02 Maggio 2019

Considerazioni intorno alla parola “Femminicidio”. Da quando esiste, ogni uomo è un potenziale maniaco e tra maschi e femmine è in atto una guerra colossale, biblica. Tutta propaganda

Non vi è dubbio, anche le parole invecchiano, il tempo le deteriora, le sfianca. Quella parola che un tempo avrebbe acceso fuochi, provocato esplosioni e avrebbe aizzato uomini in battaglia, ora a stento produrrebbe un rutto o un borborigmo.

Qualcosa di simile, per esempio, è accaduto alla parola anima che una volta traduceva la greca psyché. Al suo risuonare nell’aria era tutto un fissare attonito di sguardi, un sordo sfrigolare di intimità, un metafisico farneticare. Ma poi la parola fu dispersa definitivamente in quel territorio ostile e inospitale che è l’inconscio e, tra le tante, divenne psicoanalisi.

Alcune parole hanno più fortuna di altre, è vero. Si attaccano al palato e si lasciano accarezzare dalla lingua, poi, quando è il momento, schizzano oltre la barriera dei denti e scuotono le labbra. Il loro suono riempie l’aria circostante e un nonsoché di miracoloso si compie.

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Nei nostri tempi bui a tenere banco e a compiere miracoli è la parola femminicidio. Non vi è discussione che riguardi la donna e la sua condizione sociale in cui essa non faccia capolino almeno una volta. Cosicché, quando ciò accade, il dissenso si spegne, le cosiddette coscienze critiche improvvisamente tacciono, il miracolo si compie e un nuovo lessico si impone. Tutta la concione, insomma, non fa che riproporre ossessivamente quel dibattito a ciclo continuo che ruota intorno a un solo tema: la violenza sulle donne, chiamata anche violenza di genere o, peggio ancora, femminicidio.

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È vero, nessuna levità attraversa i discorsi che riguardano le donne, né quelli al bar con gli amici né gli interminabili sproloqui nei nostrani salotti televisivi. Dei rotocalchi, poi, com’è risaputo, le specialità sono il pettegolezzo, l’illazione e le basse insinuazioni. La donna, insomma, genera parola, dibattito, narrazione. Tuttavia – sia detto senza provocazione o dispregio – la sonnolenza che accompagna certe discussioni che del femminicidio fanno il tema centrale è seconda soltanto a quella che sopraggiunge dopo il coito (sempre che a sua volta non sia preceduta da quella tristezza che già gli antichi avevano osservato anche negli animali: post coitum omne animale triste est).

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Non occorre ostentare cinismo per rifiutarsi di partecipare all’agape della stupidità ed evitare di abboccare all’amo dei pregiudizi. Anzi, cum grano salis chiunque riuscirebbe a capire che l’archetipa distinzione di genere maschio-femmina non si traduce affatto nella perversa idea che il primo viva con l’unico scopo di sopraffare la seconda. Tuttavia il messaggio che il termine femminicidio veicola e che fa di ogni maschio l’aguzzino di una donna inerme e impotente farebbe sorridere se non fosse allo stesso tempo preoccupante e pericoloso. È proprio questo il punto. Con il suo sovrabbondante uso il termine femminicidio ha instaurato il delitto di genere, cosicché un efferato crimine adesso ha la sua consacrazione in una voce da dizionario e ogni donna quello nel martirologio delle vittime. Ma poi, mi domando: cosa se ne fa la nostra lingua di una così rozza cacofonia, di un termine che, oltre a essere osceno, semina zizzania? (Aveva ragione lei, Herr Wittgenstein, i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo).

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È necessario ripeterlo? I fatti sono sotto gli occhi di tutti: gli oltraggi alle donne avvengono quasi sempre in quella avvelenata riserva di sentimenti malati e repressi che per lo più è la famiglia. In questo luogo astratto, concettuale e pre-metafisico che nessuno sa bene cosa sia (quando lo si chiede a qualcuno, infatti, si ricevono risposte che assomigliano a quello che sant’Agostino nelle Confessioni scriveva a proposito del tempo: “Se nessuno me ne chiede, lo so bene; ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so”), il risentimento e l’odio hanno sbocchi facili, occasioni a bizzeffe. Dopotutto è là, nella famiglia, che si costruiscono le guerre e, per svariati motivi, il più prepotente prevarica sull’altro. (Non erano famiglie anche quelle dei Borgia, di Agamennone e di Amleto?).

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La questione è nota: spesso la gelosia acceca, una separazione deprime, l’alcol instupidisce, i figli frenano le ambizioni individuali, i debiti umiliano, e nelle liti familiari dalle parole esasperate si passa presto alle vie di fatto. Per molto meno Pozdnyšev ammazzò la moglie ne La Sonata a Kreutzer di Tolstoj. Il femminicidio si consuma in famiglia, sì, là dove il vecchio adagio voleva si lavassero i panni sporchi. In quella cupa trincea, l’esecrabile delitto aveva la riconoscibilità di un segno e la fosca dignità di un nome proprio, si chiamava uxoricidio. Ma è stato detto, certe parole non hanno fortuna. Eppure l’uxoricidio diceva già tutto di sé e non faceva distinzione di genere. Anzi, era uxoricida il marito che pugnalava la moglie, e lo era la moglie che avvelenava la minestra del marito. Anche nel male, insomma, vi era parità e uguaglianza.

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La questione è delicata, me ne rendo conto. Lo intuì persino Hegel quando argomentava sull’essenza umana di un assassino: “Può ben esserci della gente che, quando udrà tali cose, dirà: costui vuole scusare quell’assassino” (G. W. F. Hegel, Chi pensa astrattamente?). Perciò è bene che io chiarisca il punto. L’uxoricida – lungi da me intonargli un peana o giustificarne gli atti – non disprezza le donne se non nella misura in cui la sua, e soltanto la sua, le rappresenta tutte. (E con ciò aggiungo anche che se un tale vigliacco allunga le mani sulla sua donna non per questo tutti gli uomini sono violenti e fanno lo stesso). L’odio, la gelosia, il rancore che prova per lei è circoscritto alla sola universalità del suo corpo. Per tale motivo nessuno di questi rozzi criminali ripete o compie più volte lo stesso delitto. Vi è singolarità e non serialità nel loro scellerato atto. A memoria d’uomo non credo si ricordi un uxoricida a piede libero che abbia minacciato la serenità o l’integrità fisica di una donna che con lui non abbia avuto un’affinità parentale o una relazione di tipo sentimentale. Instaurando il femminicidio, invece, ogni donna è tenuta a sentirsi minacciata, tutte esposte alle angherie violente degli uomini. Per contro, ogni uomo è un potenziale maniaco, un violento prevaricatore, un aguzzino, un vessatore di professione. Una colossale guerra di tutti gli uomini contro tutte le donne, uno sterminio biblico, insomma. In un’altra epoca tutto questo avrebbe avuto il nome ignobile di propaganda. Ma quell’epoca triste è tramontata e la parola propaganda, anch’essa come altre, ha esaurito destino, resistenza e fortuna.

Vincenzo Liguori

*In copertina: Artemisia Gentileschi, “Giuditta che decapita Oloferne”, 1612-13

 

 

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