06 Maggio 2019

Femminicidio: sarà pure una brutta parola (in fondo, non è mai piaciuta a nessuno), ma racconta le asimmetrie del possesso e le forme degenerate dell’amore

Bella non è mai stata, la parola femminicidio, e in fondo non è mai piaciuta davvero a nessuno. Di certo non piace agli uomini, ma nemmeno a molte donne. Se alcune la brandiscono come un coltello per vergare sul petto dell’intero genere maschile la A di assassino, molte altre, femministe comprese, l’hanno spesso criticata in quanto, riducendo la donna a femmina, la oggettifica e la rende vittima designata.

Spesso però proprio quel che non piace a nessuno, una volta ripulito di tutte le storture ideologiche, rivela qualcosa di profondamente vero.

Siamo tutti d’accordo, è una brutta parola. Ha il suono artificiale di tutte quelle che non nascono dalla consuetudine, dall’uso quotidiano della lingua, ma vengono fabbricate artificialmente con un intento preciso. Persino chi la usa con convinzione spesso si sente in dovere di introdurla da un ‘non mi piace la parola, ma’, come fosse una bruttezza necessaria.

E dire che in principio fu un termine ironico: femicide comparve per la prima volta nel 1801, in un romanzo satirico dello scrittore irlandese John Corry, per indicare il comportamento di un uomo che induce una “vergine credulona” a concedersi a lui, perdendo l’illibatezza. Già questo potrebbe sembrare un sarcastico presagio: in origine il femminicidio era niente meno che la seduzione.

Ma al di là del vocabolo, è il concetto stesso ad essere sotto attacco: esiste l’uccisione di una donna in quanto tale, l’omicidio di genere?

I più feroci detrattori considerano il femminicidio un complotto contro gli uomini, un’invenzione nata per rendere il reato più grave quando la vittima è una donna, per colpevolizzare tutti gli uomini a priori e, come se non bastasse, ritengono evidente che alle donne gli uomini violenti sotto sotto piacciono, o non continuerebbero a cercarli e a perdonarli.

Dal punto di vista legislativo, in effetti, il femminicidio non esiste: il Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93, quello comunemente chiamato ‘legge sul femminicidio’, non solo non contiene questo termine, ma non parla nemmeno in modo specifico di violenza di genere. La ratio è che se c’è o c’è stato un legame sentimentale scatta una condanna più pesante nei confronti del colpevole, ma non vi sta mai scritto che se un uomo uccide la compagna riceverà una pena più severa rispetto al caso contrario: le condizioni sono le stesse per entrambi i sessi. Femminicidio non è quindi un termine giuridico, ma puramente mediatico.

Altra più sottile argomentazione infatti è che si tratterebbe appunto di propaganda mediatica antimaschile, atta a generare una guerra armata tra i sessi. Ma la guerra tra i sessi non è una novità, oggi è più esplicita, ma è da sempre epica e leggendaria più di quella tra titani e ciclopi, e si nutre tuttora dei lunghi secoli in cui è rimasta inespressa.

Alla luce di questo, parlare della rilevanza mediatica del femminicidio come fosse un complotto organizzato è quanto meno incongruo, poiché ci troviamo nel regno delle pulsioni molto più che in quello della razionalità.

Certo, le esagerazioni mediatiche ci sono, è innegabile. I numeri, è ormai assodato, non giustificano certi toni allarmistici. I cosiddetti femminicidi, pur essendo, e ciò è scontato, sempre troppi, non sono in aumento rispetto ai decenni passati, né sono più elevati in Italia a fronte degli altri paesi europei. Ma, al di là di questi aspetti condivisibili, è evidente che come dietro ad essi non c’è alcuna ideologia strutturata che miri all’eliminazione fisica delle donne, allo stesso modo non c’è alcun complotto organizzato dietro alla loro rilevanza mediatica, se non l’inevitabile interesse economico dei media nel proporre con insistenza un argomento di facile presa. E le ragioni di questa si trovano proprio nell’antica e a lungo sotterranea battaglia tra i sessi.

Se è fin troppo facile per le donne enumerare le violenze subite nella storia, dall’Inquisizione, agli stupri etnici, all’esclusione dallo studio e dalla vita politica, d’altra parte gli uomini replicheranno che su di loro grava da sempre il peso delle maggiori fatiche e dei più grandi pericoli, la morte in guerra e in miniera, il sacrificio eroico per difendere mogli e figli, che merito loro è il progresso scientifico che infine ha liberato anche le donne stesse. Le donne a loro volta risponderanno che quelle guerre per il potere erano volute solo dagli uomini e che a quel progresso non hanno potuto contribuire perché relegate all’accudimento familiare. Gli uomini quindi rinfacceranno alle donne di aver costruito proprio sui rapporti familiari altre forme di potere, togliendo i figli ai padri per vendetta, da Medea fino alle odierne aule di tribunale.

