29 Settembre 2023

“Molti portenti, le porte dell’orrore”. Su William Everson, il poeta sciamano

William Everson è il Giona della “religione americana”, il suo fuggiasco profeta. Cosa vuol dire? Che William Everson, leggendario per qualità eversiva, è un poeta che poteva nascere soltanto negli Stati Uniti, autentico discepolo della “religione americana”. Da noi no: Cristo entra appena con un piede nella tinozza dei poeti italiani, troppo scaltri per inabissarsi in Dio.

Teorizzata – in forme naturalmente contraddittorie – da Harold Bloom, la “religione americana”, che ha il suo Mosè in Ralph Waldo Emerson, è un coacervo di puritanesimo e di trascendentalismo, di rigore e di entusiasmo, di fanatismo e di libertinaggio teologico. Nei suoi punti estremi, la “religione americana” tiene insieme gli Amish, che rifiutano la televisione e – almeno in parte – l’elettricità, e i predicatori ‘da stadio’, gli one-man-show di Dio; i settari ispirati e i venditori porta-a-porta del Paradiso. Nei suoi più genuini aspetti, la poesia, a dire di Bloom, è quintessenziale nella “religione americana”: i poeti, in qualche modo, sono i tedofori della Rivelazione, annuncio in continuo divenire. Il discorso, più che in tanti libri specifici di Bloom – La religione americana, appunto, ma anche Rovinare le sacre verità, Visioni profetiche, Il libro di J – si fa chiaro in un volume del 2006, American Religiuos Pomes, in cui Bloom raccoglie, senza discontinuità, testi di predicatori itineranti, poesie di Emerson e di Emily Dickinson, di Melville e di Whitman, i canti dei pentecostali e alcuni poemetti di T.S. Eliot, di Allen Tate e di Hart Crane, gli spirituals e Wallace Stevens, Robert Frost e, appunto, William Everson. Il libro, in sostanza, dimostra: a) che la religiosità (tenue, apocalittica, direttamente biblica) pervade il mondo letterario americano; b) che per Bloom la “religione americana” è la poesia, o meglio, che la poesia americana è cosa sacra.

La questione apre spiragli che non c’interessa approfondire, adesso. Importa che in questa tensione poetico-profetica si sviluppa l’opera – originale, dissennata, autarchica – di William Everson. Nato a Sacramento, California, nel settembre del 1912, cresciuto in campagna da genitori tipografi, Everson professa, come tutti gli adolescenti, il proprio agnosticismo. Si sposa – con Edwa, compagna di college a Fresno –, si separa, si dice pacifista, entra in contatto con l’orbita Beat. Scrive poesie. Il suo mito – a cui dedica diversi studi critici e di cui curerà l’opera lirica – è Robinson Jeffers, austero solitario della poesia americana, mitografo e mitomane, che a Carmel, sulla costa californiana, aveva costruito la propria casa, in pietra, “Tor House”. In Robinson Jeffers, Everson vede il suo Messia: “leggerlo fu la mia conversione intellettuale… Jeffers mi ha mostrato il dio della poesia”.

Il mentore di William Everson, comunque, è Kenneth Rexroth, che introduce una sua raccolta poetica – The Residual Years, pubblicata nel 1948 dalla New Directions – scagliandola in faccia alla patrizia cricca critica americana, sorda al genio: “Questo tipo di poesia è un oltraggio ai circoli accademici che ritengono le imitazioni evirate e luccicanti di John Donne ancora chic; altri, che attendevano da tempo una poesia davvero moderna, che non si occupasse più di schiarirsi la gola e di balbettare ovvietà, si rallegreranno”. (Ogni critica a W.H. Auden e al “circolo Eliot” è velatamente voluta).

Alla conversione poetica, per così dire, seguì quella del cuore. William Everson, nel frattempo, si era messo con la poetessa italoamericana Mary Fabilli: è lei a inoltrarlo ai misteri della religione cattolica. I due si sposano nel 1948, per mollarsi poco dopo. La vigilia di Natale di quell’anno, infatti, Everson ha una potente esperienza religiosa: la sequela che ne segue lo porta al battesimo. Non basta. Nel 1951, come donatus – o terziario – entra nell’Ordine dei domenicani, a Oakland. Si fa chiamare “Brother Antoninus”, negli anni diventa noto come “Frate Beat”. La vita monastica distoglie Everson dalla loquela poetica: non pubblicherà per un decennio. Affina le arti tipografiche, piuttosto, realizzando, in quarantotto copie, un’edizione stampata al torchio del Novum Psalterium PII XII. L’opera – l’edizione in folio del salterio Vaticano del 1945 – resterà incompleta: il poeta vi lavora per tre anni, licenziandola nel 1954; tempo fa una copia è stata battuta da Christie’s per ottomila dollari.

