie A nel 1973-’74. Due anni prima militava in serie B. L’ambiente non aveva accolto favorevolmente quel gentiluomo nato a Pisa, che aveva combattuto in Montenegro, che era stato un giocatore dell’odiatissima Roma e che aveva guidato, fino quel momento, compagini di serie cadetta come la Reggina, il Bari e il Foggia. Poi, all’improvviso, il miracolo Lazio. Era specialmente la squadra di Giorgio Chinaglia e Giuseppe Wilson, che non sopportavano chi parlasse lombardo. Maestrelli aveva diviso lo spogliatoio in due. Di qua i chinagliani, di là Martini, Re Cecconi e “quelli del nord”. Chinaglia, centravanti, era un ragazzone bizzoso, figlio di emigranti che aveva iniziato a giocare in Galles dove gli italiani venivano definiti con disprezzo “i camerieri”. L’altro, Wilson, difensore colto e raffinato, il primo calciatore laureato ancora in attività. Nell’undici di base della Lazio del ’74 militavano: Felice Pulici, Sergio Petrelli, Luigi Martini, Giuseppe Wilson, Giancarlo Oddi, Franco Nanni, Renzo Garlaschelli, Luciano Re Cecconi, Giorgio Chinaglia, Mario Frustalupi e Vincenzo D’Amico. La squadra si dichiarava politicamente dalla parte dell’Msi di Giorgio Almirante, ma Enrico Berlinguer, segretario del Pci, aveva simpatie per i colori bianco-azzurri e non lo nascondeva. “Eravamo convinti che potessimo fare ciò che volevamo, sempre e dappertutto”, ha ammesso il capitano Wilson in una recente intervista che ho pubblicato sulla rivista “Lazialità”. Quei giocatori sparavano alle lampadine degli alberghi lasciando sbigottiti i proprietari, ma anche in mezzo alle gambe dei massaggiatori che si prestavano a fare da cavie. Qualcuno volava con il paracadute. Attirarono le attenzioni del figlio del Presidente delle Repubblica Giovanni Leone, Giancarlo (oggi dirigente di spicco della Rai), che il giovedì si allenava con quel gruppo di scalmanati. Durante le partitelle infrasettimanali volavano spintoni, schiaffi, calci e qualche fondo di bottiglia. La domenica, però, il mucchio selvaggio era un blocco unito, granitico. Sono morti quasi tutti, qualcuno addirittura per un’incredibile fatalità (a Re Cecconi il 18 gennaio 1977 spararono dentro una gioielleria in circostanze mai chiarite del tutto, nonostante la versione ufficiale fu che avesse inscenato una finta rapina). Giorgio Chinaglia, latitante negli Stati Uniti e imputato in Italia per i reati di riciclaggio di denaro e aggiotaggio nel tentativo di riprendersi la Lazio, se ne è andato il 1° aprile 2012, di domenica durante l’ora delle partite.

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libro LazioMa come fece quella squadra così irregolare a vincere il campionato contro ogni previsione? Annotò Mimmo De Grandis (il padre di Stefano, noto conduttore televisivo di Sky Calcio) in S.S. Lazio (Edi-Grafic 1977): “Nessuno lo pensa, nessuno se ne accorge. La squadra è divisa, c’è un gruppo di maggioranza, uno di minoranza, c’è il gruppo degli indipendenti. Al di sopra di tutti si innalza però la figura di Tommaso Maestrelli che tiene in pugno la situazione e governa la barca con sensibilità e intelligente elasticità”. Il segreto stava nelle capacità umane di questo padre per tutti. Affabile, discreto, in grado di gestire sapientemente i suoi ragazzi. Li capiva, li ascoltava. Li difendeva, li perdonava. Il giornalista Franco Recanatesi ha scritto un volume che lo ricorda affettuosamente: Uno più undici (L’Airone 2006) definendo Tommaso Maestrelli “l’interprete più anomalo e meno integrato di un mondo decisamente venale, discretamente superficiale e un po’ tronfio”. Gianni Brera reputava la Lazio un’eresia calcistica. Giocava un calcio all’olandese, arrembante e dinamitardo. Ma si sa, le storie belle finiscono presto. Nell’inverno del 1975 Maestrelli iniziò a stare male e si accasciò al termine di una trasferta vittoriosa a Bologna. Il perseverare dei sintomi lo costrinse a sottoporsi ad esami clinici. Gli fu diagnosticato un epatocarcinoma al fegato. “Perché mi avete chiamato per farmi vedere un morto?”, disse il famoso chirurgo Paride Stefanini allargando le braccia. Perse quasi quindici chili in due settimane. La squadra dello scudetto, senza il suo allenatore, stava precipitando in serie B. All’inizio della stagione 1975-’76 venne chiamato sulla panchina il bergamasco Giulio Corsini, che entrò subito in conflitto con Chinaglia. L’intransigenza di Corsini cozzava con lo spirito di ragazzi anarchici e ammaestrati solo dalla bontà e della dolcezza di Maestrelli. I giocatori continuavano a pensare al loro secondo padre e passavano ore al suo capezzale. Intanto un immunologo genovese, Saverio Imperato, stava sperimentando sull’allenatore una nuova cura contro il cancro. Si era presentato spontaneamente promettendo la guarigione. I risultati furono stupefacenti. Maestrelli, sul letto di morte, cominciò a reagire bene e gli tornò l’appetito. La cura si chiama sinterapia, ed è un trattamento che agisce in sinergia con le terapie ufficiali utilizzando il vaccino BCG per stimolare le difese immunitarie del corpo a reagire contro le cellule tumorali. L’allenatore buono ordinava il pesce e la carne mentre i ristoranti di Roma si mobilitavano per portargli a casa i piatti più prelibati. L’attrice Lea Padovani, tutti i lunedì, gli faceva recapitare la pasta con i fagioli da lei stessa cucinata.

