02 Settembre 2019

“Chi si sente sapiente, s’annulli e si faccia demente”: sulla poesia di Giovanni Testori

Il ribaltamento, l’avversione, la conversione, l’inammissibile, è lì. Capitolo terzo della Prima lettera ai Corinzi. Versetti 18-19. “Nessuno si inganni: chi si crede sapiente in questo mondo, si faccia folle per diventare sapiente; sapienza del mondo è follia presso Dio”. Qui non c’è la garanzia aristocratica del mondo greco, riassunta nel perfettissimo apoftegma di Giorgio Colli, “la matrice della sapienza è la follia”. Qui c’è un precipizio, l’estasi di un disastro, acuti all’abisso. Poco prima, infatti, Paolo dice che “il fuoco proverà l’opera di ciascuno” (1 Cor 3, 13). E oltre, “Vediamo ora attraverso uno specchio, in modo confuso: allora, saremo faccia a faccia” (1 Cor 13, 12). Non c’è nulla da conquistare, qui – “diciamo della sapienza di Dio, un mistero, che permane nascosta” (1 Cor 2, 7) –, nessuna ‘risposta’: semmai c’è da incendiare.

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Così quel passaggio che suggella la follia dei seguaci di Cristo è tradotto da Giovanni Testori:

Non cedete
a seduzione.
Chi di voi
secondo le regole del mondo
si sente sapiente,
s’annulli
e si faccia demente.
Solo allora
si sentirà
veramente sciente.
La scienza di questo mondo
presso Dio
è totale insipienza.

Più che follia – che manda, è inevitabile, alla sapienza greca – Testori intende, coerente alla contraddizione, demenza. Entrare nel de-mente, nell’aldilà della mente, che mente, è mentitrice, per sfociare in Dio.

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“Leggo San Paolo da quando ero ragazzetto. È una delle colonne cui, nei momenti più duri, mi sono sempre disperatamente aggrappato. Anche nei momenti dell’ira e della bestemmia. Sono sempre andato a sbattere contro queste colonne. San Paolo, questo inesorabile convertito, questo inesorabile testimone e rammentatore, dopo Cristo, con Cristo, per me è l’inevitabile”, dice Testori a Fulvio Panzeri, su Avvenire, 16 giugno 1991. Inesorabile e inevitabile danno tensione al fatto che fu San Paolo. L’Apostolo che non conosce Gesù precede gli evangelisti per scatto e scavo, e organizza, con furia visionaria, la Chiesa – l’abiezione diviene elezione. “Da ultimo – come all’aborto – a me apparve. Infatti degli apostoli sono l’infimo, neppure degno dell’epiteto ‘apostolo’” (1 Cor 15, 8-9). Così Testori, in una specie di allucinata coincidenza:

Cristo
fu visto;
poi
da tutti gli invitati.
Finalmente anche da me,
l’aborto.
Io, infatti,
dei chiamati
l’infimo sono;
a quel nome,
anzi, inadeguato;
la Chiesa di Dio
ho io perseguitato.

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Ricordo che l’esperienza fu quasi gemella, specchio in enigma. Per studio, devo leggere San Paolo. Ma chi lo legge? Mi sorprende, dal lago letterario, il ‘genere’. Per dire Gesù nasce un nuovo genere, tra favola e cronaca, tra rivelazione proverbiale e storiella talmudica: il Vangelo. D’altro canto, la Chiesa si fonda tramite l’esercizio epistolare, la lettera, non il trattato, per intimità d’intenti. In un giorno, divorai le lettere: la forza di Paolo è fanatica, fagocitante, una foga che sarà replicata da Dostoevskij. Allo stesso modo, quando incrociai Testori, le Opere volume secondo stampate da Bompiani – dai Trionfi alla ‘Trilogia degli Scarrozzanti’ – mi chiudo in casa per due giorni. Una rivelazione pretende lingua nuova, raffinata al fuoco.

