08 Gennaio 2019

“Era un artista intransigente, tutto il contrario dello scrittore impegnato come Sartre”: dialogo con Rita, la moglie di Witold Gombrowicz

Spossato. Questo è il carisma di Witold Gombrowicz. “Per tutto il mio viaggio in Europa mi sono sentito fisicamente spossato”, scrive nel Diario, l’autobiografia di un asceta del grottesco e dell’orrido. Siamo nel 1964, Gombrowicz ha interrotto l’esilio argentino, ha scritto i libri decisivi – Cosmo sarà pubblico l’anno dopo – ed è spossato, in esilio dagli altri, da sé. In Argentina gli era insopportabile Borges (“patetico eremita cieco”), a Berlino il blabla con Peter Weiss e Uwe Johnson (“era il Nord fatto persona. Un nordico talmente nordico che… non sono mai riuscito a cavarne niente”) è dialogo tra muti, letteralmente, letterariamente, non li capisce; a Parigi è tentato da Sartre, gli garba Jean Genet (“il nostro lestofante ha fiuto”), ma gli vengono a noia; quanto a Le Clézio – futuro Nobel per la letteratura – ne apprezza il ceffo da divo (“bellissimo, e soprattutto fotogenico”) e nient’altro. Insomma, Witold è un uomo solo, coltiva la spossatezza come disciplina. Finché. Maggio 1964. “Mi stabilii a Royaumont, a trenta chilometri da Parigi. Un’abbazia del tredicesimo secolo dove san Luigi serviva i monaci e da dove, per un certo tempo, è stata governata la Francia”. Lo schema spirituale è lo stesso – “io bastian contrario, io spettrale, io divertito, io torturato, io vivo, io morente” – con una variante. Lei. Rita Labrosse, 29 anni, canadese, impegnata in una tesi di dottorato su Colette, di sfibrante bellezza, enigmatica. Lui ha trent’anni più di lei, le chiede di cambiare progetto di tesi – “la faccia su di me” – se la porta a Vence. Witold e Rita si sposano il 28 dicembre di cinquant’anni fa (poco prima lei ha discusso la fatidica tesi su Colette); lo scrittore muore una manciata di mesi dopo. Una unione micidiale, condivisione di labirinti, preludio di deserti: Arianna che ha aggiogato il Minotauro. Una pagina del primo dell’anno 1967, dal Diario, è emblematica. “Io e Rita siamo entrati nel 1967. Noi due soli, senza champagne, contemplando dalla finestra il silenzio e il vuoto… La luna splendeva così forte, che si vedeva lo specchio di mare dall’altra parte del Cap d’Antibes”. Entità autonome, incapsulate, m’immagino. Nelle fotografie, Witold ha sempre la faccia truce – è atrocemente spaesato, spossato, sposato – lei sembra il frutto maturo della sua immaginazione, la sua anima in forma di donna, dalla melma alla malia. Per il resto della vita, Rita si destina a studiare e a divulgare l’opera di Witold. Amore, in questo caso, è parola vacua: bisogna dire dedizione, feroce dedizione.

GombrowiczLeggo in una pagina del Diario: “Ieri Rita e io siamo entrati nel 1967. Noi due soli, senza champagne, contemplando dalla finestra il silenzio e il vuoto”. Le chiedo: come ha conosciuto Gombrowicz, da cosa è stata attratta?

Ho incontrato Gombrowicz nel maggio del 1964 a Royaumont, vicino Parigi. Royaumont era un centro culturale all’interno di una bella abbazia del XII secolo. Studenti e artisti potevano trascorrervi lunghi soggiorni nelle antiche stanze rinnovate dai monaci. Intellettuali più o meno celebri venivano a passarci i fine settimana. Vi si tenevano degli incontri: uno su Nietzsche accadde nei giorni della nostra permanenza. Era un luogo vivo e molto alla moda. Io sono canadese-francese ed ero venuta in Francia per fare un dottorato in Lettere. Ero a Royaumont per terminare la mia tesi su Colette. Gombrowicz arrivava da un anno a Berlino Ovest. Era uno scrittore polacco esiliato che aveva passato più di 23 anni in Argentina. Parigi aveva appena scoperto il suo teatro con la pièce Le mariage, che aveva fatto scandalo. Aveva 59 anni, io 29. Dopo tre mesi di soggiorno Witold mi ha chiesto di partire con lui per Barcellona. Ho risposto che non potevo a causa della mia tesi. Lui mi ha detto: «Cambi il soggetto della tesi, la faccia su di me. Gliela scriverò, non importa dove, in 15 giorni!». Questo non è stato possibile. Abbiamo deciso di trasferirci nel Sud della Francia, a Vence, nelle colline vicino a Nizza, dove c’era una nuova università. Vence era conosciuta soprattutto per il suo clima eccellente per gli asmatici. Vi abbiamo vissuto cinque anni, fino alla sua morte. Ho discusso la mia tesi durante il Maggio ’68, tra il sarcasmo di Witold. E, a distanza di 50 anni, faccio ancora una tesi piuttosto strana su Gombrowicz. Sono in qualche modo una studentessa a vita che passa senza sosta degli esami.

