
Céline: lo scrittore scandaloso che amava i gatti e che tutti volevano morto
Libri
Luca Bistolfi
Quella che segue è un’intervista insolita. Innanzitutto, è molto lunga. Lo sarebbe persino per una rivista cartacea non specializzata: figurarsi per la rete. Ma non abbiamo avuto il coraggio, né d’altra parte l’intenzione, di sforbiciare per andare incontro alle capacità cognitive medie dei lettori odierni e così rischiare di sfigurare ragionamenti e riflessioni che, ed è questo l’altro aspetto insolito, meritano rispetto e attenzione, tanta è la messe di informazioni legate con intelligenza cultura e passione che vi troveremo a ogni passo, peraltro su di un argomento non di immediata comprensibilità e oggettivamente articolato.
L’intervistato, Luigi Maggio, insegna storia e filosofia in un liceo ligure, ed è uno dei sinologi più singolari e preparati a livello mondiale, e ciò anche se non ha una cattedra universitaria: anzi, forse proprio per questo. La sua preparazione è tale da avergli consentito non solo di fornire la più bella e ponderata traduzione del Tao Te Ching ma anche il primo e unico commento più vasto e profondo mai concepito in una lingua non cinese, oggi disponibile presso Bompiani col titolo più filologico di Dàodéjīng. Un’opera capolavoro, quella di Maggio, dedicata a uno dei testi bensì più ermetici ma al contempo più letti della storia mondiale.
Fino a questo momento in italiano erano uscite diverse traduzioni e commenti, a principiare da quella di Julius Evola, ora ristampata in maniera assai accurata dalla Edizioni Mediterranee, sino alla versione Einaudi di Attilio Andreini, passando per la Adelphi, e sulle quali abbiamo chiesto ragguagli al professor Maggio.
Tutte versioni pur meritevoli di attenzione – persino quella di Evola, che ignorava il cinese – e utili per chi voglia condurre uno studio serio su uno dei testi più diffusi e letti dell’umanità, ma che spariscono davanti al lavoro di Luigi Maggio, il quale è dotato altresì di una cultura filosofica, occidentale e cinese, ampia e robusta a tal punto da potersi concedere il lusso di commentare quasi ideogramma per ideogramma (il libro assomma ottocento pagine) un testo a detta di tutti difficilissimo sotto ogni rispetto intrecciando categorie filosofiche (e filologiche) estremo-orientali ed europee.
Il risultato è un’apertura concettuale fino a questo momento inusitata. Da questo momento, azzardo, anche gli studiosi occidentali possono accostarsi al Dàodéjīng senza l’ostacolo della lingua o di traduzioni per così dire abbandonate a sé stesse e al capriccio del lettore e aprire una discussione sui contenuti di un testo sovente criptico anche per gli stessi cinesi colti e accogliere quest’opera in una più vasta discussione ideologica e politica.
Ho cercato di stimolare Luigi Maggio su alcuni punti tanto generali quanto specifici sia del testo in sé, sia del modo di trattazione del sinologo. Come si vedrà il Dàodéjīng ben lungi dall’essere un’opera di vaga spiritualità quale in Occidente è considerata da molti, comporta notevoli implicazioni in tutti i domini della conoscenza. E adesso, armatevi di tempo e buona lettura.
Iniziamo dalla forma concettuale del Suo commento. Essa mi pare di spiccata derivazione heideggeriana: è una falsa percezione oppure no? In quest’ultimo caso, perché ha deciso di attingere (anche) ad Heidegger per spiegare il Dàodéjīng?
Prima di entrare nel merito della sua domanda, mi permetta una riflessione preliminare. La struttura filosofica principale del Dàodéjīng è giocata attorno alla dialettica intercorrente tra due termini tecnici fondamentali: «esserci» (yŏu 有) e «non-esserci» (wú 無). I due termini sono compatibili con varie possibili traduzioni, tuttavia quelle di «esserci» e «non-esserci» esprimono l’originario significato letterale degli ideogrammi e sono anche quelle che, per certi versi, sembrano meglio di altre cogliere i nessi essenziali implicati dai loro concetti nel tessuto filosofico del Dàodéjīng. Tali traduzioni fanno subito pensare alle riflessioni heideggeriane e alle relative sottolineature caratterizzanti il vocabolo «esserci» come traduzione italiana del termine tecnico tedesco Dasein. La traduzione italiana «esserci» per rendere il tedesco Dasein è di Pietro Chiodi e risale al 1953, data della sua prima traduzione di Essere e tempo (Sein und Zeit, l’opera di Heidegger del 1927). La traduzione è rimasta poi stabile nel linguaggio della filosofia.
Occorre tuttavia considerare che tale termine fu presente nella filosofia tedesca già prima di Heidegger e con connotazioni che possono essere d’aiuto per comprendere i due termini tecnici del Dàodéjīng. Il termine Dasein è formato dal verbo sein («essere») e dall’avverbio da (che ha il valore spaziale di «qui», «nel presente luogo»; e di tempo: «ora», «in questo momento») per cui nella traduzione italiana «esserci» è presente sia il verbo «essere» che la particella pronominale «ci» che individua la relazione col momento presente e con la localizzazione spaziale di ciò che ci sta innanzi. Prima di Heidegger, ancora nel ’700, il termine fu dapprima usato per tradurre il latino praesentia, in locuzioni con cui esprimere ciò che c’è intorno a noi: l’essere presenti a ciò che avviene con la propria percepibilità, assistere all’accadere di un evento in un certo momento e in determinato luogo. Il termine è stato quindi utilizzato nel linguaggio filosofico per indicare la sussistenza di oggetti, o di configurazioni di realtà, che si distinguono, rispetto ad altri, per le loro determinate caratteristiche, per le loro peculiarità formali alla luce delle quali la consapevolezza umana può fare esperienza e avere comprensione distinguendole da altre, quindi in ambito prioritariamente gnoseologico. Questa accezione, che sarà poi stabilmente mantenuta sino alle ridefinizioni heideggeriane del termine, è l’uso che qui ci interessa più da vicino. Inoltre, sempre nell’ambito del razionalismo pre-kantiano, il termine «esserci» (Dasein) viene a essere pensato anche come possibile traduzione del termine latino existentia in quanto possibile predicato logico della sostanza, e quindi, alla luce di tali valori, a essere inquadrato entro la dinamica potenza-atto, di cui l’«esserci» rifletterebbe allora il momento dell’atto, con le sue caratterizzazioni particolarizzanti, rispetto al momento potenziale rappresentato dalla ‘sostanza’. È interessante a questo proposito notare due aspetti inerenti all’uso laoziano strettamente affini ai concetti appena presentati. Il primo concerne il rapporto dinamico tra wú 無 («non-esserci») e yŏu 有 («esserci»), per il quale sicuramente si può parlare anche di una relazione potenza-atto, dove la potenza è rappresentata dall’aspetto wú della latenza, e l’atto dall’aspetto yŏu di determinazione della realtà sensibile: si tratta di una dinamica per la quale il Dàodéjīng parla in termini di “generazione” dell’«esserci» (yŏu) da parte del «non-esserci» (wú). Il secondo aspetto riguarda un possibile accostamento del concetto di wú, in quanto realtà aformale e potenziale, con il concetto occidentale di «sostanza»: la sostanza è ciò che «sottosta» a tutte le possibili determinazioni formali: qualitative, quantitative, di collocazione spaziale o temporale, ecc. le quali rappresentano gli elementi accidentali grazie a cui ogni forma individuale si particolarizza e in virtù di cui possiamo farne esperienza sensibile; mentre la sostanza è ciò che sostiene l’unità oltre la molteplicità degli aspetti formali, e in cui l’unitarietà dell’ente soggiace permettendo così di poter essere individuato come unità. In questo senso anche il principio wú resta sempre inespresso rispetto a tutte le possibili caratterizzazioni determinative della realtà, e, ciò nonostante, è il momento wú, che sta a fondamento dell’«esserci», l’elemento grazie a cui è possibile ricondurre ogni ente alla dimensione unitiva, unità che è il prodotto primo del Dào.
