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Politica culturale
Perché scrivere? Perché sedersi ogni giorno alla scrivania, scegliendo di trasformare pensieri e sentimenti in lettere morte mentre fuori la vita allettante strizza l’occhio? Winfried Georg Sebald, il tedesco emigrato in Inghilterra e lì morto all’età di 57 anni in un incidente stradale il 14 dicembre del 2001, questo “vizio sempre un po’ compensativo” l’ha definito un “particolare disturbo del comportamento”. E di questo lui stesso ha sofferto in forma cronica nelle sue prose più riuscite (su tutte Gli anelli di Saturno, Adelphi 2010), ma non ha potuto evitarlo neppure nella professione che gli dava il pane per vivere, l’insegnamento di Letteratura Tedesca Contemporanea all’università di Norwich.
Per ricordarne la poetica a 20 anni dall’improvvisa e prematura scomparsa abbiamo scelto due tra i tanti suoi testi apparsi in Italia (non tutta l’opera è stata tradotta), entrambi nelle eccellenti versioni di Ada Vigliani.
Partiamo dal minuscolo Moments musicaux (Adelphi 2013), i cui testi, pur nella loro diversità formale (un saggio/memoriale, appunti di un viaggio in Corsica, due poesie, un discorso per l’Accademia tedesca per la lingua e la poesia) contengono tutti i nuclei tematici dell’opera sebaldiana e ne rappresentano un’efficace sintesi. Nella scrittura del tedesco poche righe spesso possono bastare per concentrare un tempo storico fatto di anni di vissuto, così come in altri suoi libri interi, lunghi paragrafi sembrano non essere sufficienti per descrivere eventi concentrati in un fazzoletto di tempo.
Sebald è stato maestro nella coscienza viva del limite insito nello strumento della narrazione: la lingua tenta di ridare vita a storie, al passato, cerca di tracciare volti e figure presenti in qualche modo nella memoria, ma non può trascurare l’indicibile, quel punto di sospensione che fa dubitare della necessità e utilità stessa della parola.
Così nella prosa che dà il titolo al libro, dove ripercorre le proprie personali esperienze musicali (di apprendimento o di semplice ascolto), ricorda il maestro del coro della sua parrocchia quando, al termine della messa, tirava un registro “finché le onde acustiche prodotte dalle canne dell’organo minacciavano di far crollare l’edificio del mondo […] in un ultimo crescendo di accordi veniva raggiunto il climax”, il momento in cui il maestro del coro, “colto in quell’attimo da una strana e meccanica rigidità, smetteva di suonare per tendere ancora qualche istante l’orecchio, con un’espressione di felicità dipinta sul volto, al silenzio che adesso rifluiva nel tremolante spazio acustico”.
Tra le memorie d’infanzia di Sebald non possono mancare i ricordi legati alla guerra, al destino tragico dei soldati del Reich inviati alla conquista di Mosca. Lo spunto è offerto dal pot-pourri musicale offerto in quegli anni dalla Radio Bavarese, una programmazione, così la ripensa da adulto lo scrittore, “legata al preciso momento in cui i figli della patria venivano mandati all’Est”. Di quegli uomini, così come accade costantemente nella sua narrativa memoriale, Sebald cerca di ricostruire sogni, aspirazioni, paure: “Quando il 23 agosto, con la luce che già declinava, la 16a divisione corazzata raggiunse il Volga presso Rynok a nord di Stalingrado, sull’altra sponda si vedeva una distesa di campi e boschi verde scuro, che pareva davvero sterminata. Alcuni, lo sappiamo, fantasticavano di potersi stabilire lì dopo la guerra, altri forse già sapevano che da quelle lande remote non avrebbero più fatto ritorno”. Il passato è il tempo di chi non è più, dunque emerge qui il Sebald legato a una certa forma di “culto dei morti” (Camposanto è il volume in cui è stato pubblicato originariamente questo Moments musicaux) che non è legata al trascendente e piuttosto, lo dimostra la storia di ogni generazione, è tutt’uno con la vita dell’uomo: “Perché ci sono cose”, ha detto in un’intervista, “che non possiamo spiegarci facilmente, e perché il mantenere un qualche legame con chi ci ha preceduto ha fatto sempre parte della condizione umana. Il ricordarci dei morti ci distingue dagli animali”.
L’arte sebaldiana di elaborare la scrittura partendo dai ricordi (non solo dei morti, evidentemente), così pervicacemente coltivata, suggerisce un paragone con la machina memorialis medievale: allora la memoria non doveva essere considerata come un semplice strumento di stoccaggio d’informazioni (così spesso ce la figuriamo noi), piuttosto come magazzino contenente materiale utile ad alimentare la fabbrica del pensiero e la creatività. La vita, del resto, annota Sebald, è determinata da “rapporti invisibili”. Perché, si chiede nella prosa Un tentativo di restituzione, “quando passo per la stazione Feuersee mi viene ogni volta da pensare che sopra le nostre teste divampi ancora l’incendio e che la nostra vita, in continuità con il terrore degli ultimi anni di guerra, si svolga in una sorta di sottosuolo?”. Alla letteratura il compito di sostenere lo sguardo sebaldiano in preda a vertigini e tuttavia gettato nel tentativo di vagare “oltre il confine della morte”: “Vi sono molte forme si scrittura”, ha scritto il tedesco, “ma è solo in quella letteraria che si può procedere, al di là della registrazione dei fatti e al di là della scienza, a un tentativo di restituzione”.
