Mi studiò per un semestre. Avevo diciannove anni, venivo dalla cupa periferia torinese. Lui si chiamava Sebastiano, abitava a Saronno, il papà era di Catania, faceva il panettiere. Passavamo il tempo, in Università, a parlare di poesia. Si convinse che la mia passione non era estemporanea ma autentica. Non l’ho mai più rivisto: la vita, si sa, procede per tuoni, agnizioni improvvise, pestilenze, trasalimenti. Fu lui a portarmi a “Fogli”: non sapevo che la rivista era stata fondata da Cesare Cavalleri, scrivevo brevi recensioni di libri per bambini. Il responsabile, Andrea Beolchi, sembra ancora oggi un “Rebbe”, il personaggio di un romanzo di Chaim Potok. Fu lui a parlarmi per la prima volta di Ezra Pound – sarà stato il 1999. Le Edizioni Ares, all’epoca, stavano in via Stradivari, in prossimità di piazzale Loreto, a Milano. La casa editrice era, per lo più, l’antro di un alchimista: stretta, buia, odorosa, labirintica come i meandri di un dio notturno. Cesare Cavalleri era un’evanescenza: l’ombra cristallina, l’inaccessibile.
La prima volta che ho conosciuto Cavalleri è stato, in sostanza, leggendolo. Vent’anni fa, per il rocambolesco fiuto del caso, fui arruolato nella redazione de “Il Domenicale”, settimanale di cultura che ancora doveva nascere. Cesare Cavalleri vi collaborò dal primo numero, uscito il 26 ottobre del 2002, occupando la rubrica “La stroncatura”. Si siglava C.C.: nel primo numero decise di occuparsi del “simil-romanzo” di Alessandro Baricco, Senza sangue. Micidiale il finale:
“E, come accade nei film deboli di sceneggiatura e diretti da mestierante, non sapendo come rispondere alle grandi domande, lo scrittore se la cava mandando a letto insieme i due protagonisti in una camera d’albergo. E la letteratura? La letteratura è altrove”.
Nel secondo numero, C.C. sculaccia Roberto Calasso, sua antica preda – nel 1989 aveva giudicato i suoi romanzi, dal palco di “Studi Cattolici”, il mensile che dirige dal 1966, “simulacri di simulacri”. L’ultima frase del pezzo che stronca K. è da ricalcare:
“Il lettore ammira la buccia lucente della mela che Calasso ha confezionato e, se non si accorge del baco che contiene, contribuisce a diffondere un état d’esprit che affretta la dissoluzione”.
Giornalista dalla crudeltà salvifica, di cardinalizia raffinatezza, Cavalleri, è noto, eccelle nell’arte orafa della stroncatura: i suoi pezzi critici – raccolti nel 1998 in un volume edito da Ares, Letture – sono il naturale abbecedario per chi vuole imparare il mestiere. In un pezzo col bisturi, uscito nel 2010, scrisse, a proposito di Eugenio Scalfari, che “La cultura di Scalfari denuncia un’origine manualistica, cioè formata su manuali scritti da professori di liceo che, a loro volta, si basavano su manuali scritti da altri professori di liceo”. Letale.
Di recente, il nome di Cesare Cavalleri ha raggiunto una diversa notorietà. Merito della sfrontatezza – secondo gli atei – o della tenerezza – secondo i cattolici – con cui ha affrontato la morte, quasi fosse un gatto affusolato sul comò. Il 23 novembre, poco dopo aver compiuto 86 anni – nasce a Treviglio il 13 novembre del 1936 – Cavalleri ha preso congedo da “Avvenire”, quotidiano con cui ha collaborato dalla fondazione, scrivendo una lettera al direttore, Marco Tarquinio, dai toni serafici e dunque sconvolgenti: “Carissimo direttore, i medici mi hanno graziosamente comunicato che mi restano 9 settimane di vita. Non immaginavo simile conclusione, ma prendo volentieri atto e mi tuffo nella preparazione immediata al grande salto…”. Il dieci dicembre scorso, su “Robinson”, inserto de “la Repubblica”, Antonio Gnoli ha intervistato Cavalleri, sulla soglia del “grande salto”. È curiosa l’etica di questa morte annunciata, ritardata, osservata come fosse un giaguaro di ceramica. Pulita con il panno. I giornalisti vorrebbero scorgere un ago di timore nel morituro, la grana del tremore dietro la fede imperturbabile. “So già come andrà a finire”, si è limitato a dire Cavalleri.
