
“Il genocidio armeno? Colpa di Cartesio”: intervista a Siobhan Nash-Marshall
Politica culturale
I
«Egli è un artista e uno storico dell’arte sua, che dirige orchestre solo in adempimento di un dovere d’ordine superiore. Chi lo celebra come direttore d’orchestra senza scorgere questa plurima dimensione, si condanna a non capirlo. Chi dimentica il compositore che tenacemente volle essere e lo scrittore che realmente fu, non soltanto ignora la visione ch’egli ebbe di se stesso come uomo e artista, ma le ragioni stesse dell’unicità della sua apparizione».
Così il “solito” Piero Buscaroli in Furtwängler, fra due epoche, il più intelligente e preciso contributo mai apparso nella nostra lingua su di questa figura, uscito in rivista, nel 1986, e poi in La vista l’udito la memoria, nel 1987.
Potrei limitarmi a ricopiarlo tale e quale e Furtwängler sarebbe servito, e così il lettore. Sarò tuttavia diligente scrivano, e darò qualche ragguaglio sulle idee di Buscaroli, al contempo commentando e aggiungendo di mio.
Lo storico della musica che più ha contribuito a diffondere e capíta la figura integrale di Furtwängler e ha inoltre salvati, negli anni Sessanta, i nastri con l’incisione all’Opera di Roma del Ring – che la Rai, per far piacere a Karajan, stava letteralmente distruggendo (ci si legga la vicenda in Dalla parte dei vinti) – individua due punti focali da cui riguardarlo.
Il primo è sinteticamente esposto nella citazione e ampiamente sviluppato nel saggio. Quei pochi che ancora sanno chi fu – chi è – Furtwängler, almeno per sentito dire, e persino chi delle vecchie generazioni seguisse il mondo della “vecchia” musica, quasi sempre ignora gli altri due dominii accanto alla direzione d’orchestra in che l’interessato si muovesse, e quale fosse la personale gerarchia.
La direzione orchestrale, stupite, veniva ben dopo la composizione, vocazione primaria, e si può dire anche della scrittura di cose musicali, cui ci si potrà accostare tramite Suono e parola, uno dei più bei libri su varie e fondamentali questioni di estetica e storia musicali di tutto il XX secolo. Quanto alla composizione, a lungo fu difficile intercettare qualche vinile ovvero cd con il Concerto sinfonico per pianoforte o una delle tre Sinfonie; ma la “rete” ci soccorre.
In tutt’e tre le sfere, saldate e anzi reciprocamente compenetrate, Wilhelm Furtwängler dimostra la piena coscienza di essere e voler essere l’ultimo rappresentante totale e il guardiano d’un modo di intendere la musica al canto del cigno, e che si avvalesse a tale fine anche d’una solida e vasta formazione individuale, quale già un tempo pochi tra i musicisti pratici avevano. Anzitutto figlio di Adolf Furtwängler uno dei più eminenti archeologi tedeschi, Wilhelm fu allevato da valorosi precettori, dei quali ci informa Buscaroli, e seppe custodire e far fruttare, con intelligente rigore, il clima d’una civiltà di che egli, nato nel 1886, potette ancora nutrirsi. Un’èra cioè in cui ancora scorribandavano gli ultimi esemplari in tutti i campi della maestosa e profonda tradizione dell’Europa, poi polverizzata a partire dal 1945.
Già verso la dodecafonia, quasi subito assurta pienamente agli agi e agli onori della tradizione con cui c’entrava nulla, Furtwängler dimostrò una distanza, che non era passatismo ma consapevolezza che già allora era intervenuta una irremeabile cesura nella campata che andava da Praetorius insino a Bruckner e Richard Strauß ed egli stesso ostinatamente proseguiva.
Dice in Suono e parola:
«La civiltà odierna è cosmopolita (global). Non è più legata, come tutta la cultura del passato, a origini culturali locali. E tuttavia, vastità di diffusione e valore culturale sono sempre cose diverse. La dodecafonia è una disciplina intellettuale che ha molto a che fare con la tecnica, ma nulla con un luogo e una nazione».
Aleggia dietro queste parole la spessa ombra d’Oswald Spengler, lo storico prediletto da Furtwängler. E non si tratta solo, come direbbero certi soliti prevedibili, di “gusti personali”; quanto invece di una ferma coscienza dell’andamento alternato di Kultur e Zivilisation, che in Furtwängler non sono le parole che riempiono tanto la bocca di chi non ha mai letto un rigo del Tramonto dell’Occidente, ma esperienze concretamente sentite e vissute, come d’altra parte vale per lo stesso Spengler, sulla propria pelle e nei panni di sacerdote della massima tra le arti.