L’altro tassello di grande spessore che qui vogliamo proporre è rappresentato da Gli emigrati (Adelphi 2007), quattro “prose”, come amava definirle lo scrittore tedesco, tese a narrare esperienze, stati d’animo e sofferenze di altrettanti personaggi legati per vari motivi alla storia ebraica al tempo della persecuzione nazista o al periodo immediatamente successivo al genocidio. E in ciò consiste il primo grande punto d’interesse di quest’opera sebaldiana: l’io narrante, come lo è del resto lo scrittore, è tedesco e non ebreo, dunque altro rispetto a coloro di cui si assume la responsabilità di tracciare le biografie. Il chirurgo Henry Selwin, il maestro Paul Bereyter, il prozio Ambros Adelwarth, il pittore Max Ferber (i nomi dei personaggi danno il titolo a ciascun racconto), e con loro una folla di figure che Sebald assume a sostegno della narrazione, sono accomunati, oltre che dall’identità ebraica, dall’esilio e dal destino di autodistruzione, epigoni dell’opera di sterminio subita dal popolo ebraico sul suolo europeo.
Un’opera che conferma il talento del tedesco quale narratore-archeologo che scommette sulle storie solo a patto di entrare a farne parte: al racconto delle vicende delle singole figure, ricostruite attraverso lunghi colloqui orali, recupero di diari, di album fotografici e di articoli di giornali, s’intreccia il resoconto di viaggi, pensieri, sogni del narratore stesso. Questo rende da un lato sufficientemente complessa la struttura narrativa e tuttavia ne rappresenta il punto di forza. In Sebald poche righe possono bastare per concentrare un tempo storico fatto di anni di vissuto, così come interi, lunghi paragrafi sembrano non essere sufficienti per descrivere eventi concentrati in un fazzoletto di tempo. Di grande significato l’elemento orale, fonte prima delle informazioni che lo scrittore raccoglie sulle singole figure, anche perché uno dei presupposti della narrazione orale è che vi sia un interlocutore, qualcuno che ascolti, che assuma, che faccia propria la storia: questo è l’io narrante, questo è Sebald. E grande era la sua facoltà di assumere il linguaggio parlato, trasformandolo con estrema precisione in Schriftsprache, in lingua scritta. Bene ha fatto in questo senso la Vigliani a mantenere i frequenti incisi in lingue straniere, in particolare inglese e francese.
Sebald si conferma maestro anche nella coscienza viva, vivissima nello scorrere dei racconti, del limite insito nello strumento della narrazione: la lingua tenta di ridare vita a storie, di dire il passato, di tracciare volti e figure presenti in qualche modo nella memoria, ma non può trascurare l’indicibile, quel punto di sospensione che fa dubitare della necessità e utilità stessa della parola. In questo la prosa di Sebald è esemplare: resoconti di situazioni particolarmente dolorose sono seguite da pause, descrizioni di gesti silenziosi, associazioni di idee che arrestano improvvisamente il ritmo incalzante della narrazione. Ciò che ne deriva è il crescente senso di attesa inappagata, in qualche modo rinviata. Attesa che sollecita il lettore a correre verso il compimento della narrazione, cosciente tuttavia che chi lo sta guidando non avrà la pretesa di consegnargli la perfetta riappropriazione della storia che è stata e che non è più. Dovrà accontentarsi, piuttosto, il lettore, di quelle associazioni, spesso inattese e sorprendenti, dolorose, spesso inspiegabili, ma assolutamente reali nel contesto della narrazione.
Personaggi che per sopravvivere alla rovina sono stati costretti alla dimenticanza delle proprie radici ebraiche si ritrovano così in questi racconti, attraverso la narrazione orale consegnata alla penna di Sebald, a sperimentare la pratica tutta ebraica del culto della memoria e la ricerca degli strumenti utili alla sua trasmissione. Lo scrittore si scopre così “erede elettivo”, testimone di quelle storie e insieme pienamente cosciente di che cosa significhi essere tedesco dopo Auschwitz, e la ricezione che ne deriva è tutt’altro che passiva. L’io narrante intreccia quelle memorie con il proprio desiderio di verificarne i luoghi, di integrarle con altra documentazione, facendosi anello che s’aggiunge ad anello. In questo contesto s’innesta anche la facoltà visionaria di Sebald, stupito lui per primo nel cogliersi così spesso seduto ad una finestra, apparentemente attento al paesaggio che da lì si dischiude, teso piuttosto a domandare l’imprevisto accadere di una rivelazione, un po’ come il personaggio kafkiano che, pieno di speranza, attende nella sera l’arrivo del messaggio dell’imperatore.
Sebald ha affrontato la vertigine di una forma che in quanto tale, in questa vita, non potrà essere che incompiuta. Ha avuto il coraggio di sfidare il carico della memoria, la sua apparente stoltezza. “Il ricordo”, così conclude la prosa dedicata al prozio Adelwarth, “ci rende la testa pesante, ci dà le vertigini, come se non si stesse guardando all’indietro attraverso le fughe del tempo, bensì giù verso la terra da grandi altitudini, da una di quelle torri che si perdono nel cielo”. Confessando in questo modo tutta la sua prossimità a Friedrich Hölderlin, Sebald non è mai riuscito a distrarre pienamente lo sguardo da quella vertigine, nell’opera come nella vita.
Vito Punzi