16 Luglio 2020

Guareschi & Zavattini sono dei giganti, ma non li studiamo a scuola; Giuseppe Verdi ha composto una autobiografia incredibile; Vittorio Bottego è stato il nostro Conrad. Guido Conti scrive il romanzo di Parma e rifà i connotati al “canone”

La città d’oro, Parma la letteratura 1200-2020, edito da Libreria Ticinum Editore è un romanzo ambizioso, è una raccolta di saggi, un libro autobiografico, un tentativo, attraverso 780 pagine e 250 immagini, di definire che cosa è il genius loci di un territorio, e fotografa anche l’immagine di una città che quest’anno, e per il 2021, sarà capitale della cultura italiana. Un libro che rompe gli steccati rispetto ai generi, che propone un modello narrativo di sentieri che escono dalle secche ripetitive e obsolete di certi schemi di lettura del passato.

La città d’oro racconta la letteratura in un modo diverso, al di là della saggistica accademica, al di là delle storiografie e delle antologie scolastiche: dopo anni di studio l’idea di letteratura che mi sono costruito è completamente diversa da quella che mi restituiscono i manuali di storia della letteratura. Ho sempre pensato che per fare lo scrittore e soprattutto il ricercatore non ci fosse bisogno di essere inquadrato in qualche istituzione, e questo mi ha regalato una libertà di pensiero e di movimento che ha portato i suoi frutti nei libri dedicati a Cesare Zavattini, (l’ultimo è Cesare Zavattini a Milano, 1929-1939, Letteratura, Rotocalchi, radio, fotografia, editoria, cinema pittura, edito da Libreria Ticinum editore, 2019) alla biografia di Giovannino Guareschi per Rizzoli, Guareschi biografia di uno scrittore, 2008, ai tanti saggi sparsi dedicati all’umorismo e alla tradizione del giornalismo satirico che ripensano il passaggio tra Otto e Novecento. Guareschi, per esempio, porta nel Novecento la tradizione della favola moraleggiante, attingendo al racconto ciclico di origine religiosa (le forme aperte della raccolta dei miracoli e dei fioretti di san Francesco, per esempio), con quello epico della novellistica popolare italiana (da Boccaccio al Piovano Arlotto), con un effetto dirompente nella cultura nichilista della morte di Dio (lui fa parlare il Cristo), e di questo non si parla mai nelle antologie scolastiche dove Guareschi non è nemmeno citato. Guareschi pone il problema delle tradizioni e dei tempi lunghi della letteratura, per cui un periodo non si può leggere solo con le categorie di pensiero del proprio tempo. Il Novecento è molto più ricco e frastagliato di come ce l’hanno sempre raccontato e ha radici che affondano in un passato remoto. Le avanguardie non hanno tagliato completamente le radici.

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La città d’oro si compone di 54 capitoli dedicati a ritratti di scrittori e a opere diverse: ho riscritto biografie, ho commentato poesie e pezzi in prosa, per esempio di Francesco Petrarca che a Parma vive più di dieci anni, mettendo le basi per il passaggio dal Medioevo al Rinascimento: qui vive la peste del 1348 e scrive i primi sonetti in morte di Laura e la canzone politica Italia mia. Ho riscoperto la modernità di un poeta come Carlo Innocenzo Frugoni, declassato da decenni come poeta di corte, le cui poesie satiriche sono ancora oggi giudicate da studiosi come “sconvenienti”, “disdicevoli” e “inopportune” dimostrando in questo modo di non aver capito assolutamente niente delle contraddizioni e della modernità di questo religioso che aveva dato i voti solenni senza alcuna vocazione. Ribattezzato arcadico, Comante Eginetico, aveva come amico il poeta veneziano Giorgio Baffo col quale si scambiava sonetti licenziosi, e scriveva ai medici di calli, di emorroidi, di nasi lunghi e lettere d’amore alle giovani fanciulle di cui s’innamorava continuamente anche da vecchio. Scrivere versi era liberazione e sfogo, divertimento e lamento, prigione e fatica, specialmente per quelle centinaia di poesie d’occasione scritte per incensare il duca e famiglia. L’approccio storiografico spesso è miope e asettico rispetto all’anima di uno scrittore.

A Parma si ritrovano le origini della favola de La bella e la bestia, con la storia tragica e comica di questo signore tutto peloso che si ritroverà a vivere con una donna bellissima e la famiglia insieme a leoni e leopardi in quello che oggi a Parma è il Giardino Pubblico.