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La Traduzione della prima lettera ai Corinti fu pubblicata da Longanesi nel 1991, Testori è sulla soglia della malattia, della morte. Tra i rari esercizi di traduzione biblica, è un capolavoro, meglio degli sporadici linguismi di Salvatore Quasimodo e di Massimo Bontempelli; se si cita, con agio, il biblismo di Erri De Luca e di Guido Ceronetti, va riferito di Testori. Sgretolare in poesia San Paolo è una scelta scenica e formale formidabile, di uno che vuole essere, all’Apostolo, “talmente vicino da mescolarvisi – per quanto ciò possa sembrare ingiurioso”. Così precisa, Testori, a Carlo Bo: “Per me non si trattava di spiegare – e cosa poi se tutto in Paolo è di una chiarezza abbacinante – ma di trovare una struttura formale che, in qualche pallidissima e magari vigliacca maniera, restituisse quella dell’originale. Guardi: le lettere le ho prese, per dir così, da tutte le parti; le ho voltate e rivoltate; ma sempre, e tutto, restava al di qua; ma sempre, e tutto, cadeva anche in me nella spiegazione. Dopo anni e anni, quando ho dovuto farmi ricoverare per un intervento, ho deciso di portare tutto il necessario; esattamente il giorno prima dell’operazione mi è venuto l’attacco così come lo si legge… Ho tirato un respiro; forse questa volta – mi son detto – ho preso in mano il filo dalla parte giusta…”.

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I singolari sommovimenti lirici di Testori:

Ma Cristo è risuscitato,
Lui,
primula e viola
di chi si è addormentato.

In realtà sarebbe: “Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che si sono addormentati”. Primula e viola è roba sua, di chi depone Gesù tra i tormenti pestilenziali di Tiziano, tra i cruenti di Caravaggio e le Alpi di Tanzio. In una lunga recensione su “la Repubblica”, Testori e la lingua degli angeli, era il 14 luglio 1991, Pietro Citati va per rose mistiche, ma affronta il cuore poetico di Testori, “La poesia che egli predilige è indifesa, lacerata, sconvolta da grandi squarci: si sacrifica, e con sé stessa sacrifica la letteratura, per lasciar irrompere da quegli squarci la voce dell’altro mondo”. In sostanza, “Non ha simpatia per la traduzione della poesia italiana, da Petrarca a Montale”. Voglio dire che: a) la Traduzione è una anomalia lirica, che conclude il percorso poetico, autonomo, di Testori; b) il Testori poeta è sempre stato preso sottogamba, malauguratamente (vanno lette le Poesie scelte a cura di Fulvio Panzeri per Guanda e le Poesie edite da Mondadori, per cura di Davide Rondoni).

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Di questa ostilità Testori era ostinatamente consapevole. Riguardo a I Trionfi, il suo lavoro più ambizioso – edito da Feltrinelli nel 1965 – col senno di poi, nel 1982, disse: “Son piuttosto una catastrofe; sui quali generalissimo fu il silenzio. Non erano entro alcun registro. Fuori, erano, dagli imperanti re della poesia inNobelata, fuori, erano, dai sobillanti intrighi dei sessantatreisti (finiti dove?). Registravano troppo il cuore; e i suoi disperati movimenti…”. Pare che l’inNobelato Montale in persona avesse evitato che se ne parlasse, dei Trionfi, sul “Corriere della Sera”.

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“I versi gridati, sanguinanti, laceranti restano al di qua delle necessità di questa natura fuori dal comune e per la quale il metro della nostra letteratura appare del tutto inadeguato… Ma se noi dovessimo, alla fine, indicare quello che sembra l’elemento-chiave della sua fantasia, è proprio la tenerezza, questa forma segreta della sua crudeltà apparente”, scrive Carlo Bo a proposito dell’opera poetica di Testori. “Al libro, grazie a Dio, corrisponde un uomo”, specifica, perché il verbo non è forma che si esaurisce, ma bocca che rumina, che ti scassa. Fino all’ultima parola esatta, a far zitto il cosmo.

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Leggere Testori è insopportabile come leggere San Paolo, che inchioda alla croce. Un certo Testori è stato digerito, è diventato un digestivo, se ne può parlare – l’altro, questo, è ancora indigesto, non è neanche letteratura, sta nell’altro. (d.b.)

***

Se Cristo non è risorto,
la nostra fede è vanità,
vanità
ciò che predichiamo.
Saremmo, ecco,
testimoni di falsità…
Solo quando ogni cosa
sarà stata così deposta
il Figlio
a Colui che tutto
gli sottomise
si sottometterà.
Questo
affinché Dio
tutto sia,
tutto e in tutto.
Se così non fosse,
cosa farebbero
quelli che pei morti
si sono battezzati?
Se davvero i morti non risorgeranno,
perché farsi per loro
così segnare?
E poi,
perché ai pericoli
ogni istante sottostare?
Ogni giorno finisce,
muore.
Com’è vero
che voi siete voi,
il mio vanto è Cristo Gesù.

Giovanni Testori

 

 

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