Tralasciando il ribaltamento di prospettiva che il termine Dasein subisce con Kant, ci soffermiamo sull’impiego stabilito da Hegel in cui possiamo riscontrare alcuni ulteriori termini della questione che sembrano utili per illustrare il contesto laoziano. Senza addentrarci nel merito della questione, e semplificando i termini, possiamo dire che per Hegel il Dasein è un “qualcosa” di determinato, ed è determinato proprio in quanto questo “qualcosa” presenta un risvolto negativo, una limitazione che lo circoscrive permettendogli di essere ciò che è, distinguendolo da tutto ciò che non è. Contrapponendosi a tutto ciò che non è, ogni esserci, nel suo essere “qualcosa”, si determina all’interno dei propri confini, circoscrivendosi nella propria finitezza, e potendo allora, in quanto tale, condividere la dimensione della differenza e dei dualismi. D’altronde, ogni esserci determinato posto dall’intelletto viene dissolto nel movimento dialettico con cui la ragione infinita lo accoglie, ricongiungendolo entro l’orizzonte dello spirito infinito; e sebbene la ragione superi la sua determinatezza dissolvendola nel proprio alveo, per contro la ragione conserva nel contempo tale determinatezza in quanto momento necessario per il proprio sviluppo. Tali considerazioni hegeliane sono se non simili sicuramente molto prossime alla visione che il Dàodéjīng propone, ma qui l’esserci, elemento di determinatezza, si dissolve completamente nell’indeterminazione del non-esserci, sebbene la sua vis energetica di determinazione sopravviva, sfrondata di tutte le particolarizzazione, venendo ad alimentare la potenzialità del non-esserci e potendosi in seguito rimanifestare con nuova fisionomia.
Per quanto riguarda invece l’utilizzo della heideggeriana coppia di concetti: ente/ontico e essere/ontologico, il loro impiego mi è sembrato molto affine all’uso della coppia di termini tecnici laoziani sopra considerati: «esserci» (yŏu 有) e «non-esserci» (wú 無). Parimenti all’aspetto ontico, il concetto di «esserci» (yŏu) verte sulle condizioni di fatto della realtà, concerne le proprietà empiriche di un oggetto, la percepibilità di tutte le determinazioni con cui gli oggetti della realtà si presentano a noi. Il concetto di «non-esserci» (wú), parallelamente alla heideggeriana dimensione ontologica, concerne invece il problema dell’essere proprio agli enti, la loro natura, la loro origine e possibilità di manifestazione. Per Heidegger tra l’ontico e l’ontologico si esprime un doppio rapporto: uno di dipendenza (l’ontico è subordinato all’ontologico) e uno di reciprocità (i due termini si semantizzano l’uno in rapporto all’altro). Analogamente, per il Dàodéjīng il rapporto di dipendenza si sviluppa in quanto l’«esserci» è prodotto dal «non-esserci»; mentre il rapporto di reciprocità si esplica per il fatto che le due dimensioni sono ciò che sono per il fatto che ognuno si determina in virtù del rapporto che si stabilisce con l’altro. Inoltre, secondo il primo capitolo del Dàodéjīng, buona parte del mistero dell’esistenza proviene dalla confusione che si ingenera nel momento di partenza del processo gnoseologico, in quanto l’esistenza si esprime simultaneamente secondo questi due canali, in contemporanea; l’uomo però li fonde insieme, sperimentandoli nell’ambito di un medesimo momento cognitivo, senza rendersi conto che le due dimensioni, benché originino nel medesimo tempo, emergano ciascuna da una propria e differente fonte.
Secondo alcuni autori per il solito definiti tradizionali, in Occidente legati soprattutto a René Guénon, l’autentico Taoismo sarebbe estinto o ciò che oggidì viene chiamato con questo nome (per quanto improprio e di origine orientalistica e quindi occidentale) sarebbe soltanto un simulacro, quando non addirittura una contraffazione. Lei è d’accordo con questa convinzione? Ha qualcosa da dire a proposito della sopravvivenza o meno del Taoismo?
Non sono d’accordo, soprattutto perché ritengo che nessuno possa avere una conoscenza così estesa e capillare del mondo cinese da poter fare un’affermazione in maniera tanto perentoria. Il Taoismo è sempre stata una realtà molto variegata e complessa, con espressioni anche piuttosto differenti, e profondamente radicata nel territorio, spesso con manifestazioni peculiari a livello locale. Oggi si ritiene che il Taoismo nasca dalla fusione di due differenti correnti: una di tipo sciamanico, uno sciamanismo cinese autoctono, l’altra proveniente dai culti locali diffusi su tutto il territorio e con differenze da luogo a luogo. Queste due correnti, propagatesi nel tempo su base eminentemente orale, si sarebbero fuse dando vita al fenomeno unitario taoista. In seno a questa realtà, a partire dal I-II secolo d.C. sarebbe emersa una versione istituzionalizzata, il cui fondatore è identificato con Zhang Daoling, prima guida suprema della “chiesa” dei «Maestri celesti» (che i missionari cristiani avevano ribattezzato come «papa taoista»). Con la rivoluzione comunista l’organizzazione religiosa si è spostata a Taiwan, dove tuttora sopravvive. Prima dell’organizzazione dei maestri celesti, il Taoismo non esisteva come religione organizzata, ma era un fenomeno religioso diffuso su tutto il territorio che contemplava culti di vario genere (in cui si coltivavano varie “specializzazioni”: trance, recitazioni mantriche, rituali a sfondo magico o sessuale, ecc.) e viveva di tradizione orale oppure riallacciandosi a differenti opere testuali. Tra il Taoismo dei maestri celesti e la religiosità taoista diffusa c’è sempre stato un dialogo aperto e influenze reciproche, nel senso che la religione dei maestri celesti non esauriva “l’ortodossia” del Taoismo che continuava ad alimentarsi da un fonte e dall’altra. Le forme istituzionalizzate rappresentavano anche forme di governo locale, svolgevano quindi anche funzione amministrativa e politica. Inoltre, nell’ambito di questo ampio fenomeno religioso, si poteva poi distinguere un Taoismo più filosofico, praticato da élite colte e da correnti artistiche che esprimevano la sensibilità taoista in molteplici forme artistiche, prime fra tutte con la pittura di paesaggio, che individua nella natura la principale fonte ispiratrice.
Questa premessa per affermare la complessità del fenomeno, che aveva già subito nel corso dei secoli vari tentativi di contenimento se non di repressione da parte dei regimi imperiali, quando le forme di coltivazione religiosa assumevano connotazioni politiche e diventavano un pericolo per la governance del paese. Ai tentativi di imbrigliamento si rispondeva ritirandosi dall’esposizione pubblica a favore di forme di coltivazione spirituale private e segrete. Quindi, anche la rivoluzione comunista non rappresenta che un ulteriore tentativo di repressione per soffocare i culti taoisti o forme derivate. Specialmente nel momento in cui acquistano popolarità, diffusione e forma istituzionalizzata, come è il recente caso dell’associazione Falun Gong, fenomeno sincretista che associa esercizi fisici tradizionali (qigong) a principi spirituali dedotti dal Taoismo e dal Buddismo. Gli insegnamenti si sono diffusi liberamente in Cina per tutti gli anni ’90 del secolo scorso, anche col plauso governativo, sino a quando la sua crescente popolarità non è stata avvertita come minacciosa; da allora l’associazione ha visto crescere l’ostilità del governo nei propri confronti sino a vere forme di repressione. Per altri versi, facendo ricerche su internet mi sono spesso imbattuto in svariate forme di cultura e coltivazione taoista, per fare un semplice esempio: bambini che recitano a memoria interi capitoli del Dàodéjīng. Dietro una manifestazione pubblica via internet, chissà quante ce ne sono che restano segrete, e alimentano una tradizione che ha sempre visto nell’insegnamento orale il principale canale per perpetuarsi. Certo, quando il governo comunista ha permesso la riapertura di monasteri taoisti molti “monaci” che li amministravano erano probabilmente stati messi lì per promuovere le visite dei templi con finalità turistiche. Ma non è certo lì che si può ritrovare il vero spirito taoista.
