17 Dicembre 2019

Robinson Jeffers, l’ultimo epico, il poeta preferito da Bukowski e da Andrea Pazienza

Un secolo fa un uomo voltò le spalle al mondo, prese terra davanti al mare e costruì una casa per la donna che amava. La donna era detta Una, la casa fu costruita su una rocca californiana, a Carmel, la chiamò Tor House, era una torre di pietre, perché a lei piacevano i racconti irlandesi e le poesie di William Butler Yeats.

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L’uomo è un poeta. Si chiamava Robinson Jeffers (1887-1962), nato in Pennsylvania, nella culla del reverendo William, un vero prodigio. A dodici anni parlava inglese, tedesco, francese; traduceva dal greco e dal latino, versato nei miti classici e nella sapienza biblica. Aveva studiato in Europa. Robinson Jeffers è tra i grandi poeti americani del secolo, il 4 aprile 1932 la rivista “Time” gli dedica la copertina, ma se non lo avete mai sentito nominare non c’è problema – il problema è di chi ha fatto di tutto per tacitarne il canto.

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Nel 1969 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, traduce per la ‘Fenice’ Guanda, la collana “diretta da Giancarlo Vigorelli”, un libro di stupefacente bellezza, La bipenne e altre poesie, di Jeffers. La fama di Jeffers è decapitata, nel suo paese: egli non è un poeta che tranquillizza, che scrive versi a decorare il destino in vacanza. Robinson Jeffers, un uomo che ha scelto di vivere una vita arsa, al deserto di sé, nel brillio della severità, è un poeta scomodo. Pacifista radicale, asceta guerriero, poeta dalla poesia armata, che scava nel mito, che spesso sceglie la profezia, con l’inflessibile potenza di un biblico. Così la ‘quarta’ del libro pubblicato in Italia: “Troppo impolitica, forse, questa pronuncia, troppo intransigente e severa per riuscire immediatamente ‘popolare’… Robinson Jeffers è forse l’ultimo poeta capace di raggiungere una dimensione autenticamente e modernamente epica”.

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Il libro apre con una considerazione di e. e. cummings: “Subito nominai Robinson Jeffers, affermando che era assolutamente scandaloso il modo in cui i ‘critici’ così poco americani lo trascuravano”. Come mai era scomodo fino allo scandalo questo poeta? In parte lo dice Mary de Rachewiltz: “Molti critici avevano accusato Jeffers di pessimismo eccessivo, quasi da incitare al suicidio, affrettatamente scambiando le sue premesse per conclusioni. Mentre egli è molto esplicito: la morte va sempre tenuta lontana e combattuta; e pochi poeti hanno avuto quanto lui in orrore e deprecato la guerra. Soprattutto le inutili e ingiuste guerre che ha combattuto (e ancora combatte) l’America”. Jeffers non nega la violenza né la esalta, la analizza come dato primo del vivere (scrive: “Il Dio che si autotortura. Questo richiede una spiegazione. L’universo esterno divino non è in pace con se stesso, ma pieno di tensioni e violenti conflitti. Il mondo fisico è governato da opposte tensioni. Il mondo delle cose viventi è formato da una lotta continua e da desideri irriconciliabili. Il dolore è una parte essenziale della vita”). Jeffers usa la poesia come un coltello: “La poesia racchiude ed esprime il tutto, come prosa non potrà mai. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito… La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte ugualmente valide e allo stesso tempo creando”.

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Spesso idolatrato, Robinson Jeffers è poeta per nascosti, da leggere tra gli alberi. Charles Bukowski, in modo inatteso, lo adorava. “Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”.

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Robinson Jeffers incontra Una Call Kuster nel 1906. Non ha neanche vent’anni. Lei è più grande di tre, è sposata con un avvocato di Los Angeles. L’amore clandestino viene scoperto, esplode lo scandalo, i due scappano, Una divorzia. Nel 1919, un secolo fa, Jeffers porta la sua musa nella torre di pietra di Tor House, che continua a raffinare e amplia, con la nascita dei figli. Tor House, la casa, è il centro della vita artistica di Jeffers: la sua poesia è ‘mitica’ perché lui, come il poeta ancestrale, costruisce un mondo, lo abita. In Tor House il poeta racconta la propria impresa, bordeggiando i secoli, consapevole che ogni cosa ha una durata, ha valuta di schianto:

Se cercherete questo posto dopo una manciata di vite umane:
forse ancora un po’ della foresta da me piantata
sarà in piedi, eucalipti dalle foglie scure o il cipresso costiero, sbrindellato
dalle bufere; ma il fuoco e la scure sono diavoli.
Cercate le fondamenta di granito levigato dal mare, le mie dita conobbero l’arte
di sposare pietra a pietra, troverete alcuni resti.