Che significato dava Witold alla parola ‘amore’?

Gombrowicz ha scritto in Testamento che era incapace di amare, che l’amore gli era stato negato una volta per tutte. Quello è un bilancio scritto alla fine della sua vita. Non so quanto si dispiacesse di essere stato privato di un amore e di una felicità “normali”. Gombrowicz è stato un profeta, estremamente lucido, incapace di perdere il controllo. Dunque, come poteva “cadere” nell’amore? Gombrowicz era uno specialista della giovinezza, un “manager dell’immaturità”, come lo aveva definito il suo amico scrittore Bruno Schulz. In quel momento della mia vita, ha appagato la giovane donna immatura che ero. Io no, non cercavo la “normale” felicità familiare. Volevo crescere, imparare, conoscere nuovi mondi.

Nella stessa pagina del Diario Gombrowicz si descrive, delineando la vita di tutti i giorni, “un santo… e un asceta”. Come viveva Gombrowicz? Mi descriva il suo atteggiamento nella vita quotidiana attraverso un dettaglio.

Witold era un essere quasi sempre sofferente, ma resisteva e non si lamentava mai. Sapeva che cosa significasse ritrovarsi solo alla fine del mondo, con due valigie, senza denaro, senza parlare la lingua del posto. Questa è l’idea che ho di Giobbe. Ha conosciuto la miseria durante la guerra, ha rifiutato di tornare in una Polonia diventata comunista e stalinista. Ha preferito vivere modestamente a Buenos Aires. Era un artista intransigente che non ha mai tradito le esigenze della sua arte. Ha preferito restare povero, sconosciuto, senza appoggio, libero e indipendente. Lui solo sa il prezzo che ha pagato. Questo prezzo è grande, dal momento che si sentiva un santo e un asceta. Detto ciò, non si deve immaginare un Gombrowicz triste e scorbutico. Era di umore stabile, conduceva una vita regolare. Aveva senso dell’umorismo e del ridicolo. Diceva che bisognava accontentarsi dei piccoli piaceri della vita. Quando avevamo una piccola Citroên due cavalli, facevamo ogni giorno una passeggiata a Vence come Mr Pickwick a Londra. Pickwick faceva parte della nostra vita come un personaggio reale. Ci si divertiva davvero con Gombrowicz.

GombrowiczChe importanza ha avuto la lunga parentesi argentina per Gombrowicz? Risalta in modo feroce la ribellione di Gombrowicz a Borges e a ciò che rappresenta Borges per la storia della letteratura. 

L’Argentina è stata più di una lunga parentesi. È stata una parte importante della sua vita, vissuta come una liberazione. In Polonia, durante la sua giovinezza, Gombrowicz viveva un esilio dell’interiorità. In Argentina, era davvero in esilio, ma libero di diventare pienamente se stesso senza lo sguardo e il giudizio della famiglia e della società. L’Argentina, paese della giovinezza e dell’immaturità, era inscritta nel suo destino. È stato durante questo soggiorno di 23 anni e 226 giorni, come annotato in Kronos, che ha scritto la maggior parte delle sue opere. Senza l’Argentina non avrebbe senza dubbio scritto il Diario, la sua opera principale che sempre più viene tradotta nel mondo. Gombrowicz riconosceva il valore di Borges ma era il suo opposto. Borges faceva parte dell’intellighenzia che gravitava attorno alla rivista Sur, diretta da Victoria Ocampo. Era l’establishment argentino sottomesso a quello di Parigi. Dopo la traduzione di Ferdydurke, scritto prima della guerra e tradotto nel 1947 da un gruppo di amici al Caffè Rex di Buenos Aires, in condizioni stravaganti, il gruppo della rivista Sur l’ha completamente ignorato. Gombrowicz era un outsider che frequentava i giovani e gli sconosciuti.