Se volessimo isolare due aspetti della pratica taoista, comune peraltro a diverse altre tradizioni, potremmo riferirci al distacco, al rifiuto dell’attaccamento, ossia a quell’atteggiamento che lascia correre le cose, senza pessimismo, senza disperazione, senza identificazione. Questo modo di vivere non rischia di ingenerare nell’adepto una sorta di “menefreghismo”, di freddezza, di cancellare la compassione?
La domanda verte sul distacco e sulla compassione. Teniamoli per il momento separati e parliamo innanzitutto di distacco. Premetto però un’osservazione: io parlo innanzitutto per quello che mi è sembrato di capire nel Dàodéjīng, perché tra le varie correnti taoiste ce ne sono che hanno preso a prestito concetti dal Buddismo fondendoli in forme sincretistiche secondo varie percentuali e prospettive. Tra l’altro, durante il medioevo cinese la forma filosofica prevalente era ciò che in Occidente è chiamato Neoconfucianesimo, termine che sembra mettere l’accento su una riedizione medievale del Confucianesimo classico, mentre è in realtà una forma sincretistica di Confucianesimo Taoismo e Buddhismo, articolato secondo varie prospettive dai filosofi che ne hanno proposto le sue varie forme, il più importante dei quali è Zhu Xi. Se rimaniamo al solo dettato del Dàodéjīng, non si parla direttamente di distacco, di attaccamento, di pessimismo, di identificazione o di compassione, tutti concetti che sono invece di pertinenza del Buddismo (e quindi in definitiva di derivazione “occidentale”, condividendo l’Occidente una matrice concettuale comune con l’India che partecipa con noi di un medesimo piano mentale sostenuto dalla grande famiglia linguistica dell’indoeuropeo). In realtà la Cina, secondo le sue strutture mentali arcaiche autoctone, non è che non li contempli come contenuti, ma li propone secondo prospettive più funzionali, senza identificarli come momenti sostanziali. Prendiamo il distacco: il Dàodéjīng lo contempla inserendolo sotto la veste della coltivazione spirituale inerente alle varie forme di desiderio. Il desiderio, a differenza di molte dottrine indiane e occidentali, non è mai messo sotto accusa, ciò su cui si vuole operare è sugli oggetti del desiderio spuri o illegittimi. Secondo l’ottica del Dàodéjīng, occorre purificare il desiderio da tutti quegli oggetti che falsificano la sua spinta iniziale, per arrivare al desiderio purificato e limpido che può allora esprimere il proprio autentico oggetto che sta a fondamento di tutta la progettualità antropologica: l’unione col Dào. Tutte le svariate forme di oggetti di desiderio non fanno che mascherare questa esigenza di fondo che sta a presupposto dell’umano desiderare: tutti gli uomini desiderano la felicità, ossia l’unione mistica col Dào, solo che non riconoscono questa meta implicita a fondazione del desiderio, e si lasciano fuorviare da forme ingannatrici e illegittime che non riusciranno mai a soddisfare il reale movente del desiderio; ragion per cui gli uomini tendono a cambiare oggetto sperando di trovare quello giusto, ma, non comprendendo che il vero oggetto è inerente e implicito al desiderio nella sua purezza, finiscono inesorabilmente con lo scadere in forme di vita inautentiche. Se vogliamo, il ‘distacco’ va operato non verso il desiderio, ma verso gli oggetti di desiderio: il desiderio è il motore stesso della ricerca spirituale, ma occorre liberarlo da obiettivi dequalificanti l’intento originario. Una volta liberato dagli oggetti inautentici, la ricerca del Dào si rivelerà in tutta la sua cogenza.
Veniamo ora alla compassione, termine non contemplato dal Dàodéjīng e di stretta derivazione buddista. Il Dàodéjīng non lo tratta direttamente, ma indirettamente sì: l’adepto del Dào si fa carico delle zone d’ombra degli altri esseri umani, accoglie in sé le oscurità degli uomini, e sobbarcandosene il peso le riorienta verso il Dào; e, inoltre, acquistando nel contempo potere su di essi. Non è un potere politico, ma una forma carismatica di autorità che, pur restando nell’ombra, a tutti sconosciuta, orienta al bene e al Dào il cuore degli uomini. In questo senso l’adepto del Dào è un buon “salvatore di uomini”, attenua la propria luce alimentandosi delle oscurità degli uomini, purificandone dentro di sé gli aspetti malsani, emendandoli e rielaborandoli interiormente nello spirito del Dào di modo che la propria forza interiore, il Dé (德: virtù, potere personale, mana, carisma) si sprigioni dalla sua persona circolando tra gli uomini e orientandoli alla fruizione del Dào. Questa processualità non è che ciò che chiamiamo ‘compassione’, specialmente quella intesa in termini buddisti, ma l’antica sensibilità taoista, così come si esprime nel Dàodéjīng, preferisce non porre direttamente l’attenzione sulla compassione, ma parlarne come processualità insita alla coltivazione del Dào. Non so se questo orientamento faccia parte dell’atteggiamento di fondo di tutta la mentalità cinese, giacché la si ritrova in molti altri autori a partire da Confucio. Personalmente mi è sembrato che tale atteggiamento sia parte integrante della civiltà cinese, maggiormente orientata alla “funzione” e al non detto piuttosto che alla “sostanza” e alla nominalizzazione, a differenza dell’Occidente che, da Aristotele in poi, ha ragionato eminentemente in termine di sostanza. Oppure se sia una strategia didattica per evitare la fissazione dell’adepto a compiacersi della postura compassionevole senza poi metterne in pratica le istanze.
Mi permetta di indugiare ancora sul distacco. A volte ho l’impressione (ma tengo a dire che sarei felicissimo di sbagliare!) che certe istruzioni di natura spirituale con sensibili ricadute pratiche originino dalle classi dominanti, per le quali è importante che le subalterne non eccepiscano alle loro scelte e che insomma chinino il capo magari anche davanti alle ingiustizie e ai soprusi. D’altro canto nei testi taoisti, a principiare dal Dàodéjīng, ci sono molti riferimenti allo Stato e al suo governo: si tratta solo di un simbolo riferito in realtà all’essere umano oppure si può legittimamente pensare a una doppia implicazione: l’essere umano e lo Stato stricto sensu?
Sebbene ci siano sinologi dell’opinione che il Dàodéjīng sia un testo concepito come arte di governo, a uso e consumo dei governanti, la mia idea è invece che sia un manuale di mistica, dedicato alla coltivazione interiore. Molte parti sono rimate come per agevolarne la memorizzazione e tutto fa pensare a un testo che abbia viaggiato per anni solo in forma orale prima di essere messo per iscritto. Ora, una delle prerogative del pensiero cinese arcaico era quello di individuare un insegnamento universale che funzionasse a tutti i livelli dell’esistenza, una “Via” che fosse l’essenza della Ragione insita in tutte le cose: nella natura, nell’uomo, nella famiglia e in tutte le svariate forme di organizzazione umana. Lo Stato è preso quindi sia come Stato stricto sensu, come massima organizzazione governativa umana, sia come metafora a cui corrisponde il microcosmo uomo con tutte le funzioni corporee, mentali e spirituali che hanno un corrispettivo nella realtà in grande identificata con lo Stato. Se la Via è buona per l’uomo dovrà funzionare bene anche per lo Stato, e sarà vero anche il contrario.