Tra gli interpreti della sua generazione Furtwängler è senza dubbio il più libero e acuto veicolo nelle tre forme espressive che s’era scelto, di un mondo unico e sulla via, per l’appunto, dell’occàso. Non ebbe certo, o almeno dagli scritti non emerge, né glielo si chiede, la visione così completa e così lontana di Spengler: aveva però ciò che gli serviva per capire il momento storico e fare quanto in suo potere, anche dovendo lottare contro gli infami tentativi, per breve periodo riusciti, di ghettizzarlo e ridurlo al silenzio da parte dei vincitori e dei loro collaborazionisti indigeni, per dare testimonianza amara ma eroica di quel mondo. E finché gli riuscì, stette al suo posto, come dimostra, tra gli altri, l’episodio quasi commovente raccontato da Albert Speer, poi passato anche alla biografia del musicista, nelle sue Memorie del Terzo Reich. La scrittura, immagino facilmente, serviva anche per arrivare a un maggior numero d’anime, che non i “soli” concerti o l’attività compositiva.
A dimostrazione sia della sua magistrale arte direttoriale, che lo pone al vertice dell’esercizio, sia dell’equipaggiamento storico e artistico, c’è la insindacabilmente più bella e intensa esecuzione della Sinfonia n. 9 di Beethoven, che mai abbia conosciuta la storia del disco. Siamo nel 1951 e siamo al Festspielhaus di Bayreuth, che riapriva i battenti dopo la sospensione durante la guerra e il primo dopoguerra. Il Festival dunque riparte. Ma perché Beethoven? Perché la Nona?
Non è dotazione di tutti, e nemmeno degli addetti ai lavori, critici e musicisti, sapere che Wagner volle sempre che ad aprire il suo Festival fossero quel compositore e quella Sinfonia. Si vede in qualche libro e in alcuni libretti allegati agli estinti vinili (libretti anch’essi reperti d’un mondo scomparso a favore di fretta e superficialità) un disegno che ritrae l’interno dello splendido barocco del Teatro dei Margravi a Bayreuth, gioiello europeo, e al centro la sagoma ondeggiante di Wagner davanti a un’orchestra e a una folta schiera di spettatori. Era il 22 maggio 1872, cinquantanovesimo genetliaco del Maestro, ed era stata appena posata la prima pietra del Festspielhaus, che ora veniva schiuso con la Corale.
(Sei anni avanti, in fase di “liberazione”, a pochi metri dal Teatro, un manipolo di marines “abbronzati” ballava con gli anfibi alle zampe una di quelle loro musiche tribali accompagnando il sabba con tanto di defecazione: il tutto sulla tomba di Richard Wagner. Ognuno ha il suo modo d’inaugurare e connotare ciò che porta).
Wagner sapeva, come pressoché tutti all’epoca, che i «Millionen» e i «Brüder» dell’inno schilleriano, nelle intenzioni di Beethoven, non erano un’indistinta umanità, ma il popolo tedesco. Sinfonie allemande era infatti il titolo voluto dal legittimo proprietario. Insomma, tutto il contrario della contraffazione euro-umanitaria che sappiamo. La tradizione bayreuthiana restò tale e intatta sotto qualsiasi regime stazionasse a Berlino e persino durante la scellerata gestione, dal 1883 al 1930, di Cosima.
Alla morte di Furtwängler, 1954, quella tradizione fu spazzata via, senza interrogativi, senza proteste, senza rimpianti. Si era assentato il guardiano e il futuro era già arrivato. Furtwängler, di questo e di tutto il resto, si era accorto già da tempo. Resistette finché il cielo gli die’ le forze, come aveva sempre voluto e fatto: per la musica, per la Germania, per l’Europa.
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II
Se si voglia ascoltare un vero e integrale Beethoven, bisogna volgersi a Furtwängler. Si può anche passare per un Karajan, un Klemperer, un Böhm (non si scenda al di sotto); ma si dovranno presto o tardi fare i conti con quell’altro Beethoven. E se ve lo dice uno che non tollera Beethoven, potete stare sicuri. Il Gran Sordo fu l’autore d’elezione di Furtwängler, come si capisce anche da Suono e parola. L’amico Antoine de Bavier, interrogato davanti al pianoforte appartenuto al maestro, su cosa questi suonasse più spesso, rispose: «Oh, immer Beethoven», sempre Beethoven, aggiungendo: «Fast immer die Missa Solemnis», quasi sempre laMissa Solemnis.
