09 Novembre 2017

Visar Zhiti, l'ultimo poeta arrestato dal regime comunista (che piaceva tanto a Eco)

La parola a Umberto Eco. Novembre 2010, la Repubblica. “È che la poesia fa paura ai regimi autoritari e dittatoriali anche se parla soltanto, come nel caso di Zhiti, di rose”. Zhiti è Visar Zhiti, poeta albanese, classe 1952. Visar Zhiti ha un record tragico. È l’ultimo poeta sopravvissuto alle carceri del regime comunista. In particolare, è sopravvissuto al tallone di ferro del regime di Enver Hoxha. Riassumiamo i fatti. Tragici. Esatti. Zhiti, nato a Durazzo, figlio d’arte – il padre è attore di teatro e poeta per diletto – si accinge a diventare la stella della nuova poesia albanese. A poco più di vent’anni ha terminato la prima raccolta. S’intitola Rapsodia della vita delle rose. Il libro – qui sta l’aspetto tragicamente interessante – viene osteggiato dagli intellettuali ‘di regime’, dai critici letterari del tempo. “Mi accusavano di aver scritto poesie tristi, in un linguaggio ermetico, ostile ai dettami del ‘realismo socialista’. Dissero che ero malato”. Dal dire al carcere, c’è di mezzo un processo. Nel 1979 Visar Zhiti, denunciato dai promotori culturali ‘rossi’, viene incarcerato “perché poeta, senza aver commesso altro delitto che scrivere poesie”. Nel 1980 è trasferito in un campo di concentramento sulle montagne albanesi. A lavorare nelle miniere di rame. Una specie di risorgente Gulag sovietico. “Era un lavoro durissimo. Penetravamo a piedi, per chilometri, sotto terra, come gli schiavi nell’antichità. Per non impazzire, senza carta né penna, al buio, scrivevo poesie, nella mia mente”. Il carcere estremo termina nel 1987. Il poeta può lavorare in una fabbrica di mattoni, a Tirana. Di pubblicare le sue poesie, è ovvio, non se ne parla. Poi, finalmente, nel 1991, la fuga dall’Albania, prima a Milano, poi in Germania e negli Stati Uniti. Visar è la voce sommessa della tragedia dei poeti albanesi sotto il regime ‘rosso’. Una storia ignota ai più. Nel 1995 torna, in condizioni politiche mutate, nel suo Paese. E a poco a poco viene risarcito. Zhiti copertinaLe sue poesie, di esemplare nitidezza, nate dall’amore per Walt Whitman, Baudelaire e Dostoevskij – tutte letture censurate dal regime albanese – trovano spazio in Italia. “Esemplare e prodigiosa insieme è la vicenda umana e poetica di Visar Zhiti”, sottolineano i curatori (Ennio Grassi e Rosangela Sportelli) di un numero monografico – e fondamentale – di ‘In forma di parole’, dedicato ai Poeti della terra d’Albania. In Elio Miracco il poeta albanese trova un abile traduttore: in questi anni più recenti escono raccolte come Confessione senza altari e Il visionario alato e la donna proibita. L’ultimo libro, uscito pochi giorni fa per Rubbettino, Il funerale senza fine (pp.156, euro 15,00; in origine è uscito nel 2003), è un possente romanzo in versi in cui Zhiti ha il coraggio di guardare nell’ulcera prodotta dal pensiero collettivista (“è meglio non pensare, perché non solo non ti stanchi, ma eviti i sospetti, che diventano sempre guai”), dall’ideologia ‘rossa’, dal clamore di ogni dittatura, tra passi feroci (“Brutale è stato il funerale di Stalin./ Correvamo per entrare nel corteo. Soprattutto i contadini./ Correvamo e calpestavamo quanti/ cadevano per terra. Morivano tra le urla./ A centinaia. Mi ascolti?”) e la speranza, cocente, conturbante, dell’amare. Per qualche anno Visar Zhiti ha avuto ruoli diplomatici nell’ambasciata albanese in Vaticano, entrando anche in contatto con Papa Francesco. Ora è da poco ‘dirottato’ a Washington DC. Lo abbiamo contattato.

Come è nata l’idea di Funerale senza fine? Si tratta, forse, del requiem, del funerale di una intera civiltà?

“Difficile da spiegare. Soprattutto per l’autore, che è ‘morto’ quando esce il suo libro e gli altri ne parlano come a un funerale… Il libro parla da sé. Però, sono d’accordo con lei, è il requiem, il funerale di una civiltà, un allarme pieno di dolore, triste, grottesco, postmoderno, postkafkiano. L’idea di scrivere il romanzo in versi non è venuta in un attimo: esso è pensato durante tutti i giorni e le notti della mia vita. Spero che mi sopravviva. In Romania, dove il libro è stato tradotto, uno scrittore ha detto, ‘un soggetto raro, destinato ai rari’”.

