Dietro all’indagine, ovviamente, c’è l’immagine, l’immaginazione, la capacità di scoprire un cerbero nel giardino del vicino, la propensione a cacciare chimere con un retino per farfalle.
Di Nahabed Kuciag leggo, la prima volta, nell’enciclopedico “tesoro della lirica universale”, Orfeo, ideato “nell’immediato dopoguerra” da Vincenzo Errante ed Emilio Mariano, per Sansoni, con intenti poetici ed irenici. Si pensava che un’antologia della poesia di tutti i tempi e di tutti i paesi potesse ricomporre – almeno spiritualmente – ciò che la Seconda guerra aveva devastato. Beati tempi di imprese impossibili. Ad ogni modo. Di Nahabed Kuciag mi affascina l’epoca – un XVI secolo della mente –, il contesto – l’Armenia di allora –, l’alone di leggenda. Della vita di Nahabed Kuciag, in effetti, non si sa quasi nulla, “è ravvolta nell’ombra”; eppure lui “è il più famoso e il migliore poeta asciugh”. Dietro al poeta conquista la poetica. Chi sono gli asciugh? I trovatori armeni, i bardi d’Asia, consacrati alla poesia, che si tramandano la sapienza lirica in stretto lignaggio. Il poeta è mago, cerimoniere, sacerdote: la mente va a prati ampi, punteggiati di monasteri, cavalli, nubi in forma di drago, una vita più violenta, forse, ma più schietta. I poeti armeni, leggo nella didascalia,
“Intonavano i loro canti nelle occasioni più solenni (feste, nozze, funerali…). Nella loro poesia c’è schiettezza, sincerità e freschezza di immagini e di linguaggio. Vivendo fra la povera gente, gli asciugh non avevano bisogno di lodare eccessivamente i potenti (mentre Arabi e Persiani abusarono di poesia encomiastica). Nella loro lingua predomina l’elemento popolare (armeno volgare), mentre negli scrittori religiosi predomina l’elemento classico (armeno classico)”.
Nahabed Kuciag – tradotto, per Orfeo, da Emilio Mariano e Jusik Achrafian – eccelle nel cesello, nella poesia breve, che si sviluppa secondo uno schema canonizzato, gli hairens, in cui il poeta canta la “Grande Armenia”, ghermita dall’Impero Ottomano, ma soprattutto l’amore, in ogni suo aspetto, dall’ira alla nostalgia, dalla cattività alla cattiveria. La poesia d’amore di Nahabed Kuciag ha influenzato i grandi poeti persiani.
Nel 1960 Scheiwiller pubblica una breve silloge delle Poesie d’amore di Nahabed Kuciag, in edizione numerata, a cura di Glauco Viazzi (cioè Jusik Achrafian), già studioso del cinema sovietico e del Futurismo. Il libro – uscito in nuova edizione nel 1983 – è di difficile reperibilità anche nelle biblioteca italiane, ed esaspera il mistero definendo Nahabed Kuciag “poeta armeno del XVI secolo di cui si sa poco o nulla: v’è chi afferma che non sia neppure esistito”.
Nuovi studi e nuove traduzioni, in realtà, confermano l’esistenza di Nahabed Kuciag, accogliendo qualche dettaglio sulla sua vita: è vissuto nei pressi del lago di Van, si è sposato con una donna di nome Tangiatun, è morto nel 1592, sepolto nella chiesa di Kaharakonis, meta di pellegrinaggio. Nel 1916 il poeta russo Valerij Brjusov, già traduttore di Verlaine e di Edgar Allan Poe, sodale di Maksim Gor’kij, “pilota e maestro del simbolismo”, “avventuriero che aveva osato infrangere le sacre tradizioni della letteratura nazionale” (così Angelo Maria Ripellino), aveva installato Nahabed Kuciag in posizione principesca nell’antologia sulla poesia armeni, Poeziya Armenii, edita a Mosca. Nel mondo francese, il poeta svizzero di ascendenze armene Vahé Godel ha curato un’edizione di Cent poèmes d’amour et d’exil (La Différence, 1994), poi confluita in Tous les désirs de l’âme (Albin Michel, 2002).