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Il punto più alto del successo pubblico, nel 1947. Robinson Jeffers firma una versione dalla Medea di Euripide (pubblicata due anni dopo su “Il Dramma”). Il testo approda a Broadway, con Judith Anderson – che qualche anno prima era in scena per Hitchcock, in Rebecca. La prima moglie. Repliche continue, fama micidiale – che Jeffers farà di tutto per sconfiggere.

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Ha la faccia di un’aquila. Una faccia simile, così affilata e severa, l’ha avuta soltanto Samuel Beckett. In effetti, sono aquile difformi, entrambi, difficili, dispari: Samuel disintegra ogni mito; Jeffers ne edifica di nuovi. Nel 1995 Luca Scarlini traduce la Medea di Jeffers per Aletheia; nel 1977 appare, nella ‘bianca’ Einaudi, il poema Cawdor, l’impresa traduttiva è di Franca Bacchiega. In Italia Robinson Jeffers non esiste. È il poeta prediletto di Andrea Pazienza, però, che ne illustra il poema definitivo: “Campofame è la storia dell’uomo che uccise la morte e delle conseguenze di questo atto impossibile. Nel 1987 il poeta Moreno Miorelli spedisce a Pazienza le fotocopie del poema di Robinson Jeffers e Andrea inizia a lavorare alla storia”. La testimonianza di Miorelli è da ribattere: “I russi, Robinson Jeffers, il mito di Orfeo, ponevano Andrea in forma diretta, di fronte al gran mistero. Per questo le lacrime erano per lui la reazione istintiva, immediata. Chi l’ha veduto durante e dopo l’ascolto di un poema gettarsi a terra, piangendo, capace solo di ripetere ‘Questo! Questo!’ non si chiede più, se mai se l’è chiesto, se la poesia ha o non ha un senso oggi”.

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“Robinson Jeffers ha realizzato una delle più controverse e affascinanti esistenze per un poeta americano… In un’epoca in cui molti poeti contemporanei, seguendo l’egida di T.S. Eliot e di Ezra Pound, insistevano sulla necessaria difficoltà del linguaggio poetico, Jeffers denunciava il loro lavoro come triviale manierismo: lui cercava chiarezza retorica, emozione, pensiero. Diceva che la storia e la società lo avevano condotto alla disperazione, eppure, ha affrontato la politica con la franchezza di un poeta del suo tempo, benché austerità e solitudine gli abbiano aizzato contro, dagli anni Trenta, il disprezzo. In un’epoca spirituale caratterizzata da sublime disordine della Waste Land, ha costruito una fede antinomista sulla roccia di ciò che ha chiamato ‘Inumanesimo’, una specie di panteismo, mescolato alla scienza e al culto mistico della feroce bellezza della natura”, scrive David J. Rothman, presidente della Robinson Jeffers Association.

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Nel 1950 Una muore. Tor House era la casa della poesia, un po’ Sion, un po’ Carmelo, un po’ regno delle fate. Jeffers subisce crisi depressive dagli anni Trenta, quando quella fetta di California viene afflitta dal turismo. Dopo la morte di Una, per lei, Robinson Jeffers scrive il suo poema più grande, Hungerfield, “Campofame”. I primi versi sono da incidere sui tronchi:

Se tempo è solo un’altra dimensione, allora tutto ciò che muore
Resta vivo; non annientato, solo tolto di vista. Una è ancora viva. Pochi
Anni fa: facciamo l’amore come falchi avidi,
Un ragazzo con una ragazza sposata. Anni fa
Siamo ancora giovani, le spalle forti, gioiosi al lavoro
Per costruirci la casa. Poi lei, nell’arco della finestra sul mare,
Sopporta all’infinito, ma poco paziente,
Insegna ai figli a leggere. È ancora lì;
Il bel volto pallido, i folti capelli, i grandi occhi
Chini sul libro. ancora anni fa:
Seduti coi figli adulti nello scafo, che avviamo
Al largo di Horn Head nel Donegal, osserviamo le pulcinelle
Di mare rotolare lungo la roccia, e le sule come stelle cadenti
Gracidare al mare: i grandi occhi azzurri pieni di lacrime
Per la selvaggia bellezza.