Presentiva la morte – accaduta ieri, il 28 dicembre – da tempo, C.C., e, per così dire, ha sistemato le sue carte: la lunga intervista biografica con Jacopo Guerriero, nel 2018 (“Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria); la fatale raccolta di poesie, sempre citata, tra il vezzo e lo scherno, e segregata per decenni nel cassetto, Sintomi di un contesto (Mimesis, 2019), la raccolta di stroncature e recensioni, Letture 1967-2020, attesa da anni, che uscirà tra qualche mese. Nel 2021 si era deciso a pubblicare, come Il terrorista & il professore (stampa Ares), l’implacabile epistolario con un suo ex allievo finito in carcere, Arrigo Cavallina, ateo, fondatore dei Proletari Armati per il Comunismo (tra le varie gesta, ha arruolato Cesare Battisti). A cui, prima di tutto, scriveva:
“Hai bisogno di sentirti perdonato. E chi può perdonare, se non Dio solo? Questo è il punto, carissimo Arrigo. Occorre riannodare, ripristinare il tuo rapporto con Dio, perché è Lui che tu hai colpito, direttamente o in te stesso o negli altri”.
La spietata pietà di Cavalleri traluce dal suo portamento: sempre elegante, come se ogni giorno fosse l’ultimo, quello definitivo; un’indole che spiazzava l’interlocutore con frasi lapidarie, spesso spinate. Turbava i luoghi comuni, ti portava al di là di te, come i rari maestri – conosceva il tempo della provocazione e il momento di abbracciare. Nel suo studio – immacolato, a cui hanno accesso tutti ma accedono in pochi – una fotografia, nascosta dietro la porta, lo ritrae con Ornella Vanoni, fluente vanità; uno scaffale è dedicato ai suoi poeti cardinali, Arthur Rimbaud e Saint-John Perse; d’altra parte, ha polemizzato con Eugenio Montale; Dino Buzzati e Giovanni Raboni hanno scritto sulle sue riviste, un epistolario sancisce l’amicizia con Giorgio Caproni; era amico di Ennio Flaiano. Ha scoperto il talento epico di Eugenio Corti e accolto il genio di Alessandro Spina. Preferiva le scritture che non rassicurano. Allievo di Josemaría Escrivá, non è raro trovare l’edizione di Cammino Solco Forgia sulla scrivania di inattesi uomini di potere, cioè di servizio. “Che la tua vita non sia una vita sterile – Sii utile – Lascia traccia”, è il primo apoftegma di Cammino.
In un’intervista che mi ha concesso per “Pangea”, mi ricordò che in campo giornalistico non aveva avuto maestri – “La cultura è sempre di autodidatti” –, che amava Ezra Pound ma anche tale Raffaele Carrieri – “La sua “Civetta” è il primo libro di poesie che ho acquistato su una bancarella. Avevo quattordici anni. Sono ostinatamente fedele” –, che i poeti, ad ogni modo, è meglio leggerli che frequentarli e che praticava l’I-Ching, l’antico libro di divinazione cinese, “una cosa seria, non un passatempo giocoso”. In un’altra intervista mi ha detto che
“Dio nessuno lo conosce, ci arriviamo – imperfettamente – attraverso Gesù, uomo come noi. Ma la ricerca è lunga, dobbiamo metterci continuamente in discussione”.
Non so perché sia entrato nell’amicizia di Cavalleri. Era incuriosito, credo; non potevo corrispondere alla sua generosità, non gli piaceva sentirsi dire grazie. Nel 2005 mi portò – mi impose, presumo – al Premio San Pellegrino. Molto tempo prima vi erano passati Ungaretti e Comisso, Piovene, Montale, Zanzotto e Parise. A dirigere il tutto, con pugno zarista, era Raffaele Crovi, all’epoca un nume dell’editoria, oggi chi se lo ricorda. Come mio solito, ero galvanizzato, credevo di spaccare il mondo, di avere finalmente la mia rivalsa. L’orfano che diviene re. Avevo pubblicato il primo libro di poesie, un poemetto, Annali, con le Edizioni Atelier. Cavalleri, con cauta cattiveria, mi ricordò che avrei dovuto accontentarmi: il premio sarebbe andato a Milo De Angelis, che con Mondadori aveva pubblicato Tema dell’addio. Così andò.