Quali sono state le sue ispirazioni nella scrittura di questo libro?

“Più che una ‘inspirazione’ direi una ‘respirazione’, anzi, un affanno permanente. Ho respirato la dittatura nel mio paese, quella è l’ispirazione. Ma non è solo la metafora della mia vita: tutte le dittature, antiche e nuove, sono sofferenza, noia, inutilità, sentimento del nulla, di camminare in vano, una sensazione terribilmente pensate quando è collettiva, collettivizzata”.

Lei è stato in carcere, imprigionato dal governo comunista albanese, perché eri, e sei, un poeta. Come mai un poeta fa paura al regime, al potere?

Bisognerebbe chiederlo ai dittatori. Mi sembra interessante, a proposito, quanto ha scritto Umberto Eco: ‘A giustificare l’esigenza di recludere un poeta non è necessario che uno scrittore si muova anche, o eminentemente, come soggetto politico e, come Zenone, cospiri attivamente contro il tiranno. Si veda… la vicenda di Visar Zhiti: gli è bastato scrivere poesie considerate dai redattori di una casa editrice ‘tristi ed ermetiche’, e quindi ostili al regime. Poi la pratica è automaticamente passata al Comitato centrale del partito albanese e al ministero degli Interni, e Zhiti si è guadagnato giustamente dieci anni di carcere. È che la poesia fa paura ai regimi autoritari e dittatoriali anche se parla soltanto, come nel caso di Zhiti, di rose’. Ma le dittature e i dittatori hanno bisogno di poesia e di poeti, questa è l’altra faccia della medaglia. I dittatori hanno bisogno dei poeti per esaltare se stessi, per crearsi un alibi. Spesso durante le dittature sono gli intellettuali il vero pericolo per i poeti”.

 A 100 anni dalla Rivoluzione russa, che giudizio dai del comunismo come forma di governo?

“Nel XX secolo metà del mondo era parte dell’impero comunista. Il XX secolo inizia con la terribile Rivoluzione bolscevica ed è finito con il crollo dell’impero comunista. Come prassi, il comunismo è stato antiumano, è nato nel sangue e ha prodotto fiumi di sangue che hanno creato nel mondo un oceano di sangue. Come idea, il comunismo è una utopia, che alla greca significa ‘senza un posto’… Un filosofo e scrittore americano, George Santayana, diceva che il comunismo è ‘antibiologico’. Cosa posso aggiungere? La mia giovinezza in carcere e le mie poesie. Per fortuna l’impero comunista è imploso, pacificamente, senza rivoluzioni, consumato, come i dinosauri. Certo, sono indimenticabili le vittime dei Gulag, le carceri, le migliaia di vittime tra dissidenti, oppositori, martiri, anche nel mio piccolo paese ci sono tanti martiri. Io sono per la dittatura dell’amore”.

 Che giudizio ha della cultura italiana?

“Più che altro, la amo. La poesia, la lingua, la musica, la pittura, il Rinascimento, Dante, il più grande poeta al mondo, I moderni, le chiese…”.

Quali sono, a tuo avviso, i poeti albanesi che andrebbero tradotti in Italia?

“Vorrei che l’Italia amasse i poeti albanesi, tanto quanto gli albanesi amano l’Italia. La letteratura Albanese, ora, è piuttosto presente, grazie ai traduttori e agli autori albanesi che scrivono direttamente in italiano. La mia proposta è che siano tradotti in Italia i poeti perseguitati, fucilati dal regime, o finiti in carcere. Sono poeti davvero meravigliosi, che non hanno appoggi, e rischiano di essere condannati all’oblio, con tutte le sue perfidie. Solo l’Albania può costruire una grande antologia dei poeti fucilati o carcerati durante il regime comunista. Io l’ho creata e pubblicata nel mio Paese. Quei poeti sono dei messaggeri dell’Europa, e l’Europa dovrebbe conoscerli, pienamente”.

Ora lei abita negli Usa: che cultura respira, è riconosciuto come poeta? Oggi, a cosa stai lavorando? 

“Dopo la missione diplomatica in Vaticano, presso la Santa Sede, uno stato ‘celeste’ e pieno di Misericordia, dove ho avuto una esperienza magnifica, adesso sono in un’altra superpotenza… Sono in mezzo a un popolo che lavora e che stima chi lavora. Un mio libro di poesie è stato tradotto negli Stati Uniti, ma ora ho fame di conoscere i poeti e la cultura statunitense. A cosa sto lavorando? Contemporaneamente a Funerale senza fine, è uscito in Albania un altro mio libro, che raduna poesie, saggi e traduzioni dedicate a un poeta noto anche in Italia, Evgenij Evtuschenko, e a mio figlio che studiava al ‘Sacro Cuore’ di Milano. Loro due si sono conosciuti, e forse ora sono insieme, in Cielo. Quando pubblico un libro, mi sembra sempre che sia l’ultimo”.

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