La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.
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L’avvento è linguistico. La storia del cristianesimo comincia con “il giorno della Pentecoste” che “volgeva al termine” (At 2, 1), con lo Spirito santo in forma di “lingue come di fuoco” che inonda i discepoli e che consente loro di “parlare in altre lingue”. Da quel giorno, Pentecoste è la nostra Pentecoste: la ricorrenza più importante, con Natale e Pasqua, del cristianesimo. Quel giorno, però, Pentecoste è una festa ebraica, Shavu’òt. Durante Shavu’òt, si ricorda la consegna della Torah – la Legge ebraica, la Bibbia, nello specifico il Pentateuco – da Dio a Israele sul Monte Sinai; è la festa in cui si raccoglie il grano: è maturo il tempo per la rivelazione. Per questo Gesù, secondo Giovanni, dice: “Ancora molte cose ho da dire a voi, ma non potete sopportarle. Ma quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà dentro tutta la verità”. La rivelazione definitiva è l’ingresso dello Spirito (“e furono riempiti tutti di Spirito santo”, At 2, 4) nel corpo del fedele. L’avvenimento, dunque, è linguistico. Ciò che accade in Atti degli Apostoli è l’opposto di Babele, è la sua redenzione. In Babele gli uomini perdono il linguaggio, dispersi tra mille idiomi: in Atti il linguaggio torna uno, indiviso, divino, “Erano poi a Gerusalemme… uomini devoti da ogni nazione… ciascuno li udiva parlare nella propria lingua” (At 2, 5-6). Dio, secondo Giovanni, è “Logos”, verbo, parola; Gesù è “parola che si fa carne”; lo Spirito – l’ispirazione – è il tramite della parola incarnata. Ma se Dio per realizzarsi è diventato uomo, carne che si squaglia, corrotta, mortale e morte, perché Paolo ai Galati dice che “la carne desidera contro lo Spirito, lo Spirito contro la carne” (Gal 5, 17)? Perché fa della carne il cuore di ogni schifezza (“prostituzione, impurità, dissolutezza, rissa, gelosia, ire, divisioni…”)? D’altronde, lo Spirito esiste se c’è un vaso di carne dentro cui spirare. Paolo disintegra la carne come ‘mondanità’: il cristianesimo è sempre una rivolta contro il mondo, contro la moda del mondo (Giovanni chiama lo Spirito santo Paracleto che non è semplicemente il “consolatore”, ma è, secondo la terminologia giuridica, l’avvocato difensore: da chi deve essere difeso il cristiano, con sfoggio di retorica – l’avvocato vuole confermare una verità – se non dal mondo, dal male del mondo, dal satana che dilania il mondo?). Anche in questo caso, però, il discorso è linguistico. Paolo spiega il “parlare in lingue” con dotta precisione – e desta paura – agli abitanti di Corinto (capitoli 12-14 della Prima lettera). Tramite la lingua – inquieta inchiesta prima che adorazione – si onora Dio, si entra in delirante dialogo con lui: Paolo non ha assistito alla “parola che si fa carne”, non ha conosciuto Gesù. Ha subito la tracotanza di una “chiamata” – ha sentito “una voce”. Più che altro, bisogna capire perché questo Spirito di linguaggio, “che dirà ciò che ha ascoltato e annuncerà a voi le cose che verranno” (Gv 16, 13), non si fa più sentire. Il linguaggio liturgicamente organizzato è necessario – non è il solo. Paolo, rompendo la carne, demonizzandola, rompe con la logica del mondo. Anche con la logica della comunicazione mondana. Con la grammatica del mondo: con il modo – lucido e fasullo – con cui la struttura di una frase – Soggetto Verbo Oggetto – mangia le cose, le significa in un solo modo, e l’uomo cannibalizza il creato. La rivoluzione cristiana è linguistica: la storia devota di Atti (che santifica e sancisce la missione dei discepoli in ogni angolo del globo ad annunciare l’Annuncio) ha profondità radicale e radiosi significati. Sono i poeti a propagare le “lingue di fuoco” della linguistica cristiana – fuoco che divora ogni logica e incenerisce ogni vocabolario, che infiamma. Il poeta, d’altronde, lo dice Rimbaud, è un “ladro di fuoco”. Quel linguaggio che violenta la retorica, che procede per allusioni e illuminazioni, che ha enigmi – il romanzo è per sua natura ‘mondano’, la poesia continui a rileggerla fiero di non avere capito mai abbastanza – e balzi e pugnalate, è l’emblema dello Spirito. Ma i poeti, oggi, chi li ascolta – sono altri a farci la predica dal pulpito. (d.b.)