Come scriveva Gombrowicz, da cosa si lasciava stupire, che atteggiamento aveva verso la vita: di ribellione o di compassione?

Parlo del Gombrowicz che ho conosciuto a Vence negli ultimi cinque anni della sua vita. Scriveva, mi diceva, «come uno scolaro fa i suoi compiti». Un giorno aveva lasciato la porta della sua camera aperta, sono entrata nell’appartamento in punta di piedi, per non fare rumore. Mi ha detto, «cammina normalmente, questa non è una chiesa». Non aveva una concezione romantica dello scrittore e detestava il pathos. Semplicemente, si sedeva al suo tavolo e scriveva a mano con la stilografica Parker, il suo unico lusso. Era un regalo degli amici argentini per le lezioni di filosofia che aveva tenuto. Scriveva più versioni finché non era soddisfatto. Quindi batteva lui stesso il testo definitivo sulla sua macchina da scrivere Remington. Gombrowicz frequentava i caffè per chiacchierare o per giocare a scacchi, mai per scrivere le sue opere, né in Polonia, prima della guerra, né in Argentina né a Vence. Scriveva nella sua piccola camera a Buenos Aires. O al Banco Polaco, dove lavorava. Ma il suo capo glielo ha vietato perché demoralizzava i colleghi.

“Lasciamo l’artista solo con la sua opera… l’arte è un’impresa delicata, ha bisogno della penombra”, dice Gombrowicz a Dominique de Roux. Che idea ha Gombrowicz dell’arte e dei rapporti tra arte e politica?

Gombrowicz si definiva “artista” e non scrittore perché diceva che chiunque può essere scrittore mentre per essere un artista bisogna avere la personalità, cioè fare un lavoro costante su se stessi. Un artista non può che essere impegnato nella sua arte, che è scegliere il meglio. L’arte non deve essere sottomessa a niente e a nessuno se non all’arte stessa. Gombrowicz è il contrario di uno scrittore impegnato come Sartre, che è al servizio della politica. L’artista secondo Gombrowicz è un purosangue feroce e indomabile.

L’anno prossimo scoccano i 50 anni dalla morte di Gombrowicz: che cosa ancora, a suo avviso, dobbiamo scoprire e ri-scoprire del grande scrittore?

Gombrowicz è stato un precursore. Si è avvinghiato a terre vergini della cultura come l’immaturità e le questioni della forma. Solo ora è davvero nostro contemporaneo. La sua opera è diventata più attuale che mai. Per convincersene, bisogna semplicemente leggerla o rileggerla con uno sguardo nuovo, non contaminato da mode o pregiudizi.

Alla fine del Testamento, Gombrowicz esprime la necessità di “ritornare ai primordi”, di “ribellarmi”, di “rifugiarmi nel folto della mia Immaturità iniziale”. Sembra quasi che sia in atto, sempre, la lotta dello scrittore contro se stesso, lo scrittore, in fondo, deve sconfiggere l’immagine che gli altri si fanno di lui: è così? Mi aiuti a capire. 

Io interpreto le cose in questo modo. Gombrowicz fa il bilancio della sua vita, ha 63 anni quando scrive le conversazioni con Dominique de Roux (intitolate Testamento dopo la morte improvvisa di Dominique nel 1977). Egli constata che è riuscito a superare a poco a poco la sua immaturità, i suoi complessi, realizzando un’opera in cui il tema è proprio l’immaturità e la forma. È diventato il Gombrowicz premiato con il Prix International des Editeurs, candidato al Nobel e il cui teatro è rappresentato sui migliori palcoscenici d’Europa. Ecco la sua “forma” cristallizzata al massimo. Però, la forma ­– o meglio, il suo modo di essere, di esteriorizzarsi ­– si crea tra gli uomini, tra l’«interumano». Di conseguenza, la forma per Gombrowicz non è mai cristallizzata, ma sempre in divenire. È l’evoluzione permanente.

Davide Brullo

*Le opere di Witold Gombrowicz – “Kronos”, “Cosmo”, “Pornografia” – sono pubblicate da Il Saggiatore; il “Diario” è edito da Feltrinelli. L’intervista a Rita Gombrowicz è resa possibile grazie alla mediazione di Letizia Di Girolamo

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