Ritornato alla poesia – anche grazie al rapporto con Victor White, domenicano, collaboratore di Carl Gustav Jung – William Everson traduce in versi il Verbo: la sua poesia ‘religiosa’, tuttavia, è screziata, poco docile all’inno, sostituisce i deserti del Mojave a quelli palestinesi, il coyote all’agnello, il creosoto all’ulivo. Ogni cosa è sull’orlo-urlo di una rivelazione esplosiva. “Brother Antoninos” restò tra i domenicani fino al 7 dicembre del 1969, quando rimuove da sé gli abiti sacri per unirsi a Susanna Rickson. L’urgenza erotica è un altro aspetto della poesia di Everson: leggendo River-Root (1976) i critici hanno parlato di una sorta di Cantico dei Cantici americano. Man-Fate: The Swan Song of Brother Antoninus, stampata da New Directions nel 1974, è invece la raccolta che ha dato fama a William Everson.

Si addobbava con cappelli a tesa larga, collane costruite inanellando artigli di grizzly, gilet in pelle; l’oceanica barba contribuiva a diffondere il mito del ‘poeta sciamano’. Faceva il lettore alla University of California, dove aveva impiantato il torchio: con la Lime Kiln Press stampò i poeti che gli piacevano, Robinson Jeffers, Walt Whitman, se stesso. Le edizioni sono di magniloquente bellezza.

Nel 1972 gli diagnosticarono il Parkinson; in verità, la critica americana non aveva mai del tutto digerito quel poeta così potentemente americano, cattolico & sciamano assieme. Morì nel 1994, è sepolto nel Dominican Cemetery di Benicia, California. “William Everson rappresenta con vivida potenza una delle grandi tradizioni della poesia californiana: il visionario profeta. La sua visione del mondo era più religiosa, il suo temperamento più mistico, la sua voce più intima del suo modello spirituale e artistico, Robinson Jeffers: eppure, i due appartengono allo stesso lignaggio lirico”, ha scritto Dana Gioia.

“Insieme a John Muir, Jack London, Robinson Jeffers, Kenneth Rexroth e John Steinbeck, è uno degli autori insostituibili di questo lato di America. Non è possibile comprendere l’immaginario letterario di questa costa degli Stati Uniti senza leggere il suo lavoro”.

Negli ultimi anni, preferì privarsi di ogni incontro. Viveva in una capanna che si era fatto da sé. Pubblicava per la Black Sparrow Press, la stessa che editava Charles Bukowski e John Fante. Morì mentre stava lavorando al suo ultimo libro, Dust Shall Be the Serpent’s Food. Un titolo interessante. L’ossessione per la cenere e per il serpente. Ogni poeta dovrebbe indagare la prossimità di quei termini, rimembrare la cenere, avvitarsi come una serpe; darsi in pasto.

***

Solstizio dell’oscurità. Zero assoluto
dell’anno. Lodate Dio
che viene continuamente per noi,
per le nostre vite chiuse a pugno,
stritolato dal gelo, tratto
dalla contrizione del cuore; le nostre facce
gettate come cemento sui muri
mani pari a tenaglie – lodate Dio
il Cristo, fenice immortale,
che rinasce dalle ceneri del solstizio
ruota il suo raggio equatoriale
presso la nostra nuvola, stigmatizza
la nostra rovinosa fronte con il blasone
dei chiamati, brucia le nostre lacrime.
Vieni Cristo, gentile pettirosso che tremi
nella gola. Vieni, dolcissimo Bimbo! Purifica
la nostra chiesa, risveglia con gli inni
le nostre nude travi. Sempiterna
fenice, giunto da una Vergine
infiammi il buio:
sei nato, sei nato!

