“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Per tutta la vita Robert Graves, nato a Wimbledon il 24 luglio del 1895, lottò per ricondurre la poesia alle sue origini ‘magiche’ e il poeta al proprio atavico – e rischioso – ruolo ‘sacerdotale’. “Il patrimonio tradizionale della poesia europea è radicato in ultima analisi su principi magici i cui fondamenti costituirono per secoli un segreto religioso gelosamente custodito”, scrive nel suo libro più bello, La Dea Bianca, astrale, astruso, gravido di ispirazioni. Sapeva, Graves, che tra il giullare di corte e il profeta, tra il buffone e il trickster la distanza è infima e spesso, con sovrano gusto dei potenti, confusa; nel suo libro riconduceva le lettere dell’alfabeto alla natura degli alberi, i versi al tranello/ritornello che svela, danzando, gli indicibili di Dio. Poesia, dunque, come formula arcana che lega questo all’altro mondo, rispetto allo “stile meccanico”, “iniziato negli uffici contabili e ormai infiltratosi nelle università” della prosa, biecamente ‘utile’, prona al potere. Una civiltà scissa dalla poesia, è una civiltà dissociata dal numinoso – ovvero, dal regno barbaro delle ombre, il solo; il resto è il solleone delle apparenze.
Fu colpito durante la battaglia della Somme, decorato di proiettili e medaglie; fu amico di Lawrence d’Arabia – su cui, nel 1927, scrisse una biografia di successo – e scrisse, scrisse, tantissimo. Fu poeta, soprattutto, Graves, ha pubblicato molto; in Italia il suo genio è semplificato in rari libri, fuorvianti, I miti greci (costantemente in ristampa), i romanzi, pittoreschi (Io, Claudio; Io, Gesù; Belisario; Il vello d’oro), il resoconto sul corpo morto dell’Occidente, dopo la Prima guerra, Addio a tutto questo. Delle antologie liriche curate per Guanda da Carlo Izzo, ad esempio – I poeti sono uomini; Lamento per Pasifae – non c’è più traccia. In una fotografia dei tardi anni Venti ha il viso volitivo di un Apollo; stabilì la sua dimora a Deià, Maiorca, dove scriveva, pensava, viveva da estremo maestro, onorato. In molti andavano a trovarlo; aveva ampi cappelli, una lingua geologica, un bastone nobile (con cui, forse, disciplinava le nubi, come fossero greggi); dal 1950 al 1966 fu ripetutamente ‘nominato’ al Nobel per la letteratura.
“Sin dall’età di quindici anni sono stato dominato dalla passione per la poesia e non ho mai scelto attività o stabilito relazioni che mi sembrassero incompatibili con i suoi princìpi, anche se ciò mi ha talora guadagnato la fama di eccentrico”, scrive nel suo libro testamentario, costantemente rivisto. La sua fine ha il valore di un emblema. Il poeta-sciamano terminò la sua attività intellettuale al principio degli anni Settanta: da lì inizia un declino micidiale nella demenza. Graves muore nel 1985, in dicembre; Borges, di poco più giovane, gli fece visita nel 1981 e nel 1982: “La moglie gli dava da mangiare col cucchiaino e tutti erano assai tristi e in attesa della fine”, ricorda in Graves en Deyá. Lo aveva definito, Borges, un uomo “ormai fuori dal tempo e dalle cifre del tempo”. Per questo, forse, desiderò vederlo, carne assiderata su una sedia, voce storpia, denti slegati, profezia essa stessa.