24 Gennaio 2020

“Antonio e io siamo cresciuti nelle cose impossibili, Antonio ci dice che siamo desiderio e attesa, che siamo infiniti”. Discorso su un libro straordinario

Esiste una parola assoluta, la parola assoluta? Quella illuminante, intendo dire, profetica oltre l’impensabile, che cambia il mondo e noi stessi, che anche solo a pensarla il mondo ti cambia sotto gli occhi, e noi stessi dentro il mondo cambiamo?

“Volesse il cielo, e chi ve lo dà?” rispondeva l’anziana venditrice alle richieste di mia nonna, nel negozio di Minori (Costiera Amalfitana), che oggi è un magazzino all’ingrosso. Sul bancone di legno, il mio naso arrivava lì, respiravo quella molteplicità di profumi e ascoltavo il ritmo saltellante che facevano gli scampoli di stoffa mentre venivano rivoltati per essere esposti al cliente.

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Quanti profumi e ritmi si avvertono nelle poesie di Antonio Trucillo! Ma qui, nel suo ultimo libro “Presso il re moro” (Edizioni Ensemble), c’è la prosa, il verso affondato nella prosa, per ficcare la propria bandiera di poeta nella prosa italiana, per fiocinare il corpo della balena novecentesca della prosa italiana, screziata di modelli simbolisti. Antonio Trucillo conosce tutti i libri del Novecento (e non solo), ed è in questa dimensione che egli si muove; conosce tutta la letteratura del Novecento, puro sogno dell’Umanità, grandezza assoluta del Mondo.

La forma appare sperimentale ma ha un riferimento nel mondo classico, dove per forma s’intende questo strutturare e destrutturare continuo di quella idealità lontana e catartica, eppure eterna, presente. Il modello è quello del gran fabbro che con il suo ritmo martellante di ferro e incudine, lavoro di braccia e di fuoco, deforma per realizzare la bellezza che ha sede nella Verità del Mondo, tutta incarnata nel gesto che batte, batte e batte, per dare una visione, il futuro di una parola sognata, umana, umanissima. “È lo stesso non-detto della barca che tocca lo scoglio e del remo che sfrigola nello scalmo. Non è impossibile? Che si sognasse la parola (fuori dalle ore del giorno e della notte la si potesse sognare)”. Si legge a pagina 94.

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E mi viene da dire, a proposito di questo incantamento, di questa visionarietà, quanto ne godrebbe l’uomo di oggi, i ragazzi, in special modo, la scuola, nell’attuale momento storico, di ritornare a uno studio del latino, fin dagli anni delle medie inferiori, nella scoperta che gli alunni farebbero, che la loro lingua non è sospesa nel gergo attuale, ma deriva dall’antico; non è esterna al loro vivere, bensì è dentro di loro, la portano nel petto, nel cuore, nel soffio e nel suono della voce. La conseguenza di questo studio sarebbe che non si sentirebbero più estranei, come appaiono a se stessi oggi, vittime di una recita già recitata, che una strategia di mercato rende servi, influenzati da un mondo fintamente globalizzato ma in realtà estraneo e arrivato a noi attraverso i canali del potere, attraverso la distorsione del web, per sottrarre spazio ai nostri pensieri. I nostri poveri pensieri!

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Antonio e io siamo cresciuti nelle cose impossibili, nel sud delle cose che non si avverano, che possono succedere solo sulla carta, o nelle storie che si raccontano, nel mito, e se si realizzano è per Grazia, per Misericordia, per Provvidenza. Siamo impastati di questo e perciò viviamo la parola più intensamente di altri. La sogniamo, la immaginiamo, pensandola infinitamente possibile di forza oscura e moderna. È irreversibile il suo dramma, di essere sempre nuova, evocativa di rinnovamento. È in questa cosa impossibile che diventa forma, ineccepibilmente.

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Ma che cosa dice davvero Antonio Trucillo nel suo nuovo libro?:

Noi siamo infiniti. Cito da pagina 89: “L’anima è lunga e larga: supera la superficie delle cose visibili. Non ha meta, ma solo il suo destino. Votato alla non afferrabilità, condannato alla non cattività, all’erranza”.

Noi siamo carità e compassione. Cito da pagina 48: “Che posso dire? Che è in mezzo, giusto a metà strada tra la pena e il godimento? Ché a te, se proprio devo dirlo, dico che mi fa pena, quell’aria da miserabile, sì, d’accattona, che pare che uno le debba fare l’elemosina (signora, tenga questo, prenda qualcosa per i piccolini!), e a me (Vuoi che me lo dica? E va bene, me lo dico!) a me questa miserabile Lucia fa un prurito… un godimento? Sì, un godimento”.

Noi siamo desiderio. Cito da pagina 28: “La dolcezza del desiderio si assopisce nei succhi di bevande inebrianti. Che il corpo sia il mondo, sia solo il mondo”.

Noi siamo attesa. Cito da pagina 40: “E poi ho sognato finalmente (il racconto doveva per forza finire così se voleva avere un inizio per essere dipanato) proprio la stessa luce (il sogno voleva dire attendi, attendi, come quando uno si mette a fischiettare in una stradina estiva, appoggiato a una macera, perché ha paura del tonfo) e ho pensato che non ce ne sarebbe più stata un’altra, per me”.

Noi siamo dono. Cito da pagina 21: “O dono, è qui che è apparsa la morte che la madre cavaiola mai vuole ridare sotto l’arco della Bonéa, è qui chi cerca il fiato della neve che indurisce in superficie”.

Noi siamo corpo e idealità. Cito da pagina 93: “Mi piace immaginare che l’alito dell’animale raggiunga le costellazioni che mai dall’inizio alla fine sono state, vale a dire una grandiosità tale di speranza che mai credetti possibile”.

Noi siamo speranza. Cito da pagina 98: “Si tratta di un oscuro lavoro combinatorio, puro pensare (è possibile), idea ottusa del segno, vale a dire della speranza”. E con la speranza arriva a dire il padre, nell’ultima pagina, la 114: “Poi arrivò mio padre nella stanza e odorava di dopobarba e di sigarette. E disse: – L’album va bene lo stesso, anche se non potrai completarlo mai più, lo faremo rilegare, ti servirà quando sarai grande -. Era proprio la fine di febbraio, dopo i fuochi di Sant’Antonio Abate e tutto era come doveva essere”.

Antonio Trucillo vive la parola. Evviva!… Tutto questo in “Presso il re moro” (Edizioni Ensemble).

Vincenzo Gambardella

*In copertina: Luca Giordano (1634-1705), “Benedizione di Giacobbe”

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