Sembra una poesia sorgiva, il canto di un Orfeo selvatico, che chiede il permesso ai fiumi e virtù di visione alle volpi prima di avventarsi tra gli uomini. (d.b.)

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Lasciateli in pace

Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta
Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi
Che l’uccidono. Un poeta è colui che sa ascoltare
La natura e il proprio cuore; e se il frastuono del mondo lo circonda, se è forte saprà sbarazzarsi dei nemici.
Ma degli amici no.
Fu questo a spegnere la vena di Wordsworth, smorzarla in Tennyson e avrebbe ucciso Keats; che fa di Hemingway
Un buffone e a Faulkner fa scordare il mestiere.

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De Rerum Virtute

I

Ecco il teschio di un uomo: i pensieri e i sentimenti di un uomo
Sono passati sotto la leggera volta d’osso come nuvole
Sotto la volta celeste: amore, desiderio e dolore,
fumi d’ira, bianche bufere di paura, sospese qui dentro:
E talvolta la strana ansia di sapere
Il valore, lo scopo e le cause degli eventi
Ha sorvolato come un aereoplanino in ricognizione le immagini
Contenute in questa mente: senza mai scoprire gran che,
E ora è vuoto, una bolla d’osso, guscio d’uovo risucchiato.

IV

Io sto sulle rocce della baia Sovranes.
A ovest oltre le acque in tormenta e la schiena curva del mondo
Imperversa l’inutile guerra in Corea, e stupidamente
Profetizzo. Brucia troppo il cervello
Perché qualcuno, eccetto forse Dio, ne veda la bellezza. È davvero difficile vedere bellezza
In alcun atto umano, atti di un microbo ammalato
Sul satellite di un granello di sabbia che turbina vorticoso
Nel mondo delle stelle…
Forse qualcuno ne sarà; in ogni caso
Non durerà a lungo – Beh: da quando mia moglie è morta sono impaziente…
E quest’era di semi-mondi pieni d’ira e di dispetto
Mi dà sui nervi. Io credo che l’uomo sia bello,
Ma è difficile vederlo, avvolto in falsità. Michelangelo e gli scultori greci –
Come hanno lusingato la razza! Omero e Shakespeare –
Come hanno lusingato la razza!

V

Una luce ci resta: la bellezza delle cose, non dell’uomo;
L’immensa bellezza del mondo, non del mondo umano.
Guarda – e senza fantasia, desiderio o sogno – guarda direttamente
I monti e il mare. Non sono belli?

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Uccelli e pesci

D’ottobre a milioni verso riva vengono i pesciolini
Lungo la costa granitica del continente
Nella loro stagione: ma che pacchia per gli uccelli marini.
Che stregoneria d’ali fantasmagoriche
Nasconde l’acqua scura. Pesanti i pellicani gridano “Ha!” come il corsiero dell’amico di Giobbe,
E si tuffano dall’alto, i cormorani lunghi
E neri scivolano sott’acqua e cacciano come lupi
Nell’opaco verde. I gabbiani stridono, attenti,
Avidi e invidiosi, protestano e beccano. Ingordigia isterica!
Questi uccelli innocui! Come se trovassero oro
Per strada. Meglio dell’oro, si può mangiare: e chi
Tra questi volatili selvaggi ha pietà dei pesci?
Non uno certo. Misericordia e giustizia
Sono sogni umani, non riguardano gli uccelli né i pesci né il Padre Eterno.
Ma prima di andartene, guarda bene.
Le ali, le bocche fameliche, i pesciolini plasmati dalle onde, lucidi veloci molluschi
Vivono di paura per morire nel tormento –
Loro destino e degli uomini – le isole rocciose, l’oceano immenso e Lobos sull’imbrunire
Sopra la baia: non è forse bello?
Questo è il loro valore intrinseco: non misericordia, intelligenza o bontà, ma la bellezza di Dio.

Robinson Jeffers

Gruppo MAGOG