Eppure, da non pochi ritenuta, forse non a torto, il vertice compositivo del Gran Sordo, incredibilmente a Furtwängler essa incuteva, riferisce l’amico, «paura». È ancora de Bavier a rivelare che in tutta la sua lunga carriera direttoriale Furtwängler la diresse soltanto sette volte, e ahimè senza che qualche provvido “pirata” si fosse portato un apparecchio per trattenerla, e tramandarla.
La mancanza di un’incisione della Missa Solemnis è l’unica magagna, bensì comprensibile ma pur sempre magagna, nel percorso di Furtwängler. Questo è però un altro dei fatti che ci dicono parecchio su di lui. Pur cosciente delle proprie capacità uniche, egli volle peccare d’umiltà eccessiva e ingiusta, lasciando così spazio a purtroppo non pochi “colleghi”, che uscirono distrutti da quell’impresa senza peraltro lasciare alcuna traccia, né negli orecchi, né negli spiriti, e semmai sottraendo. Non resta che il solo Karl Böhm, che ha incisa la più acuta e perspicua lettura del capolavoro, dimostrandosi l’unico erede di Furtwängler.
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III
Il repertorio di Furtwängler fu assai vasto e ben scelto, ma principalmente va da Beethoven a Bruckner e Richard Strauß, con qualche esclusione, naturale e doverosa, in primis Mahler.
Il nucleo forte si concentra però sulla musica che con un’espressione tutta ancora da valutare e chiarire si può definire romantica e tardo-romantica. Senz’altro dopo Beethoven, autori d’elezione furono Richard Wagner, anche per motivi extra-musicali, Johannes Brahms e Anton Bruckner.
È un peccato che entrambe le esecuzioni dell’Anello del Nibelungo si sentano maluccio, quantunque siano eloquentissime. Suono invece chiaro ma perché registrata in studio abbiamo invece nel Tristan und Isolde, a mio giudizio la miglior versione insieme a quella, ancóra una volta, di Karl Böhm. Il Tristan di Furtwängler ha, nel monologo finale d’Isolde, una sorpresa, che lascio trovare ai più zelanti e, soprattutto, ai più dotati d’orecchio.
A Bach e a Mozart si dedicò abbastanza poco, ma la Passione secondo san Matteo e il Don Giovanni gareggiano come le altre pochissime versioni svettanti (rispettivamente Karl Richter e del “solito” Böhm).
Circa questo Bach, e in generale sul repertorio barocco, vale la pena di spendere un paio di parole, ricordando però la complessità dell’argomento. Una complessità che schiere di musicanti, taluni celeberrimi, e critici e ascoltatori ignorano del tutto, vista l’ostinazione con cui sbucano come lumache dopo la pioggia le interpretazioni così dette filologiche, che né di filologico né di logico hanno mezza croma.
Soprattutto da quando i cervelli dei musicisti si sarebbero “affinati”, in ispecie a partire dalla seconda metà del Novecento, è invalso l’uso di simili esecuzioni: davvero esecuzioni… capitali! Si tratta d’una fracassona buggeratura, per essere eufemistici. L’operazione avrebbe valore una tanum per compositore quale esperimento, che però si deve aprire e chiudere e subito dimenticare.
Ogni singola condizione di ascolto è mutata, talora radicalmente, sicché ciò che noi udiamo non è ciò che si udiva nel Seicento o nel Settecento o quando volete voi. Inoltre, molti degli stessi compositori imprecavano per l’inefficacia degli strumenti coevi a restituire così come essi avevano pensata e scritta la pagina. Sono abbastanza note le piazzate proprio di Bach, la vittima più illustre del filologismo, contro i «clavicembali fiacchi». Principati e ducati della Germania di quelle epoche talora non avevano i mezzi o non volevano investirne in migliorie tecniche ovvero in aumenti di organici, e così capolavori e non capolavori, se volevano vivere cioè esser suonati, dovevano contentarsi di quel che passavan le corti.
Ci si provi ad esempio a porgere gli orecchi alle esecuzioni filologiche di Beethoven, che già navigava in acque migliori di tant’altri contemporanei e soprattutto predecessori, e di poi a raffrontarle con quelle moderne e vedrete dove manderete la smania filologica.
Per soprammercato è spesse volte difficile sapere con precisione, e talora anche con vaga approssimazione, come eseguire filologicamente una Sonata ovvero un Concerto grosso, essendosi perse le precise informazioni storiche e tecniche. Ma se non si abbiano grandi risorse artistiche e si voglia coprire le lacune gettando fumo negli occhi, allora la filologia va benissimo. Basta sapere come stanno le cose.