Ho riscritto la vita di Gianbattista Bodoni che nella sua stamperia ducale riceverà la visita di Napoleone I, di principi e papi. La sua Oratio Dominica (Il Padre Nostro) 1806, scritto in oltre 120 lingue diverse, ha più font del computer su cui state leggendo. Bodoni ha inventato i font e con il manuale tipografico ha rivoluzionato la grafica moderna.

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Ho ripensato a Giuseppe Verdi, che è stato, prima di tutto, un grande lettore, autore della più incredibile autobiografia dell’Ottocento scritta, quasi quotidianamente, attraverso le lettere: non ne troverete una nelle antologie scolastiche. E così per Arturo Toscanini. Sono grandi scrittori anche se non hanno mai scritto romanzi o racconti. La letteratura è tanto altro rispetto ai generi e alle loro gerarchie che ci vogliono inculcare nella testa.

Franco Maria Ricci chiama Jorge Luis Borges a Fontanellato. Per la “Biblioteca di Babele” lo scrittore argentino scrive le introduzioni dei libri della collana, tra critica e autobiografia, e dall’incontro nascerà quello che oggi è diventato il labirinto di bambù, un sogno settecentesco che potete visitare tra collezioni d’arte nella Masone di Fontanellato. I visionari sono i veri realisti.

Ho scritto di Cesare Zavattini che diventerà negli anni trenta “Il padrone di Milano”, che trasformerà l’editoria e i giornali, lavorando per Rizzoli, Bompiani e Mondadori. Un protagonista dell’avanguardia che negli anni della guerra si trasferirà a Roma per scrivere di cinema con tutte le sue utopie, diventando un modello e un punto di riferimento per il cinema mondiale. Parliamo tanto di me (1931), I poveri sono matti, (1937), Io sono il diavolo (1941) sono tre capolavori da considerare allo stesso livello di Svevo e Pirandello, e la cui opera rimette in discussione tutta l’idea di umorismo novecentesco che non è quella del saggio di Pirandello come ha voluto imporre la scuola. Zavattini scrive Totò il buono (1943) che diventerà Miracolo a Milano con la regia di Vittorio De Sica, (1950): questo film avrà un affetto dirompente su García Márquez che vedrà il film a Parigi e gli offrirà, come racconta lui stesso nella biografia autorizzata, Vita di García Márquez, di Gerald Martin, Mondadori 2011, i fondamenti del realismo magico sudamericano. Nelle storie della letteratura italiana, a tutti i livelli, se Zavattini viene citato, lo troverete in qualche nota o ridotto a sceneggiatore di cinema, a dimostrazione di come, non solo il Novecento, sia da riscrivere e ripensare completamente. Purtroppo gli studenti di oggi, e i futuri insegnanti di domani, si formano su questi manuali che sono vecchi e arrugginiti, con conseguenze disastrose.

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Ho parlato di caffè letterari, come il caffè Marchesi, al centro di eventi straordinari: nel 1911 il gruppo di Marinetti, Palazzeschi, Carrà e altri si ritroverà qui per la prima volta fuori dai teatri, con il movimento futurista a fronteggiare folle che vogliono fare a cazzotti. Il futurismo a Parma scende in piazza. Qualche anno dopo, un grande scrittore francese, Valery Larbaud, sempre al caffè Marchesi scriverà uno dei suoi racconti più belli davanti ad uno dei suoi famosi specchi. La Parma di Stendhal, tra reinvenzione e immaginazione romanzesca, ne ha creato il mito a livello mondiale: come scrive Pietro Bianchi, a Parma lo scrittore francese ridisegna una “geografia dello spirito”.

Ho scritto di epistolari come quello tra Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, uno dei più belli e importanti del Novecento, che s’incontrano giovanissimi in piazza Garibaldi. Ho letto libri che giacevano nelle biblioteche da decenni mai presi in prestito e ho trovato libri mirabili come Taccuino 1962-1962 di Pietro Bianchi, uno dei maestri di critica del cinema italiano (cugino di Guareschi, e allievo di Zavattini), che racconta il passaggio e la crisi di una cultura che viaggia verso il boom economico: una meravigliosa riscoperta.

Ho recuperato scrittori come Vittorio Bottego, il Conrad parmigiano che entra nel cuore dell’Africa nera mai esplorata prima: il suo diario, tra cannibali, diserzioni, fame e malaria, diventerà il mito di grandi giornalisti come Bruno Rossi e Bernardo Valli. Il confine tra giornalismo e letteratura è continuamente sfumato in autori come Egisto Corradi, capace di descrizioni straordinarie in libri come Africa a cronometro (1952).