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Era il 30 novembre del 1975. Un giorno insignificante, una domenica come un’altra, per gli italiani. La Lazio partì per la trasferta di Ascoli Piceno. Negli spogliatori dello stadio, prima della gara, in uno dei tanti diverbi tra Chinaglia e Corsini, l’attaccante diede un ultimatum all’allenatore: “Se oggi perdiamo, tu te ne vai”. Maestrelli, da casa, si apprestava ad ascoltare “Novantesimo Minuto” seduto sulla poltrona del salotto. Ad Ascoli faceva freddo. In Piazza del Popolo, chiusa dallo splendido abside di San Francesco, il convoglio dei tifosi di casa partiva alla volta dello stadio. Ascoli era per tutti la città di Alfredo Alfredo di Pietro Germi, e Dustin Hoffman poteva sembrare un po’ l’americano che sarebbe diventato di lì a poco Giorgio Chinaglia andando a giocare nei Cosmos stellari di Pelé e Beckenbauer, diventando in un paio di anni l’icona del calcio statunitense che si stava espandendo in tutto il paese. Allo stadio Cino e Lillo del Duca l’Ascoli si batté al massimo delle forze, mentre la Lazio appariva smarrita. Segnarono Gola e Morello. All’ultimo minuto l’arbitro indicò il dischetto del calcio di rigore in favore la squadra romana. Chinaglia realizzò con un tiro laterale a sinistra. Il bomber esultò, irriverente, verso il pubblico ascolano che l’aveva fischiato per novanta minuti. Per i laziali Ascoli non era di certo, quella notte, la città del film I delfini di Citto Maselli, in cui i giovani del posto furono incapaci di rompere un ordine prestabilito, di andarsene dal luogo della nascita, ma proprio nella cittadina marchigiana nacque la suggestione dell’incredibile ritorno. Chinaglia e Wilson telefonarono a Maestrelli abbandonando ogni indugio: “Mister, noi senza di lei siamo un’armata brancalone”. L’allenatore buono fece una scelta d’amore. Emaciato, magro, febbricitante, ritornò in panchina per i suoi ragazzi. Quando mercoledì 3 dicembre 1975 sciolse ogni riserva, a molti tifosi vennero le lacrime agli occhi, mentre altri aspettarono che si accomodasse in panchina, per crederci veramente. Fu accolto da 75.000 spettatori per la partita interna con il Napoli del 7 dicembre. Salvò la squadra dalla retrocessione, ma morì l’anno successivo, il 2 dicembre 1976. Per un destino crudele, nel 1999 e nel 2011, sono venuti meno, per lo stesso male, anche Patrizia e Maurizio, due dei quattro figli.

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Tommaso, dopo la partita di Ascoli, aveva chiamato la moglie Lina per dirle: “Amore mio, torno ad allenare. Non mi dire di no”. Si era appena lavato il viso e aveva passato il dopobarba sul mento. Si infilò un maglione e si avviò in corridoio dove era posizionato il telefono. Chinaglia e Wilson si abbracciarono come bambini perché erano stati i primi a saperlo, appena rientrati nella capitale e diretti al night club preferito, il “Jackie’O”, meta del jet set italiano di allora. I bad boys avevano finalmente ritrovato il loro maestro. Belli e maledetti, come quella Lazio eccessiva, indomita. Una formazione dove Giorgio Chinaglia si permetteva di sbeffeggiare la Juventus e perfino Gianni Agnelli in persona, l’unico che lo aiutò nella folle impresa di diventare presidente della Lazio nel 1983. Oggi, in un’epoca oberata da costi e fatturati, il calcio degli affetti è svanito. E ci manca, come ci mancano Maestrelli e Chinaglia. Chissà se Giorgio, Long John dalla marca di whisky che beveva, si sentiva solo, in Florida. Dicono che non facesse altro che parlare di Roma, dei tempi belli. Tante volte era tornato e tante volte se ne era andato. Un’avventura continua. Roma è stato sempre orfana di lui, quando non c’era. Ogni settimana lo raggiungeva Giancarlo Oddi al telefono. Parlavano da vecchie glorie, ma l’amore per quella maglia era rimasto immutato. E pensare che qualche giorno prima ci aveva anche giocato, sulla malattia. L’ex compagno di squadra gli aveva detto: “Mica te ne vorrai andare prima di rivederci?”. Lui rispose che stava bene e rise. Aggiunse poche cose con la voce roca, intervallata dalla boccata di una sigaretta appena accesa. A Naples, nella città dove viveva, il clima era ideale. Ci abitano anche Steven Spielberg e Larry Bird su quella linea costiera dal clima temperato. Ma Roma era Roma. I figli di Tommaso Maestrelli hanno voluto che salma del campione fosse tumulata accanto a quella del padre nel cimitero di Prima Porta a Roma (dove ancora oggi giungono mazzi di fiori da tutta Italia). Per una ricongiunzione ideale, come dopo quella lontana partita di Ascoli, che ormai quasi nessuno ricorda più.

Qualunque cosa può essere mitologia. Anche il mito dell’infanzia, del tutto soggettivo, che in questo caso si lega al gioco del calcio, al “basso epico” che Jorge Luis Borges vede come la faccia moderna di un passato altrettanto mitologico, quello dei gladiatori dell’Impero Romano per intenderci, dei lottatori che sublimavano la lotta per la sopravvivenza. Il mito segue il senso della forza fisica, dell’imposizione fiera ed eroica incarnata da Tommaso Maestrelli e Giorgio Chinaglia.

Alessandro Moscè

 

 

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