01 Febbraio 2018

Ciao Azeglio! Ovvero, Vicini e la sinistra che non c’è più. Controstoria delle notte ‘magiche’ (che magiche non furono) vs. l’epopea berlusconiana di Sacchi

Con tutto il rispetto. Azeglio Vicini è stato la copia in minore di Enzo Bearzot, come Totò Schillaci è il gemello povero di Paolo Rossi. Con tutto il rispetto. Le ‘notte magiche’ di Italia ’90 non furono affatto ‘magiche’, magico fu soltanto il gingle canticchiato dalla coppia sghemba Nannini-Bennato, roba da cappellaio matto e da magia italica fu, piuttosto, l’esplosione edilizia, la speculazione che fece pullulare l’Italia del Governo Andreotti VI di stadi olimpici quanto inutili. Sull’orlo di ‘Mani pulite’, tutto fu magico tranne i Campionati mondiali di calcio, ricordati per la più noiosa delle finali, per le più noiose delle semifinali, per l’eroe mancato (Maradona: 0 gol) e per la spavalda gagliardia del Camerun di Roger Milla. L’Italia, deputata alla vittoria, non arrivò neppure in finale, e più che i gol rapaci di Schillaci – tanti sorrisi e poco arrosto calcistico in una nazionale gonfia di talenti – si ricorda lo slalom vincente di Roberto Baggio, quintessenza dell’eleganza, al minuto 78 della partita del 19 giugno, contro la Cecoslovacchia. Più che una magia, il Campionato mondiale di calcio del ’90 fu un mezzo disastro, la nazionale di vetro che s’infrange contro una delle più brutte Argentine di sempre (ricordiamoci che ai quarti c’era l’Irlanda, mica la Germania o la Francia…). Quattro anni dopo, come si sa, a guidare la Nazionale c’era quella faccia da schiaffi di Arrigo Sacchi, uno che pensa di essere geniale come José Capablanca. Se Vicini, per così dire, è la statuaria rappresentazione della ‘ragion di Stato’, è un allenatore coltivato nel paddock della Federazione, Sacchi è l’emblema dell’uomo che si fa da sé. Se Vicini guida gli Azzurri dopo un cursus honorum burocratico, tutto interno al politburo calcistico, Sacchi vi arriva per vie altre, dopo il successo, clamoroso – e costruito con l’arte del tecnico e i soldi del committente – con il Milan. Nel 1994, l’anno in cui nasce Forza Italia, Sacchi, che corrisponde all’idea di vita berlusconiana – impeccabile, spavaldo, sicuro di sé – guida l’Italia nel Campionato mondiale di calcio più smaccatamente pubblicitario, quello americano. Ciò che funzionava nel ‘privato’ – il Milan – non riesce nel ‘pubblico’ – la Nazionale – perché le aziende sono un tanto diverse, ma a conti fatti l’Italia del ‘cul de Sacchi’ vince su quella di Vicini, bravo uomo, troppo bravo, onesto e probo fu. Se Vicini contava sugli uomini e sulla forza del ‘gruppo’, con un metodo artigianale, da festa dell’Unità e da dopolavoro ferroviario, l’etica di Sacchi puntava sul ‘sistema’ annientando l’anarchia dell’individuo, una specie di stalinismo turbocapitalista, dove c’è un genio che inventa Amazon – lui, l’allenatore taumaturgo – e il resto obbedisce, vitina interscambiabile (anche se Van Basten non è l’emblema del bravo magazziniere, ecco). Il sospetto è che Sacchi sia stato una purissima scommessa di Berlusconi, come in Una poltrona per due: piglio un allenatore dal nulla, lo metto a capo della squadra più forte che c’è, lo faccio vincere così tutti i meriti sono miei. Poco importa. Negli Usa il sistema di Sacchi, scacchista del calcio, va a farsi fottere al cospetto dei piedi di Baggio, all’epoca divino con il codino. E oggi? Se il calcio è la metafora dell’Italia e dunque della politica i dati sono due. Primo. L’inalterabile. Berlusconi. Nel 1994 lui c’era e Sacchi era il suo profeta. Vicini non c’è più. E con lui, forse, muore la sinistra che fu: chi è il Vicini di questa campagna elettorale?

Davide Brullo

Gruppo MAGOG