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Ho scritto dell’editore Guanda e del suo rapporto con Antonio Delfini, la nascita con Attilio Bertolucci della collana La fenice, che farà conoscere la poesia mondiale in Italia. Purtroppo si studia la letteratura a compartimenti stagni, come se gli scrittori venissero uno dopo l’altro, bollati o incasellati sotto categorie generiche che impediscono una corretta lettura, secondo una idea di tempo lineare ormai obsoleta, e che ritrovo spesso alla base di certe letture di giovani critici “sgomitanti” (volevo scrivere “militanti”). La storia è intreccio, e compresenza di tempi e di temi, con influenze e modelli che superano e vanno al di là del proprio tempo. La Cronica di Salimbene, la più bella in lingua latina, per me è un modello romanzesco, molto più importante di tanti romanzi di autori americani di oggi: sa intrecciare l’autobiografia, la grande storia, la cronaca, la visionarietà e l’immaginario come pochi, e per me resta un modello di narrazione moderna.

La città d’oro è un libro che mi ha posto alcune problematiche fondamentali: che cosa è una tradizione letteraria? Come attraversa i secoli? Come si legge uno scrittore? Da dove partire? Come si descrive una città? Come artisti e scrittori guardano una città? La cultura evolve o non piuttosto sta? Il tempo lineare in letteratura è solo uno specchio deformante? E’ un’illusione?  L’arte ha forse un movimento che assomiglia piuttosto alla risacca?

Dickens viene a Parma, la racconta e non capisce nulla di quello che vede, ma la sua critica illumina il mio scrivere, perché quando vede i fantasmi sbucare dal teatro Farnese in decadenza, tra legni e muffe, invita ad un nuovo rapporto con il passato e i grandi maestri. La città d’oro pone allora il problema di cosa voglia dire leggere, come bisogna leggere, dove partire, come fare critica, come affrontare voci diverse in uno stesso territorio. Dopo Il grande fiume Po, che uscirà da Giunti a settembre in una nuova edizione arricchita e aggiornata, La città d’oro è la seconda tappa del mio viaggio, alla ricerca di geografie letterarie che possono aiutare a muoversi in un paesaggio tanto problematico e frastagliato come quello di oggi. Allora la lista degli autori che ho raccolto in questo libro è lunga, da Vittorio Sereni ad Attilio Bertolucci, da Pier Paolo Pasolini a Luigi Malerba, (insieme a Zavattini) maestro del “manierismo emiliano padano” di Cavazzoni e dei suoi nipotini. Alberto Bevilacqua, autore di alcuni importantissimi romanzi del secondo Novecento e di opere poetiche che segnano l’inizio di questo secolo. E poi Pier Luigi Bacchini, la cui straordinaria poesia oggi conta molti epigoni. Alla fine La città di Parma è forse solo una scusa, un materiale da cui attingere per raccontare tanto altro.

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Questo, dunque, è un viaggio letterario che disegna una geografia letteraria verso il cuore e l’immaginario non solo di una città ma anche di un territorio, e getta uno sguardo molto particolare sul Novecento. Parma è una capitale della letteratura che ha saputo dialogare con l’Europa e il mondo, diventando talvolta centro propulsore di poetiche e di idee, anche nel cinema e nella fotografia. La poesia, la narrativa, ma anche il teatro, la pietra scolpita, i dipinti dei nostri maggiori artisti che hanno fatto la storia dell’arte, sono i protagonisti del nostro presente. Tutte queste forme d’arte narrano storie. Il senso del nostro vivere quotidiano ce lo giochiamo nel rapporto con le storie di questi nostri «contemporanei del futuro». Così Giuseppe Pontiggia parlava dei classici, racchiudendo in un ossimoro tutta la complessità e la bellezza del leggere e del fare esperienza con voci, libri e opere d’arte che arrivano da un altro tempo. Gli scrittori che leggiamo, le pietre su cui camminiamo tra le architetture, lo sguardo di Madame de Stäel o di Goya sotto la cupola del Correggio in Duomo, rappresentano l’esperienza del nostro vivere qui, oggi. Un quotidiano non banale, dove la città diventa teatro di un vivere in cui ci ritroviamo protagonisti e spettatori insieme.

Per questo La città d’oro è un romanzo, è un libro di saggi, è un libro di biografie, è un libro di critica, di fotografie, di riletture e di racconti… ovvero tutte queste cose insieme, in un’idea di opera mondo, se vogliamo, che getta uno sguardo dalla provincia verso l’Europa e nuovi confini narrativi che sono lì, verso un tempo futuro sempre vicino, desiderabile, mete immaginate e impossibili da raggiungere come nel paradosso di Achille e la tartaruga di Zenone.

Guido Conti

 

Gruppo MAGOG