In qualche modo, Cavalleri mi ha fatto suo, seguendo tutto quello che ho pubblicato, con attenzione non scevra dal rigore. Nel 2008 – il tempo è tale da aver sconfitto ogni pretesa – scriveva, su “Avvenire”: “La trascinante affabulazione di Brullo, che non conosce cedimenti, è una speranza per la poesia del Terzo Millennio”. Mi ha fatto credere di essere davvero un poeta, me ne ha dato lo scettro e la stola, dunque la responsabilità. La grazia non va meditata, ma assunta.
Era sbrigativo quando gli facevo una improvvisata, ma con nitida delicatezza e sorrisi di perentoria infanzia; si scostava, quasi, dandoti a intendere che c’era un altro a cui dedicare pene e gioie, una luce. L’ho visto così di rado in questi anni tentacolari, ma i rimorsi sono cani carnivori, un lusso impari, in fondo inutile.
Di recente mi ha scritto “Ti voglio bene” e ne sono orgoglioso. (d.b.)
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Si ricalca la nota biografica di Cesare Cavalleri divulgata dalle Edizioni Ares.
Cesare Cavalleri, una vita nel segno della fedeltà
Dopo aver frequentato i Salesiani e l’Istituto tecnico commerciale di Treviglio, Cavalleri iniziò a lavorare presso la Banca Nazionale del Lavoro di Milano (1955-1959). Si iscrisse ai corsi serali di Economia e si laureò in Cattolica con una tesi sui “Processi stocastici e le loro applicazioni”, in cui studiò, come spesso ricordava, la frequenza del fonema zeta (zz) nei Pensieri di Leopardi.
In quegli anni universitari conobbe l’Opus Dei ed entrò a farvi parte il 23 giugno 1959 scegliendo la via del celibato apostolico come numerario. Conobbe di persona san Josemaría Escrivà, il fondatore dell’Opus Dei, di cui serbò un ricordo indelebile.
Nell’autunno del 1960 Cavalleri si trasferì a Roma per collaborare alla Rui (Residenza Universitaria internazionale) inaugurata l’anno prima. Nel contempo, si diplomò in Sociologia presso l’Istituto Luigi Sturzo. È del 1961 il trasferimento a Verona, dove divenne assistente alla cattedra di Statistica del prof. Luigi Vajani, iniziò quindi a collaborare alla terza pagina dell’Arena e fondò la rivista Fogli, “Rivista di cultura, attualità e di problemi giovanili”; di quell’esperienza, ricordava con un sorriso una polemica con Eugenio Montale a proposito del rapporto tra generazioni.
Nel 1966 prese il timone di Studi cattolici, mensile di “studi e di attualità”: è stata una direzione record durata ininterrottamente sino a oggi, così come la collaborazione al quotidiano Avvenire, su cui scrisse sin dal primo numero (4 dicembre 1968), prima come critico televisivo e poi come osservatore culturale. Nei decenni chiamò alla collaborazione con Studi cattolici personaggi come Joseph Ratzinger, Vittorio Messori, Maria Adelaide Raschini, Vittorio Pomilio, Gianfranco Morra e Eugenio Corti, il cui romanzo Il cavallo rosso (1983) divenne un long seller delle Edizioni Ares, tradotto in diverse lingue e amato dalle generazioni più giovani.
Gli articoli di Cavalleri per Avvenire della rubrica “Persone & parole” sono stati raccolti in quattro volumi antologici delle Edizioni Ares, mentre i contributi della sua critica letteraria sono confluiti nel libro Letture, personalissimo e controcorrente canone del Novecento: Cavalleri è stato un critico letterario libero e severo, fedele alla massima di Rilke: «Bisogna attenersi al difficile» o a quella poundiana «la bellezza è difficile».