*

La marcia nel deserto

L’ultimo accampamento, cinto dal filo spinato,
scomparve dalla vista. Attraversarono il paese del coyote:
mesquite, bronchi, cespugli aggrovigliati a chiazze;
il cane della prateria abbaia e ne rimbomba la valle;
sull’altopiano, il tasso dalle corte zampe
ha scavato la sua tana nell’argilla. Ma oltre a questo
il deserto: crudo, inestinguibile, dal dominio spergiuro.
Ha ricevuto un mandato di ferocia dal sole:
scia cupa che muore in un orizzonte palustre, Dio sa dove.

Vidi tutti i fallimenti: il teschio di un bue,
animali architettati nel terrore, dagli occhi come fosse;
la catastrofica ruota, spezzata e ricoperta di sabbia;
la malinconica mascella di un cavallo. Tributo
delle più spietate tribù: peggiori di una pestilenza
è questo il loro scrupoloso metodo di regnare.

Solo l’asino faceva finta di non accorgersene:
il piede posto sempre avanti, con ordine,
celere peculiarità di uno a cui il male di ogni
giorno è sufficiente. Le sue orecchie sagomavano
con ironia il giorno. Ma gli altri: l’uomo e la sua donna
colta da un fremito, fissavano schermandosi gli occhi
il sole al tramonto, varcavano con apprensione
in quella densità – molti mutamenti avrebbero
subito in ragione del loro carico. Portavano
il grande rischio del mondo – lei lo sapeva
e lo teneva coperto in un telo, vicino al cuore,
muto, e lo abbracciava in quell’ora violenta,
sua dolce necessità, contro la strategia della notte
oltre i greti morti, freddi, aridi, neri.

Questo accadde prima di verificare i deserti
del mondo. Sarebbero seguite molte cose:
molti portenti, le porte dell’orrore.
Ma allora era così piccolo e mite, così lieve
e inerme – troppo docile per essere toccato –
per questo lo custodivano nervosamente –
lo custodivo anche io che ogni giorno, sopra
l’orda del calice, sollevo il Pane inerte che lingua
sussurra e assume, per portarlo via dal chiassoso regno
dove suda rabbia Erode con i suoi scaltri mercenari
e sfoglia il giornale – e crede che il creato sia questo.

Sul ciglio dell’accampamento, la luna del deserto
rende d’argento l’Occidente, troppo casto e puro
per significare soltanto malasorte. L’uomo leva
la padella e scrosta una scheggia di silenzio;
la donna eleva il cuore; il Bimbo è aggrappato
al suo seno, si nutre.

*

Svezzato da tempo

Quando ho fatto il bene, è arrivato il male; quando ho atteso la luce, ho scoperto l’oscurità. Le mie viscere ribollono senza posa. (Libro di Giobbe)
 

Svezzato da tempo.

Labbra raggrinzite dal fiele
succhiano il caglio secco.

I miei pensieri, ruscelli disseccati
inghiottiti dal deserto.

La mia gola è carne fatua.
Nessuna sostanza nel ventre
acqua immobile.

L’intestino crolla
verso l’inguine.

Spago inerme il mio sesso
selce infeconda il seme.

Un giorno, in un altro posto,
verrà la pioggia;
esploderà l’acqua dai pozzi
dalla vigna cresceranno i meloni.

Allora, conoscerò Dio.

Sophia, profonda sapienza,
splendida inestinguibile fonte:

slega i tuoi seni.

*

Il poeta è morto
In memoria di Robinson Jeffers

È sera, il crepuscolo si sbriciola
in aghi di luce. In una lunga riva
si dispiega l’oscurità –
fa freddo. Dal ventre del silenzio
l’immensità della cresta marina
copre la terra.

*

Neve sui promontori
della costa californiana.
Neve su Point Lobos:
cade da tutta la notte
riempie torrenti, vela
le valli. La strana bellezza
che dona questo preludio
della morte.

*

Perché il poeta è morto.
La penna, scheggiata dallo strapiombo,
eccessiva nella visione, è caduta e senza dita.
La mano del cuore si è spezzata, è fredda
come pietra, crolla.

*

La grande lingua è secca:
denti che mordevano fino al reame
del dolore sono rivestiti di verità.

*

Se ascolti
puoi sentire piccoli topi
che si accalcano nel vortice
della neve – puoi sentire
il tempo che si riprende il proprio.

William Everson

Gruppo MAGOG