I grandi signori della critica e della bacchetta e dei più svariati strumenti da grattare e soffiarci dentro mai si sono fatti venire il dubbio che, anche al netto di tutto ciò che abbiamo appena rilevato, parlare di ascolto filologico attraverso un apparecchio riproduttore è da veri dementi.
Financo l’intoccabile Herbert von Karajan, contro il quale anche davanti a patenti disastri e a scelte scellerate nessuno osava un sussurro, pena l’ostracismo, quando dimostrò ai filologi tutta la loro imbecillità incidendo un meraviglioso florilegio di musiche barocche coi modernissimi Berliner Philarmoniker, fu crivellato d’improperii e maledetto a vita. E chiuso l’inciso.
Furtwängler prestò invece poco orecchio ad Haydn, ciò che è molto più singolare, per non dire bizzarro, vista la paternità sul salisburghese e soprattutto su Beethoven e visto che è Haydn. Vale forse per Furtwängler la frase con cui un altro Wilhelm, Backhaus, considerato tuttavia a torto tra i massimi interpreti del pianismo beethoveniano, rispose a una signora che alla fine d’un concerto gli chiese perché non suonasse chissà quale altro compositore. Se Beethoven avesse scritte soltanto un paio di sonate, rispose, potrei anche: ma ne ha trentadue!
Sarà di poi opportuno porre grande attenzione al 1950, quattro soli anni avanti la morte, e due dopo la composizione dei Vier letzte Lieder di Richard Strauß. Furtwängler, insieme a Elisabeth Schwarzkopf, li incise per il primo. Non conosco i dettagli di questo primato, ma posso divinarli o almeno figurarli.
Richard Strauß, l’ultimo discendente d’una schiatta di musicisti seri e dignitosi, e l’ultimo rappresentante della Vecchia Europa dei compositori-iddii (Russia e quindi Šostakóvič esclusi: un giorno o l’altro ne parleremo), aveva fissato nell’ultima pagina di quel poker di gioielli, che s’intitola Im Abendrot, o sia «Nel rosso serótino», l’epicedio e soprattutto l’epinicio della grande tradizione musicale occidentale, che giustappunto stava morendo, in una delle tessiture armoniche e in uno dei suoni più struggenti ed evocativi mai apparsi sulla faccia della terra, dall’accordo iniziale sottolineato da un sapiente uso del timpano, insino agli ultimi trilli che imitano il canto delle allodole del testo. Provate ad ascoltare questo canto, ignorando i versi e affidandovi alla sola musica, all’imbrunire e sarete travolti da immagini, emozioni e pensieri raramente accaduti in vita vostra, e conoscerete come suona la fine d’un mondo.
Strauß ebbe l’ulteriore genio di togliere da Eichendorff il testo, pertinentissimo con l’intenzione del musicista, raffinato scrittore della Romantik, vissuto a cavaliere di Sette e Ottocento, quindi all’inizio della grande cavalcata artistica della Germania, di cui l’Österreich – Strauß lo sapeva bene – faceva politicamente e moralmente parte. Insieme all’esecuzione dell’altro epicedio, questa volta solo strumentale, che è Metamorphosen, ancóra di Richard Strauß, l’ascoltatore avrà gran parte dell’arte di Furtwängler e anche e soprattutto il senso della sua vita terrena.
E poi, naturalmente, c’è il nazismo.
È nota la sua esecuzione di Hindemith che fa il paio col saggio di Suono e parola in difesa del compositore ebreo-tedesco. Ma Furtwängler ovviamente detestava Hindemith apparecchiatore di suoni, e gli si dedicò solo per dimostrare al regime, e non per la prima volta, che aveva imposto l’esilio artistico al musicista ebreo, di non essere un lacché, e che per lui l’arte veniva prima della politica, ciò di cui non tenne conto chi dopo la sconfitta tedesca lo processò come un delinquente qualunque e lo costrinse a emigrare. I tempi erano cambiati, era arrivata la liberazione.
A proposito. Quando i Berliner restarono senza il loro direttore – che, per inciso, era succeduto niente meno che ad Arthur Nikisch – se ne dovettero procurare uno in fretta e furia e non sapevano dove sbattere la testa, in quella nuova Germania devastata. A un orchestrale venne l’idea: c’è un giovane al conservatorio, pare molto dinamico e valido. Non aveva neppure origini tedesche, né era minimamente stato coinvolto col regime. Al massimo, se non ci garba lo protestiamo.
Quel giovane aveva anche studiate filosofia e matematica nella sua terra natale, la Romania. Si chiamava Sergiu Celibidache, e ne parleremo.
Luca Bistolfi