La vera riscoperta di Nahabed Kuciag, traslitterato Nahapet Kuchak, accade comunque tra gli armeni americani: nel 1984 la poetessa e studiosa Diana Der Hovanessian pubblica un repertorio di testi di Kuciag come Come sit beside me and listen to Kouchag (Ashod Press). È stato lo scrittore William Saroyan, californiano di origini armene, tuttavia, a consegnare definitivamente al mondo Nahabed Kuciag. Un tempo molto noto e molto tradotto in Italia – da Elio Vittorini, tra gli altri – oggi Saroyan è conosciuto per lo più per La commedia umana (in catalogo Marcos y Marcos), per i baffoni fotogenici, per essere stato il maestro di Kurt Vonnegut. Tra l’altro, nel 1940, rifiutò di ritirare il Pulitzer che gli era stato assegnato per The Time of Your Life (nella sezione “Novel” trionfava Steinbeck con Furore).
Nahabed Kuciag era stato presentato a Saroyan dallo studioso Levon Mkrtchian, lo aveva letto nella traduzione di Ewald Osers. Lo scrittore armeno-americano fu entusiasta di quel poeta remoto: nell’introduzione al canzoniere di Nahabed Kuciag/Nahapet Kouchak, A Hundred and One Hayrens, uscito nel 1979, dal taglio ironico e narrativo, Saroyan racconta del suo primo viaggio “nell’Armenia sovietica, con i primi soldi che avevo guadagnato come scrittore, nel 1935. Ero nato in California, avevo 26 anni e il desiderio di vedere dove la mia gente aveva vissuto, appartata, per secoli”. Saroyan aveva pubblicato la raccolta di racconti The Daring Young Man on the Flying Trapeze, “che aveva avuto un grande successo sia nel mercato editoriale che nel mondo letterario ipocrita, ufficiale, se così vogliamo dire”. Voleva scoprire, lo scrittore, la schiera dei suoi padri: l’Occidente aveva Shakespeare, e lui a chi poteva riferirsi? Kuciag diventa, in qualche modo, l’emblema di un mondo poetico, di un popolo.
“Sentivo di dover visitare le mie terre. Come mai noi abbiamo una tale varietà di amanti come Kuciag? Siamo preti, predicatori, calzolai, barbieri, vignaioli, affaristi, chiacchieroni, imbroglioni. Attivisti a tutto tondo per il miglioramento e l’elevazione di sé… Volevo scoprire che cosa differenziasse la collettività armena dal resto del mondo. La risposta è semplice, e dà vita a una specie di follia. Gli armeni sono alfabetizzati. Tutto qui. Leggono e scrivono. Chi impara a leggere comincia subito a scrivere. Comincia con le lettere. Poi passa alle poesie. Centinaia di milioni di poesie vengono scritte ogni anno in Armenia. Kuciag non ha iniziato la tradizione: l’enormità del suo talento ha perfezionato il fenomeno. A molti poeti armeni non importa che i loro manoscritti vengano letti soltanto dai pochi membri della propria famiglia, che non verranno mai pubblicati. L’Armenia è una nazione di tre milioni di poeti. Tutto questo è terribile e magnifico”.
Naturalmente, da scrittore onnivoro qual era, Saroyan alimentò il mistero.
“Fui a Erevan, nell’ottobre del 1978: alcuni studiosi mi dissero che un mercante aveva acquistato qualche secolo prima un manoscritto di mirabili poesie d’amore. Poi vi aveva posto il suo nome. Nahabed Kuciag. Il manoscritto era anonimo, vale a dire che può essere opera non solo di uno, ma di due, tre, di una dozzina di poeti, lungo l’arco di molti tempi, formatosi in diversi luoghi. È l’opera di un popolo, ecco”.