Succede poi che ci si imbatta in insegnamenti che risultano se non altro ambigui, specialmente alla luce della nostra cultura moderna e illuministica. Faccio un esempio che penso possa risultare emblematico. Il Dàodéjīng afferma che il “popolo” deve essere sempre tenuto all’oscuro e non deve essere consapevole di poter desiderare, mentre a “colui che sa” occorre imporgli di non potere agire. Letti in termini letterali sembrano misure repressive operate da un governo miope e autoritario; se tuttavia le interpretiamo come metafora individuale rivolta alla coltivazione spirituale occorre rendersi conto che il mistico medita sulla sostanza vuota della mente, per cui deve sfrondare da sé tutti i pensieri meschini che affiorano alla mente, in quanto istanze che derivano dalle zone basse del corpo (il popolo), delegittimandone le richieste volgari ma lasciandole libere di reintegrarsi entro la propria “natura originaria”. Parimenti, anche le idee che possono venire in mente durante la meditazione non vanno prese in considerazione, occorre stornarle perché si rivelano un ostacolo alla promozione della concentrazione e occorre tornare a meditare il vuoto. In un governo illuminato questo può voler dire tenere il popolo all’oscuro da conoscenze che possono turbarlo e la cui conoscenza può soltanto ostacolarne la soluzione (come può essere un tema di confronto diplomatico tra Stati, che richiede segretezza). Colui che ne fosse al corrente diventerebbe allora un pericolo per la composizione del conflitto se utilizzasse quelle informazioni per destabilizzare il governo dello Stato. Per contro, per un governo autoritario, tutto è lecito pur di soffocare i desideri del popolo, e diventa comune la repressione di tutta l’informazione che vorrebbe essere critica nei confronti dell’operato del governo. I principi sono gli stessi, ma è la motivazione originaria, retta o malvagia, a determinarne gli effetti. Il Dàodéjīng afferma anche che i buoni governanti sono quelli di cui non si sa nemmeno che esistano; ovverosia: il popolo dovrebbe vivere la propria vita liberamente, sobriamente, senza essere limitato da forme di repressione (legittime soltanto nel momento in cui vengano sviluppandosi germi di destabilizzazione). In tempi recenti questa condizione è stata chiamata in causa da intellettuali di Hong Kong secondo cui il governo britannico lasciava vivere la popolazione senza che se ne avvertisse la minima ingerenza; mentre il passaggio alla Cina ha subito determinato fortissime ingerenze nell’amministrazione dello Stato di Hong Kong. Anche qui, cosa considerare “germi di destabilizzazione” dipende dall’interpretazione secondo la finalità del governo, illuminato o autoritario. Quindi se si ha in mente il Dào o il potere fine a se stesso.
Se un occidentale volesse praticare il Taoismo, cosa gli suggerirebbe?
Cercherei di dissuaderlo… Scherzo, ma fra tutte le domande è quella che più mi mette in imbarazzo. Considerato l’atteggiamento intellettuale dell’italiano medio, consiglierei di leggere, rileggere e meditare il Dàodéjīng. Poi gli consiglierei la lettura del Zhuāngzĭ e fonti indirette sulla cultura taoista. In seguito tornerei al Dàodéjīng ma leggendolo alla maniera dei koan giapponesi, ossia lasciando che le mente rimugini sugli aforismi, da una parte a cercare interpretazioni velate, dall’altra lasciando la mente aperta a possibili risposte, senza fissarsi troppo a escogitare interpretazioni (benché anche queste siano importanti). Così l’atteggiamento intellettuale viene lentamente smussato per apprendere un nuovo stile di lettura maggiormente consono alla dimensione sapienziale. Non trascurando di mettere in relazione aforismi di un capitolo con quelli di un altro. Ma anche cercando un filo rosso all’interno dello stesso capitolo, sottostante agli apparenti cambiamenti di passo. Come il testo stesso mette in guardia, il pericolo è che una pratica troppo stringente favorisca stati di confusione mentale. Personalmente posso dire che trovo il testo compatibile con l’atteggiamento cristiano, anzi mi sembra che il testo nel suo complesso possa essere un’ottima presentazione dell’ascesi cristiana. E all’atteggiamento cristiano mi terrei strettamente legato perché il suo afflato e il suo fondamentale personalismo può salvaguardare da uno sprofondare dentro l’inaridimento della dimensione cosmica. Il problema generale, secondo me, è che il Taoismo, come in generale l’antico pensiero cinese, sia espressione di un atteggiamento mistico, rivolto alla comprensione e all’adesione del mistero nel suo senso più alto. La prospettiva mistica, come la intendiamo noi, è ciò che più si avvicina alla mentalità filosofica cinese in generale. Mentre il nostro atteggiamento di fondo è razionale e analitico. Questa è anche la ragione per cui il pensiero cinese non è propriamente considerato una autentica espressione filosofica. Praticare il Taoismo, allora, è più che altro apprendere una prospettiva mentale aperta all’analogia, al linguaggio aforistico, al mistero. Il Cristianesimo può aiutare (e il Cristianesimo potrebbe avere molto da apprendere dall’atteggiamento taoista), perché comporta un atteggiamento teologico a cui il Dào potrebbe non essere così estraneo. Sto pensando all’incipit giovanneo di una recente versione pastorale della Bibbia cattolica tradotta in cinese, dove l’incipit suona come segue: «In principio era il Dào, il Dào era presso Dio, il Dào era Dio».
Soffermiamoci sulla natura del Dàodéjīng e sulla lingua. Mi stupisce non aver mai riscontrato nella letteratura taoista alcun riferimento alla sacralità del testo, come ad esempio avviene per il Corano, nonostante le origini di Lao-tze affondino in un mito che potrebbe agevolare una considerazione del Dàodéjīng quale testo sacro. Insomma, il Dàodéjīng, né altri testi taoisti, sono considerati rivelati. Dipende “soltanto” dalla diversa concezione del divino nell’antica Cina o ci sono altri motivi?
Io credo che dipenda dalla differente concezione del divino. In Cina non si è mai affermata l’idea di un Dio con la D maiuscola, creatore e signore dell’universo; anche se non manca un pantheon ben nutrito di dèi e con una divinità sovrana sopra tutte le svariate forme di esseri divini. Il mondo cinese rappresenta una dimensione culturale “altra” rispetto alla nostra, entro la quale, come ho accennato, annovero anche la civiltà indiana che, appartenendo alla medesima famiglia linguistica, condivide strutture mentali affini alle nostre. Ed è una civiltà “altra” anche rispetto al mondo semitico, col quale invece noi abbiamo una qualche dimestichezza: con quello giudaico, la cui religiosità ci arriva attraverso il Cristianesimo, ma anche con l’Islam col quale abbiamo avuto un serrato dialogo filosofico durante tutto il medioevo. A differenza della nostra civiltà, quella cinese non è mai passata attraverso un umanesimo che ha posto l’uomo come individualità responsabile di sé di fronte a Dio. Non che manchino le forme di umanesimo, perché anzi Confucio può essere considerato uno dei più grandi umanisti, ma è labile il risvolto personalistico che invece è forte in ambito cristiano e segna sia la differenza ontologica tra Dio e uomo, ma anche l’affinità di un essere fatto a immagine e somiglianza di Dio. In Cina è assente questa netta separazione: tra Dio e uomo, tra sacro e profano c’è continuità, sottile e ben nascosta, che esige un’ascesi per coglierla affrontando una complessa gradualità di stati propedeutici l’uno all’altro. Anni fa un filosofo americano, Herbert Fingarette, ha pubblicato un libro su Confucio in cui rivalutava la figura e la filosofia del saggio cinese, e che riportava un sottotitolo emblematico: Il sacro nel secolare (The Secular as Sacred). Il punto messo in evidenza è che la coltivazione spirituale comincia già dalla buona educazione e dal modo appropriato di esprimersi, e che comportarsi bene in società è già un’applicazione del senso della ritualità. Si tratta di una visione che è confuciana in quanto cinese, e appartiene alla deriva culturale della civiltà cinese. Quindi anche per il Taoismo c’è più gradualità che salti qualitativi, e la buona coltivazione prevede un senso di continuità che viene simbolizzato col filo di seta: una coltivazione spirituale che si riqualifica di momento in momento grazie all’atteggiamento accurato verso le piccole cose.
Da qui mi viene un’altra considerazione/domanda. A Suo giudizio la lingua cinese antica può avere una funzione per così dire “numerologica” e sapienziale? Per meglio dire: può essere adoperata, pur tenendo conto della diversa sua natura, come accade ad esempio con l’ebraico e con l’arabo?