Sembra quasi incredibile che in questa feroce lotta quotidiana uomini e donne abbiamo trovato, e qualche volta trovino ancora, il tempo e la forza persino di amarsi.

Guardando invece all’oggi, almeno nel mondo occidentale, le donne hanno tutte le tutele legali, qualcuno dice persino troppe, e gli uomini capaci di uccidere sono di certo una sparuta minoranza. Eppure resta il fatto che le donne uccise dagli uomini sono ancora numericamente molte più del contrario, e ogni donna nell’intimo sa che anche l’uomo più civile e amorevole, se gli scatta dentro qualcosa, può farle del male. Certo, può avvenire anche a parti inverse, ma lei deve procurarsi un’arma, prenderlo di sorpresa. Lui, se vuole, può farlo con le mani nude. La maggior forza fisica maschile è un elemento banale quanto inalienabile, che né le leggi né le armi, o alcuna forma di controllo, potranno mai compensare, se non a prezzo di una riduzione inaccettabile di tutte le libertà personali.

Il raptus violento fa parte di quel rischio imponderabile che nemmeno la scienza potrà mai annullare e che accettiamo con sempre meno fatalismo, così come il crollo di un ponte o la caduta di un aereo o l’errore di un medico. Da questo desiderio frustrato di controllo viene la paura e insieme l’attrazione per certi temi, che di conseguenza i media cavalcano, perché sanno garantire un folto pubblico. Ma è un effetto, molto prima che una causa.

Riguardo all’attrazione naturale delle donne per l’uomo violento, si tratta di una tesi che suscita repulsione istintiva in ogni donna. Ma, consapevole del pantano melmoso che sono i sentimenti e le pulsioni umane, voglio cercare anche in questo un nucleo di verità.

A meno di patologie psichiche, quali il masochismo o una forte dipendenza affettiva, nessuna donna sana desidera un uomo violento. Può però accadere di ingannarsi, e che in un mondo di sentimenti deboli, di passioni annacquate, di amore placido e privo di eroismo, un uomo che non si arrende, un uomo ossessionato da te, un uomo che ad ogni costo non vuole perderti, appaia come un prode dei sentimenti, ti intrappoli in una sorta di lusinga vischiosa. È in quel passaggio tra amore e odio che alcune donne si giocano la vita senza saperlo, prima che si rompa l’argine della violenza e siano solo lividi e grida inascoltate.

La maggior forza fisica non è quindi l’unico elemento fondante, nell’omicidio della compagna. Ancor più insidiosa è la confusione tra amore e possesso, qualcosa di simile ai meccanismi dell’infanticidio da parte delle madri: l’incapacità di riconoscere l’esistenza di un altro essere umano come distinta dalla propria, qualcosa di ancestrale più che socialmente determinato. Oscar Wilde diceva che ognuno uccide ciò che ama. Forse sarebbe meglio dire che ognuno uccide ciò che percepisce inscindibile da sé, quando sente, a torto o a ragione, che potrebbe perderlo. L’uomo che uccide la donna che l’ha lasciato o che vuole lasciarlo, così come la donna che uccide il bambino che si sente inadeguata a crescere, non lo fa per liberarsene, ma nell’illusione malata di inglobarle l’altro in sé per sempre.

Non è quindi in generale un problema solo maschile, ma è innegabile che nel rapporto tra uomo e donna questa pulsione violenta, che nelle donne si rivela invece nei confronti dei figli, esista e sia asimmetrica. A questo fenomeno è stato dato il brutto nome di femminicidio. Possiamo trovare forse una parola migliore, più elegante, meno manipolabile, ma nessuno voglia convincerci che è un omicidio come un altro, che non merita, almeno a livello semantico, una distinzione, un proprio nome, e che non ha profondamente a che fare con l’essere maschi e femmine e con le forme più degenerate dell’amore e del possesso.

Viviana Viviani

*L’articolo da cui è scaturita la riflessione di Viviana Viviana lo potete leggere qui.

**In copertina: Giuseppe Vermiglio (1585 ca.-1635 ca.), “Giuditta ripone la testa di Oloferne nella bisaccia tenuta dall’ancella”

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