Sembra l’ottimo finale di una storia – o un nuovo inizio, la serpentina bellezza di un bivio.
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Nahabed Kuciag, Poesie
Beato l’uomo che ha rapito la sua ragazza
ed è fuggito tra la folla a flutti.
Attraversarono il ponte: le acque turbinavano
divorando gli argini.
Cadde la neve tra raffiche di vento
e di loro presto furono perdute le tracce.
L’ha portata nel giardino che ha la forma
di un labirinto, per baciarla, tutto il giorno.
*
Quando eri mia
gli alberi erano in fiore.
Ora che non ci sei
è inverno e ogni cosa è oscura.
Torna da me
torniamo ad allora:
sarò il tuo sole
le nevi svaniranno!
*
Da dove vieni? Dove sei finita
tu, tra le rose la più bella?
Ti sei acquattata nella mia anima
e il mio riposo è scomparso.
Hai perso il sentiero nel mio cuore
hai evocato speranze e paure;
non puoi più scappare: mi hai disfatto il cranio
e ora fluttui tra le mie lacrime.
*
I tuoi occhi: mare blu, abissale;
le sopracciglia: nuvole nottambule.
Il viso arde come petali di rosa.
Ovunque tu vada è vana
la luce delle lanterne.
Il bagliore dei tuoi seni
fa risorgere i morti.
*
Sono un rapace:
stringimi se ne sei in grado.
Volerò via, mi unirò a qualche stormo.
Cercherai di attirarmi ancora,
costruirai voliere d’oro per me
per intrappolarmi in una prigione che non voglio.
Implorerai il mondo di perorare la tua causa
ma non saprai più riportarmi da te.
*
L’anima lascia il corpo:
mi siedo e mi lamento:
“Anima mia, se mi lasci
la mia vita si spegnerà!”.
L’anima risponde:
“Dov’è la tua saggezza?
Quando una casa sta crollando
perché il padrone dovrebbe restare?”.
*
Un terribile errore ho fatto:
la figlia di una vipera mi stringe il cuore.
Le ho consegnato il mio amore
e ora il suo veleno mi fa soffrire.
La madre della vipera ha udito il mio lamento
ma non può darmi alcun conforto.
Il mio pianto è blasfemo:
chi mai ha avuto amore da una vipera?
*
Il mio cuore si è rotto, si è svuotato,
per questo lo metto in vendita.
Vieni mio caro, fai la tua offerta;
lo puoi avere a buon prezzo, altrimenti
chiama un altro uomo, che compri
i miei tesori, senza conoscerne il valore –
Parla, contratta, incorpora anche la più piccola
cosa, così nessuno potrà più possedermi a questo mondo.
*
Davide, sommo profeta, ascolta il mio pregare:
tu sei saggio, saprai perdonarmi.
Amo una giovane ragazza
come amo la luce dei miei occhi.
Se una simile ragazza irrompesse
nella tua cella – che magnificenza –
la lasceresti entrare: le leggeresti
i salmi, di giorno, per giacere
con lei, la notte.
*
Il sole brillava nel cielo
gli uccelli cantavano melodie arcane
quando incontrai una donna
bellissima come mille lune sgargianti.
“Ti amo”, ho urlato –
ma lei ha ribattuto, arrabbiata:
“Se mi ami, che sia il tuo segreto.
Non devi mai sperperare
in un urlo il tuo amore”.
*
Sono ferma come una roccia,
dura come acciaio forgiato dal freddo,
alta come una nuvola
che nessun uomo può toccare.
Il mio uomo deve armare l’arco di pino,
indossare una giubba di pelle, essere audace
il degno discepolo
degli eroi di un tempo.
*
Ho chiesto a un saggio
perché Dio ha creato l’anima
per imprigionarla nella
gabbia del corpo.
“L’ha fatto per esaltare
lo stampo terreno,
l’ha deposta perché
se ne ingioiellasse”.