Benché non mi sia mai dedicato specificamente all’argomento, credo che la lingua cinese abbia dato vita a impieghi “cabalistici”, basati sulla pronuncia degli ideogrammi. Il fatto è che la lingua cinese comporta tantissimi ideogrammi che, presi singolarmente, sono omofoni, ragion per cui soltanto la scrittura permette di individuarne il significato. Su questa base, una antica “cabala” fonetica deve essere esistita, stimolando di conserva nel corso del tempo la scrittura a inserire elementi grafici diacritici per disambiguare parole altrimenti indistinguibili. Tuttavia non credo abbia mai assunto notevole importanza, o se l’ha avuta l’ha avuta in passati remoti all’interno di aree e cerchie ristrette. Potrebbe però essere vero il contrario, ossia che vada ribaltato il rapporto tra dimensione sapienziale e scrittura, in quanto sembra che la scrittura cinese possa essere considerata filiazione diretta della mentalità religiosa divinatoria e del pensiero simbolico a essa associato (Léon Vandermeersch): i grafismi prodotti su ossa e piastroni di tartaruga, allorché messi a contatto con fonti di calore (la pratica arcaica di divinazione), esigevano un approccio interpretativo per l’esplicazione dei presagi; sarebbero così emersi approcci di ermeneutica formale che avrebbero svolto un ruolo di primo piano nel favorire analoghi principi correlati alla formazione della scrittura. Evolvendosi poi la scapulomanzia nel tipo di divinazione che privilegiava gli steli di achillea sarebbe avvenuto il passaggio finalizzato a determinare schemi grafici atti a interpretare le situazioni di realtà, secondo quel sistema ben articolato che fa capo al Libro dei mutamenti (Yìjīng), con tutti i suoi apparati di indagine, a partire da due semplici linee: una continua e una discontinua (o intera e spezzata). Coi trigrammi ed esagrammi che si possono costruire a partire dalle due linee di base, e le 64 possibili combinazioni di esagrammi (potenzialmente collegati l’uno all’altro) i cinesi disponevano (e dispongono: recentemente è stato fondato a Hong Kong un istituto di ricerca dedicato allo studio dell’Yìjīng) di uno strumento sofisticato per analizzare in termini astratti, e nel contempo analogici, tutti i campi della realtà. Ma come già per la divinazione con la tartaruga, il momento privilegiato resta quello astratto dei grafismi e delle strutture diagrammatiche, sarebbero questi aspetti a fornire il “testo originario”, che il linguaggio scritturale interviene poi a esplicitare e commentare (e da cui a sua volta estrae linfa vitale).
Torniamo per un momento al concetto di vuoto. Come tutti sappiamo ci sono intere biblioteche sull’argomento, ma è difficile concepire il vuoto, almeno per una mente occidentale. Sulla base dei Suoi studi, che cosa si deve o si dovrebbe intendere per vuoto? Possiamo affidarci, ad esempio, al classico di Fritjof Capra Il Tao della fisica, che, tra le altre cose, spiegherebbe il vuoto sulla base della fisica quantistica?
In effetti la fisica contemporanea ha posto in evidenza problemi relativi alla struttura della materia che sembrano poter meglio essere sostenuti entro una visione filosofica orientale rispetto a quella occidentale. In questo senso Il Tao della fisica si è dimostrato fondamentale perché, scritto da un fisico, ha mostrato come le filosofie orientali siano più affini alla visione del mondo contemplata dalla fisica contemporanea che non la filosofia classica occidentale. Per fare un esempio concreto pensiamo al principio di indeterminazione di Heisenberg. Il principio di indeterminazione ci dice che non è possibile misurare contemporaneamente e con estrema esattezza le proprietà che definiscono lo stato di una particella elementare: se potessimo determinare con precisione assoluta la sua posizione, ci troveremmo ad avere massima incertezza sulla sua velocità, e viceversa. Il principio è perfettamente interpretabile alla luce della coppia esserci (yŏu 有) e non-esserci (wú 無). I due termini possono essere considerati e tradotti anche sulla base di ‘determinazione’ e ‘indeterminazione’, oppure di ‘categoriale’ e ‘precategoriale’, ed essendo inseriti in una implicita relazionalità, che non può essere scissa per mettere in evidenza l’uno a detrimento dell’altro, permetterebbe di rendere ragione filosofica al principio di indeterminazione di Heisenberg: per quanto cerchiamo di ottenere la massima determinazione, non possiamo eliminare la dimensione indeterminata, da cui anzi la determinazione procede e che l’indeterminazione rende significativa proprio in base alla correlabilità dei due aspetti.
Un altro possibile esempio è quello relativo al vuoto. Lo spazio siderale era considerato sino a pochi decenni fa come elemento paragonabile a un contenitore entro cui i pianeti, le stelle, le galassie erano contenuti ma che di per sé era qualcosa di inerte, privo di mistero e di ulteriori possibilità di scoperte. Fino a quando non si è iniziato a studiare il vuoto, per scoprire che quando ci si avvicina al vuoto assoluto cominciano a succedere fenomeni “bizzarri”: piccole scariche di energia, persino formazioni di nuovi elementi non presenti nel vuoto iniziale e individuati come “antimateria”. Lo spazio ha cominciato da allora a essere visto come elemento vivo e misterioso e non più come dimensione statica e inerte.
Questa consapevolezza dell’affinità tra fisica contemporanea e filosofie orientali ha un nobile precedente rispetto all’opera di Fritjof Capra. Quando nel 1947 il fisico Niels Bohr ricevette l’ordine cavalleresco danese più importante, l’Ordine dell’Elefante, dovette crearsi un proprio blasone nobiliare. Così nel proprio stemma Niels Bohr decise di riportare il motto «contraria sunt complementa» di contorno alla figura centrale che rappresenta il simbolo del Taiji, massima espressione della filosofia cinese.
Tuttavia, questi accostamenti con la fisica contemporanea rischiano di essere fuorvianti per una reale comprensione del Taoismo. L’indagine sulla fisica appartiene comunque a un atteggiamento epistemologico che, utilizzando le categorie taoiste, appartiene alla sfera della determinazione, quella, per intenderci, dell’esserci (yŏu); mentre la visione taoista è fondamentalmente orientata alla rivalutazione della dimensione del non-esserci (wú). Il Taoismo del Dàodéjīng pone in stretta affinità non-esserci (wú) e vuoto; e, quindi, anche vuoto e dimensione precategoriale. Questo significa che la Via indicata dal Dàodéjīng è molto diversa da quella perpetuata nei secoli dalla filosofia occidentale, tesa a determinare sempre meglio e più chiaramente ogni aspetto della propria indagine. Nel lessico occidentale esiste il verbo ‘determinare’ ma tradizionalmente non esiste il verbo indeterminare, entrato da pochissimo nel lessico filosofico e raramente utilizzato. Questo perché la filosofia occidentale assume la comprensione razionale come conoscenza del determinato. Mentre la filosofia del Dàodéjīng si muove verso un graduale processo di reintegrazione del determinato nell’indeterminato, una sorta di regressus ad uterum in cui i tratti della determinazione vengono sfocati per riportarli entro l’alveo del precategoriale, modalità misteriosofica tesa a “caotizzare la mente” per riportarla allo stato neonatale. Vuoto e precategoriale vengono a coincidere nell’adepto che si muove per rivivere dentro di sé il caos originario, da cui poter accedere a una nuova forma esistenziale, in cui si cerca di permettere alla consapevolezza dell’adulto di partecipare alla dimensione del pre-categoriale. Ne conseguono tutti gli avvertimenti di cui è ricco il Dàodéjīng per mettere sull’avviso l’adepto da una perdita psicologica dell’orientamento, da una caduta in uno stato catatonico. Il vuoto, per il Taoismo, è più simile a uno stato di annebbiamento mentale, per il quale occorre passare, che è tuttavia propedeutico a una nuova visione, potenziata e in armonia col Dào. Nella pittura di paesaggio un elemento sempre presente ed esteticamente rilevante sono le nebbie, luogo di trasformazione e di rigenerazione del paesaggio parimenti allo stato di annebbiamento interiore per la riqualificazione psichica dell’adepto taoista.
Ritiene che il vuoto descritto in Oriente possa avere attinenza con il «nulla sostanziale» di Fredegiso di Tour, un dualista radicale secondo il quale questo vuoto-nulla ha per l’appunto una realtà concreta?