Tra gli autori prediletti: Dino Buzzati, Eliot e Quasimodo (di questi tre aveva incorniciato gli autografi in ufficio), Ungaretti (che frequentò nella casa del poeta all’Eur e da cui ebbe in dono Un grido e paesaggi), Campana, Montale (di cui difendeva il Diario postumo), Flaiano, Pound (cui dedicò una collana Ares), Rimbaud, Carrieri, Cardarelli, Pomilio (di cui elogiava il mimetismo linguistico), Caproni (con cui avviò un intenso carteggio sulla ricerca di Dio), Alessandro Spina (considerato un maestro di stile come Cristina Campo e di cui pubblicò Nuove storie di ufficiali e L’oblio), il premio Nobel Saint John Perse. Proprio da un’intervista del 1955 di quest’ultimo trasse una delle espressioni più amate: «Alla domanda sempre riproposta: “Perché scrive?”, la risposta del Poeta sarà sempre la più breve: “Per vivere meglio”». Per vivere meglio è anche il titolo della sua autobiografia in forma di conversazione con Jacopo Guerriero uscita nel 2018 per La Scuola.
Oltre alla letteratura, Cavalleri amava la moda, il Liberty e la musica in ogni sua espressione, con una speciale predilezione per Maria Callas: «Sono monotematico. Adoro Maria Callas, solo la Callas». Nella sua biblioteca si alternavano scaffali dedicati alla Sindone, alla Semiotica e all’Estetica ma anche ai Ching e al Bon Ton.
In gioventù reputò determinante l’incontro con lo scoutismo (1949): ricordava a memoria la legge scout dal primo dei suoi “comandamenti”: “lo scout considera suo onore meritare fiducia”.
In ufficio Cavalleri aveva incorniciato le foto dei suoi incontri con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, nonché con i successori di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei. Tra i libri della Scrittura più amati figuravano Giobbe, Il cantico dei cantici e il Qoelet.
Nei suoi lunghi anni di direzione Cavalleri ha voluto che le Edizioni Ares si distinguessero per la difesa della vita, dal concepimento fino alla sua naturale conclusione, e per la promozione di un’autentica cultura cattolica, che ponesse la sua attività al di sopra delle contrapposizioni tra modernisti e tradizionalisti, tra conciliari e anticonciliari. Nel 2004 fu insignito del Premio Internazionale al merito della Cultura Cattolica e nella Motivazione il suo impegno venne paragonato al pater familias evangelico che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche: «La cultura cattolica di Cavalleri non si è mai posta al rimorchio della modernità, ma ha saputo coglierne le attese e i fermenti per condurla alla riscoperta di una dimensione di verità e di speranza».
Con l’avanzare della malattia avviò una ristrutturazione organizzativa e gestionale della Casa editrice, con l’inserimento di nuove figure manageriali e di diversi giovani, uno sviluppo iniziato dal passaggio dalla sede storica di via Stradivari alla nuova di via Santa Croce, nel cuore di Milano, (significativamente affacciata sul parco “Giovanni Paolo II”) e con l’apertura di nuove collane editoriali, dalla narrativa alle vite dei santi, dai Classici di spiritualità al teatro.
Da sempre interessato alle nuove forme di comunicazione, non mancava di intervenire sui Social e il 13 di ogni mese, il giorno del suo compleanno, dava appuntamento ai lettori della sua pagina Facebook per una “lezione di poesia”. Le sue ultime lezioni sono state dedicate a Pavese e Ungaretti.
Nel 2019 in Sintomi di un contesto (Mimesi) aveva raccolto le sue poesie giovanili, che si concludevano con questo “Congedo”: «Se me ne sono andato, me ne vado, / è perché non ho mai smesso / neppure per un momento di amarti».
Tra i suoi lavori più recenti, la curatela della nuova edizione del Fumo del tempio di Eugenio Corti (Ares 2022) e l’Invito alla lettura del volume Per Salvatore Quasimodo (Ares 2022).
Cesare Cavalleri aveva preso congedo dai suoi lettori con una toccante lettera a Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, cui sono seguite due lunghe interviste in cui aveva parlato della fede con cui stava vivendo la malattia, la prima con Antonio Gnoli per “Robinson” di Repubblica, la seconda con Francesco Ognibene, ancora per Avvenire.
Per Cavalleri Cammino, il più celebre testo di san Josemaría, fu un riferimento costante: “un libro veramente indispensabile… Esprime un’energia così forte che aiuta la conversazione con Dio, e quindi la conversione”.
E forse non c’è proprio miglior compendio della vita di Cavalleri che l’incipit di Cammino: “Che la tua vita non sia una vita sterile. – Sii utile. – Lascia traccia. – Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore…”.