Per quel poco che so di Fredegiso di Tour, e per quel che mi sembra di poter capire, siamo qui in presenza di un doppio problema: uno “mistico” (relativo a ciò che intendono per vuoto le filosofie orientali e se tali concezioni possono essere accostate a ciò che Fredegiso intendeva per ‘nulla’) e uno nominalistico, che ci chiede di capire se dietro i sostantivi che utilizziamo parlando normalmente ci sia sempre una realtà sostanziale a cui il significato del sostantivo rimanda.
Contro Agostino, secondo cui la parola nihil non comporterebbe un significato positivo in quanto non farebbe che rimandare all’assenza di enti, Fredegiso di Tour afferma che la parola nihil ha comunque un significato e avendo un significato comporta anche una propria realtà sostanziale. In realtà già Agostino aveva affermato che, “probabilmente”, col termine ‘nulla’ non si intende tanto una assenza di enti reali quanto uno “stato mentale”. Però occorrerebbe capire meglio a quale tipo di stato mentale Agostino qui pensi, se si tratti soltanto dello stato mentale concomitante alla comprensione logica del concetto di nulla (= assenza di enti) o se lo stato mentale relativo al concetto di nulla possa essere intesa come condizione psicologica espressione di una coltivazione spirituale. Quando Fredegiso parla in termini teologici del ‘nulla’ come fonte da cui Dio ha creato tutte le cose, e mette in guarda dall’intendere tale nulla come informe materia primordiale, potrebbe allora intendere una realtà cosmica e come tale avvicinarsi al concetto di vuoto delle filosofie orientali. Queste, in genere, comportano risvolti cosmici e correlate applicazioni microcosmiche, in quanto il vuoto sarebbe all’origine del mondo, o essere immanente alle cose del modo, ed essere nel contempo anche lo stato mentale da coltivare per “cosmicizzare” l’essere umano che vuole accedere alla conoscenza esoterica. Però non ho una conoscenza della filosofia medievale cristiana tale da poter affermare qualcosa di certo in tal senso. Mi sembra che la filosofia cristiana medievale prosegua lungo il main stream della filosofia classica greca, con l’accentuazione sulle possibilità definitorie del linguaggio e la determinazione delle essenze. Qui ci si dovrebbe invece muovere più su un piano della mistica, e, da questo punto di vista, mi viene in mente un’opera del XIV sec. scritta da un anonimo inglese, intitolata La nube della non-conoscenza (Cloude of Unknowyng) che è a mia conoscenza l’opera spirituale a forte connotazione mistica cristiana che più si avvicina al concetto di vuoto impiegato in ambito taoista.
Che cosa L’ha spinta, senza in apparenza avere motivi di ordine professionale, a tradurre e commentare il Dàodéjīng?
Il Dàodéjīng è un libro che mi è molto caro. L’ho letto per la prima volta intorno ai vent’anni e da allora non l’ho mai abbandonato. È stato per me fonte di innumerevoli riflessioni, col suo stile aforistico mi ha aperto a prospettive sempre nuove, e mi è stato vicino nei momenti più bui della mia esistenza. Ho condotto dei seminari sulla sua filosofia, ho preso appunti nel corso degli anni, meditando di realizzare un’opera che gli rendesse onore, contro la generale indifferenza del mondo accademico. Inizialmente non avevo in mente una traduzione, pensavo più a un commento filosofico. Poi, dopo aver pubblicato per Bompiani gli Analecta di Confucio, ho pensato di accostare finalmente il Dàodéjīng per mettere mano all’opera che avevo in animo da tanti anni. Considerata la buona accoglienza che gli Analecta avevano avuto, Bompiani mi chiese se avevo in cantiere qualche lavoro sulla cultura cinese. Io proposi un commento filosofico al Dàodéjīng, ciò a cui stavo per l’appunto lavorando, ma il solo commento sembrava riduttivo e mi si chiese di farne anche la traduzione. In realtà era la cosa più giusta, perché ogni traduzione di un testo così antico e ricco di possibili ambiguità non può che essere “tendenzioso”: per quanto si cerchi di essere obiettivi, una interpretazione del testo rimane una interpretazione unilaterale, e i miei commenti mal si sarebbero adattati a traduzioni operate secondo differenti sensibilità.
C’è da dire qualcosa a riguardo del linguaggio. Uno dei motivi per cui non ho affrontato prima una tale opera, non parlo tanto della traduzione quanto del commento, era la mia difficoltà a disporre di un linguaggio critico che non tradisse lo spirito della prospettiva cinese e che fosse nel contempo accettabile al lettore occidentale, anche allo studioso di filosofia. Sentivo stridenti i miei tentativi di esposizioni del pensiero cinese: o assumevano un tono arrogante cercando di trasmettere il sapore sapienziale dei testi cinesi, oppure divenivano fredde analisi avulse dall’afflato mistico e sapienziale degli originali. È stato innanzitutto un lavorio di mediazione culturale, a livello mentale, tra le due dimensioni culturali. Non so se o quanto ci sia riuscito, ma il mio è stato comunque un tentativo che si aggiunge a quello di tutti coloro che hanno cercato e che cercano di costruire un ponte tra le due civiltà, un ponte che possa essere attraversato in un senso e nell’altro.
Quale utilità ha o può avere questo testo nel nostro tempo?
In qualche modo nelle risposte precedenti sono contenute varie ragioni per dare maggiore considerazione al Dàodéjīng. Ad esempio, il Cristianesimo potrebbe apprendere molto dal Dàodéjīng per offrire al mondo cinese una pastorale più consona alla mentalità cinese. Il mondo accademico potrebbe attingervi insegnamenti importanti per vivificare il dibattito sulla dimensione dell’essere in generale e per fondare basi più ecumeniche alla consapevolezza interculturale. Poi, mi sembrerebbe importante averne una conoscenza approfondita per comprendere la mentalità cinese e più in particolare gli atteggiamenti strategici a cui attinge la politica cinese. Anni fa era uscito un libro in Cina che portava un titolo emblematico: Con Confucio nella mano destra e Laozi nella mano sinistra! Il Confucianesimo, da alcuni anni ormai già riabilitato (Xi Jinping è stato il primo presidente cinese, dopo l’ultimo imperatore, a fare un “pellegrinaggio” nel paese natale di Confucio dove i suoi discendenti mantengono vive le pratiche rituali del «Maestro di mille generazioni»). Se il Confucianesimo è stato riabilitato come moralità pubblica e modalità etica per presentare al mondo la via cinese alla modernità, il Taoismo rappresenta la modalità celata, la strategia sottostante all’acquisizione del potere e di un ruolo egemone. La virtù del Dào è simile a quella dell’acqua, che penetra ogni interstizio e fluisce inesorabilmente, aggirando gli ostacoli e riempiendo gli alvei per continuare la propria avanzata.
Se non le dispiace, la vorrei trattenere ancora per il tempo necessario a un commento a volo d’uccello sulle versioni e sui commenti del Dàodéjīng, che hanno preceduto i suoi. Inizierei con il “classico” Julius Evola per diritto cronologico.
Singolari sono le operazioni di traduzioni condotte sul Daodejing da Evola, gli si devono due versioni, molto diverse l’una dall’altra, realizzate a distanza di circa 35 anni. La prima fu pubblicata nel 1923 da un Evola poco più che ventenne (era nato nel 1898), lavorando per lo più con materiale di seconda mano ma godendo dell’aiuto di un cinese, un certo He-sing (He Xing?) di cui nulla si è mai saputo. Benché molto diverse negli esiti, le due versioni hanno tuttavia in comune l’intento di “elevare il testo alla forma di concetto“. Evola intendeva, in altre parole, emendare il testo dalle espressioni poetiche e metaforiche, giacché riteneva che la forma simbolica fosse di nocumento alla comprensione filosofica del testo. Era quindi intenzionato a “rettificare” il testo per renderlo accessibile al dibattito filosofico contemporaneo, e a tal fine si ritrovò a ritradurre il testo secondo “categorie che s’impongono per una presentazione nella nostra lingua e nell’attuale cultura europea“. Si parla quindi di operazioni ardite, ma se la prima assume a canovaccio il testo originale per riscrivere creativamente su di esso un’opera del tutto nuova dove fortemente si avverte l’intento di sottolineare il carattere iniziatico, la seconda versione è invece molto più addomesticata sui modelli che nel frattempo Evola aveva avuto modo di studiare. Per fare solo un esempio, l’incipit della prima versione «La Via delle vie non è la via ordinaria», diventa un più riconoscibile «Il Tao che si può nominare non è il Tao eterno». Il merito principale di entrambe, a mio parere, resta l’intento dichiarato di volere andare oltre le forme letterarie del testo per evidenziarne la caratura sapienziale; e benché si possa parlare spesso di sostanziose forzature, l’operazione mantiene la sua validità indicando interpretazioni inedite e inconsuete prospettive di lettura. Tali singolarità risultano inoltre di merito alla luce della opaca genericità che caratterizza tante traduzioni successive (italiane e non). Dal 1997 le due versioni sono pubblicate dalle Edizioni Mediterranee col titolo Tao Tê Ching, precedute da una dotta e impeccabile prefazione di Silvio Vita.
Passiamo a un altro classico, non foss’altro perché pubblicato da Adelphi: il Duyvendak (Tao tê ching. Il Libro della Via e della Virtù).
Direi addirittura che questa versione è tuttora spesso ritenuta la più classica, sull’onda di un successo durato per decenni. Ancora oggi se si chiede a un libraio una buona versione del Dàodéjīng quasi sicuramente si riceverà come proposta la versione del sinologo olandese. Adelphi la pubblicò nel 1973 quindi in pieno vento a favore dell’Oriente e allora era l’unica versione allora abbordabile in italiano (a cui si aggiungeva la versione tascabile edita da Mondadori). Vendette per numerose edizioni. Era anche la prima col testo cinese in appendice ed era, anzi è accompagnata da penetranti brani di commento ai singoli capitoli e da un elenco degli ideogrammi citati nel commento. Ma facciamo attenzione, ché fu un’operazione piuttosto temeraria, e oggi sappiamo erronea. Sulla base di (presunte o reali) incoerenze presenti nel testo, l’autore aveva immaginato che l’edizione arcaica, redatta su listarelle di bambù, si fosse in epoca antica scompaginata e sarebbe così andato perso l’ordine originario; la versione tradizionale sarebbe stata il frutto di un difettoso tentativo di riassemblaggio. L’operazione di Duyvendak consisteva nel ricostruire quello che secondo lui sarebbe dovuto essere l’ordine originario, ricomposto sulla base di criteri che appianassero le incoerenze. A onor del vero nell’edizione Adelphi è riportato sia il testo originario cinese che la versione cinese ricostruita, nonché gli strumenti per capire i vari accomodamenti operati dall’autore. Diventava così un’opera “critica” che poteva godere di crisma accademico. In sé la traduzione è molto godibile, dotata di intelligente penetrazione e indubitabile efficacia: molte espressioni, accattivanti e felicemente provocatorie, sono diventate la fonte di molte citazioni dal testo.
Adesso farei un salto in avanti di qualche anno, ossia ai lavori del suo collega Attilio Andreini per Einaudi (Laozi. Genesi del “Dàodéjīng” e Laozi. Dàodéjīng. Il canone della Via e della Virtù). Peraltro, se non sbaglio, lei e Andreini siete stati entrambi allievi del grande sinologo foscarino Maurizio Scarpari.
Non è esatto. Dopo la laurea in filosofia e un anno come borsista all’Istituto di Lingue di Pechino dove studiavo il cinese, al mio rientro mi iscrissi all’Orientale di Ca’ Foscari. Destino volle che proprio quell’anno il prof. Scarpari fosse in congedo per un anno sabbatico, mentre io al termine di quel primo anno accademico dovetti abbandonare l’Università di Venezia. Non riuscii così a “incrociarlo” e a godere delle sue profonde competenze; anche se il mio rapporto con lui assumeva le forme dello studio di articoli e manuali sulla grammatica del cinese antico che il prof. Scarpari aveva già cominciato a produrre e avrebbe continuato a pubblicare sino all’ultima edizione della Grammatica e del Corso di cinese classico recentemente pubblicati dalla Hoepli. Il prof. Scarpari lo conobbi solo pochi anni fa, in occasione della mostra promossa dalla Presidenza della Repubblica: «Dall’antica alla nuova Via della Seta», presso il Museo d’Arte Orientale (Mao) di Torino, di cui era curatore, e potei finalmente apprezzare di persona le sue grandi conoscenze e la sua alta qualità morale.
Quanto ai lavori di Andreini, ci troviamo tra le mani quanto di meglio la sinologia italiana poteva mettere a disposizione dello studioso del Dàodéjīng. La prima opera, del 2004, è una ricostruzione filologicamente accurata e molto rigorosa del testo originario stabilito collazionando i manoscritti ritrovati negli scavi archeologici degli ultimi decenni (di Mawangdui e Guodian), costituenti i più antichi testimoni dell’opera. L’opera è suddivisa in due parti: la prima dedicata alla traduzione, la seconda ai commenti filologici. La traduzione si avvale letterariamente di un andamento poetico condotto su un tono sobriamente aulico, mosso dall’intento di rispettare la qualità stilistica del testo originario, annoverato, come genere letterario, nella poesia sapienziale taoista. Inutile dire che le numerose varianti presenti nei testi ritrovati, accuratamente armonizzate nella traduzione e meticolosamente evidenziate nelle note di commento della seconda parte, rendono preziosa tutta l’operazione filologica. Il testo è tra l’altro preceduto da una bella introduzione di Maurizio Scarpari che contestualizza dottamente il testo e la sua estrazione filosofica. La seconda versione del Dàodéjīng, pubblicata nel 2018, è invece la traduzione del testo tramandato dalla tradizione, quindi quella conosciuta e studiata dai cinesi nel corso di due millenni. Proprio per questa ragione, ritengo sia più proficuo partire da quest’ultima opera, per approfondirne in un secondo momento le varianti semantiche e lessicali evidenziate nella prima opera più di carattere filologico. Il testo è preceduto da una esauriente e penetrante prefazione dell’autore che introduce ai più importanti temi filosofici affrontati nel Dàodéjīng, le sue possibili prospettive di lettura e i suoi molteplici risvolti tematici. Il linguaggio, perspicuo e appropriato, prosegue l’andamento aulico della prima versione; le scelte lessicali e sintattiche si avvalgono degli esiti della migliore sinologia, doviziosamente documentata nei commenti che accompagnano ciascuna stanza. La versione, pur senza sottostimare la lettura mistico-sapienziale, tende a privilegiare la prospettiva politico-militare. Le due versioni, entrambe accompagnate dal testo cinese, risultano le più scrupolose e grammaticalmente attendibili nell’attuale panorama italiano.
Durante una conversazione telefonica lei mi ha accennato alla versione di Alberto Castellani (La regola celeste di Lao-tse, Sansoni), che, se non ricordo male, giudica una delle migliori anche se abbastanza trascurata dai lettori.
È proprio così. Si tratta della prima traduzione integrale del testo svolta direttamente in italiano da un sinologo di professione, accompagnata da note di commento al termine di ciascun capitolo e da un considerevole apparato in appendice con cui sono affrontati innumerevoli problemi lessicali e sintattici confrontandoli con le soluzioni di sinologi stranieri. La versione di Castellani brilla per autenticità di intendimento ed empatica partecipazione; oltre che per raffinatezza di stile (in prosa arcaicizzante) e nitore di linguaggio che la rendono tuttora una delle più belle. Emerge dal testo una comprensione intima della mentalità cinese e del pensiero taoista. Mi è particolarmente cara perché forse quella più letta in anni giovanili. Certo, ogni tanto ci sono delle oscurità, ma occorre tenere presente gli strumenti filologici allora a disposizione, a cui Castellani sembra sopperire con un’intuizione che penetra in profondità facendo emergere comunque letture significative.
Qualche anno fa mi capitò tra le mani un testo singolare del sinologo Alfredo Cadonna: «Quali parole vi aspettate che aggiunga?». Il commentario al Dàodéjīng di Bai Yuchan, maestro taoista del XIII secolo (Olschki 2001).
La conosco bene. La versione del Dàodéjīng tradotta da Alfredo Cadonna è funzionale al commentario di Bai Yuchan, un maestro taoista del XIII sec. che secondo l’uso cinese ha aggiunto di seguito a ogni verso del testo frasi di commento, e di cui l’edizione italiana rispetta l’ordine. L’opera in sé è quindi orientata al commentario, dove il testo fornisce lo spunto per affondi per lo più enigmatici del maestro che in questa opera di esegesi si avvicina allo stile paradossale dei monaci buddhisti chan/zen. Ma proprio per tale differente prospettiva, rispetto a quelle tradizionali, la versione del Dàodéjīng risulta qui amplificata in modo fecondo dai commenti criptici ed elusivi che fanno anche uso di diagrammi (anche se apparentemente indecifrabili). Non è presente il testo cinese del Dàodéjīng, ma soltanto quello del commentario, in appendice. Da notare il corposo apparato di commento ai contenuti dei capitoli redatte dall’autore, che forniscono una cospicua espansione culturale e filosofica, con interpretazioni aperte anche alla prospettiva comparativistica. Sebbene certi accostamenti comparativistici appaiono talvolta, a mio parere, un po’ forzati, l’edizione è nell’insieme notevolmente pregevole.
Per diversi decenni è circolata anche la versione di Fausto Tommasini per la Utet, Il libro del Tao e della Virtù, compresa nel volume dedicata ai Testi taoisti. Immagino che lei ovviamente conosca anche questa.
Come no! Uscì quando avevo vent’anni e l’assunsi subito come l’edizione canonica e ortodossa del Dàodéjīng, anche per la veste importante con cui si presentava: un grosso volume col titolo dorato Testi taoisti nell’ambito della collana «Classici delle religioni». Il titolo era giustificato dal fatto di presentare, oltre al Dàodéjīng, anche le traduzioni del Zhuangzi e del Liezi, due ulteriori testi fondamentali del Taoismo di cui erano allora l’unica versione disponibile in lingua italiana. Ancor di più, perché il testo del Dàodéjīng era accompagnato dalla traduzione integrale dei due più antichi e rinomati commentari all’opera di Laozi: quello di Wang Bi e quello di Heshang Gong. Tomassini doveva aver presente le traduzioni in lingue europee sino ad allora uscite, e ne trasse una versione sobria, affidabile, e di elegante e gradevole lettura. Senza osare interpretazioni audaci, il testo a mio parere rappresenta una sintesi di pacato buon senso e di onesta coerenza interna.
Io però qui mi fermerei perché non conosco altre versioni del Dàodéjīng.
Invero ce ne sono ancora almeno altre quattro. Se vuole posso spendere qualche parola.
Siamo qui per questo. Poi però ci congediamo. Che ne dice?
Sono d’accordo! (Ride). Per non fare torto a nessuno in questa panoramica procedo in ordine cronologico, iniziando con Il Tao-Te-King (Laterza) uscito nel 1941, di Paolo Sci-yi Siao, uno studioso cinese che realizzò la versione direttamente in italiano, unico caso fra tutte le traduzioni oggi esistenti. Altro fatto notevole è che l’autore cinese fosse in contatto personale con Martin Heidegger, il quale, a detta dell’autore, era parecchio interessato all’opera, tanto che egli racconta di avere ritradotto nel 1946 una decina di capitoli in compagnia del filosofo tedesco. In sé la traduzione non brilla per profondità ermeneutica; lo stile aforistico è chiaro e semplice, ma spesso non è evidente il reale contenuto delle frasi, che scadono in una spenta genericità rendendola semanticamente lacunosa. A discolpa si può forse pensare a una non perfetta padronanza della lingua italiana. Il testo è arricchito da commenti a piè di pagina tratti per lo più da Heshang Gong, uno dei primi commentatori cinesi del Dàodéjīng.
C’è poi il Lao Tzû. Il Libro del Tao di Lin Yutang, pubblicato in traduzione dall’inglese dalla mia attuale casa editrice, la Bompiani, nel 1953 ma originariamente uscito nel 1942 in un grosso volume che raccoglie una consistente selezione di opere classiche cinesi, che vanno dal Dàodéjīng, appunto, al Zhuangzi, agli aforismi di Confucio e di Mozi, attraverso l’Invariabile mezzo e racconti popolari, per continuare con poesie e proverbi sino ad arrivare agli epigrammi di Lu Xun. Un grande panorama di traduzioni che hanno innanzitutto lo scopo di diffondere al grande pubblico un po’ della sapienza e della cultura cinesi, allora (fu pubblicato nel 1942) ancora decisamente poco conosciuti. Lin Yutang era innanzitutto un letterato e la sua traduzione del Dàodéjīng riflette la propensione per l’eleganza letteraria, ma i contenuti denunciano una certa vaghezza e indeterminazione. Lo stile è raffinato, l’andamento formalmente accattivante, a volte con un certo compiacimento per le formule paradossali che, benché ricorrenti nel testo, Lin Yutang sembra moltiplicare, finendo però per dissimulare contenuti altrimenti significativi. Quando uscì nel 1953 per il pubblico italiano doveva rappresentare una bella novità: un frutto raro nel panorama librario dell’epoca sull’Oriente.
Risale invece al 1981 Il Libro della virtù e della via. Il Te-tao-ching secondo il manoscritto di Ma-wang-tui di Lionello Lanciotti (Editoriale Nuova), versione che si avvaleva dei due manoscritti su seta ritrovati nel 1973 nei pressi della località di Mawangdui (prima che fossero rinvenuti quelli di Guodian). La traduzione è condotta sul testo cinese, pubblicato a Shanghai nel 1977, che si basa principalmente sul manoscritto più antico (ca. 206 a.C.), con lacune colmate grazie al secondo manoscritto, che risulterebbe di qualche anno più tardi. La traduzione era già apparsa nel 1978 nel volume «Cina» n° 14 pubblicato dall’Ismeo e ripubblicata nel 1981 con lievi modifiche da Editoriale Nuova. Si tratta di una versione molto sobria, essenziale o sbrigativa (secondo i punti di vista); con poche e frugali note a piè di pagina. Il linguaggio è spoglio, spesso dimesso, come a voler celare la sapienza del testo sotto un velo di ordinarietà, senza concessioni alla ricercatezza o a uno stile più raffinato. Molti i punti opachi o oscuri, d’altronde, come avverte l’autore nella prefazione, si tratta di una traduzione sperimentale e provvisoria. Chiuderei la serie con il più recente Lao Tzu, Tao Te Ching di Augusto Shantena Sabbadini, stampato da Feltrinelli nel 2011. È una versione che presenta, oltre alla traduzione, un ricco apparato di strumenti per addentrarsi nella comprensione dei capitoli. La traduzione dei singoli capitoli è infatti seguita da varianti di traduzione selezionate tra quelle realizzate da altri traduttori e ritenute da Sabbadini le più interessanti. Seguono poi commenti generali al capitolo, che si soffermano su singoli aspetti tematici; sono redatti dall’autore con ampie citazioni di brani da autori cinesi che presentano affinità coi contenuti in questione, oppure con note critiche che approfondiscono aspetti circoscritti. Negli apparati critici molto spazio è destinato, per ciascun capitolo, a una «Analisi del testo» che però sembra promettere più di quanto non riesca a mantenere. L’analisi del testo è infatti concepita secondo una carrellata di tutti gli ideogrammi componenti il testo del capitolo, presentati uno ad uno secondo il loro ricorrere nel testo, illustrati da accezioni tratte dal dizionario, ma in sé piuttosto generiche e che non presentano variazioni al variare del ruolo giocato dall’ideogramma nel singolo contesto: finiscono quindi per giovare poco allo studio complessivo del capitolo. La traduzione è onesta e gradevole: scritta in stile semplice e terso, esprime sempre lucidità di contenuti, e anche se non sempre si può essere d’accordo con le scelte semantiche, risultano di stimolo per ulteriori approfondimenti.
*Il servizio è a cura di Luca Bistolfi