27 Giugno 2024

Bisogna difendersi dall’amore? Su “Blood on the Tracks” di Bob Dylan

Arduo approcciare un gigante della musica di tutti i tempi come Bob Dylan, del resto non è nostra intenzione se non di sfiorare appena, con dei brevi cenni, la sua ampia discografia e la sua leggendaria carriera, per poter poi passare a concentrarci su un singolo album di sua creazione: Blood on the Tracks (una delle sue massime vette di sempre).

Bob Dylan, all’anagrafe Robert Allen Zimmerman, è stato acclamato come un poeta, un profeta, un mistico “rabbino”, un “guru”, un trascinatore spirituale del suo tempo e molto altro ancora. Artista proteiforme e completo, all’età di ottantatré anni, attira ancora a sé una torrenziale e attiva folla di ammiratori che scrive libri, saggi e fanzine ad un ritmo forsennato con ossessivo interesse per la sua carriera, meticciato di folk e rock elettrico, che continua da quarantacinque anni e riflette il modo in cui questo guerriero della strada ha ordito il suo percorso. Insignito, tra gli altri numerosi riconoscimenti, del premio Pulitzer e del premio Nobel per la letteratura “per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della musica americana”, scrittore, poeta, attore (memorabile il suo cameo muto in Pat Garrett e Billy the Kid di Sam Peckinpah, western crepuscolare per il quale firmò anche la splendida colonna sonora), pittore e persino scultore e conduttore radiofonico, ha attraversato mode e linguaggi della musica americana in maniera  mai semplicemente derivativa e senza mai esserne mimeticamente parte, ma anzi modello, guida, fonte di ispirazione e, a volte, perfino di rifiuto.

Sfidante delle convenzioni della musica pop, ha ampliato il suo stile musicale fino a generi come country, blues, gospel, rockabilly, jazz, swing e spiritual.

Fonde folk, country, gospel, soul, cita le ballate liriche inglesi oltre alla musica popolare scozzese ed irlandese. Distilla liriche dal rock’n’roll e fa leva su una voce nasale e baritonale che raccoglie la lezione del blues: un genere che, secondo qualcuno, ha cantato in modo algido, tutto bianco, diametralmente opposto a quello caldo e sofferto dei neri. Gli sono riconosciute la paternità del folk rock, genere che adotta una strumentazione elettrica allontanandosi dalle armonie del folk, quella della psichedelia, nonché l’invenzione dell’album inteso come opera d’arte e non più solo come semplice raccolta di canzoni.

Dopo il secondo album The Freewheelin’ Bob Dylan (1963), con cui si imporrà alle masse come cantautore generazionale di protesta, Dylan si è allontanato dai “talking blues” delle origini per abbracciare il folk rock con l’album della maturità Highway 61 Revisited (1965) e la psichedelia, come confermerà il successivo Blonde on Blonde (1966), primo album doppio della storia del rock. Questo giovane e già rifinito songwriter spiazzava senza appelli sia per la carica incendiaria e mai così complessa e pregnante dei testi, sia per la lunghezza di alcuni brani (celeberrimo è il pezzo Like e Rolling Stone del ’65: più di sei minuti di canzone), per la capacità, infine, di cambiare registro con disarmante facilità. Ovunque ci si aspettasse che fosse o indugiasse, lui non c’era già più: era avanguardia in movimento.

Subito dopo l’uscita di John Weasley Harding (1967), dai toni asciutti e severi, il suo repertorio si è addolcito in modo considerevole abbracciando il country. A conferma di questa nuova fase vi sarà Nashville Skyline (1969), album in cui duetta anche con Johnny Cash (icona della musica country), e che contribuirà a popolarizzare il genere country rock. Più tardi avrebbe pubblicato Blood on the Tracks (1975) ed avrebbe intriso il repertorio di riferimenti Tex-Mex, come evidenziano Pat Garrett (1973) e Desire (1976). Un altro album di notevole spessore è Street Legal, del 1978, sobrio e ritmicamente solido, con le ottime percussioni di Ian Wallace e Bobbye Hall, e uno stile pressoché gospel. La decade degli anni Settanta è forse la più felice per questo autore impareggiabile. Con la conversione dell’artista al cristianesimo evangelico del 1979, invece, Dylan ha pubblicato esclusivamente musica dai connotati religiosi per qualche anno. Molti dicono che gli anni Ottanta siano stati la stagione più opaca per lui, ma vale la pena di citare almeno due album di notevole spessore di quegli anni: Infields (1983) e Oh Mercy (1989). Successivamente, è tornato a pubblicare lavori dal caratteristico stile cantautoriale, citando occasionalmente le sue origini folk e rock. Dagli anni Novanta in avanti ha inanellato una serie ininterrotta di album nuovamente distintivi e ispirati e che sfiorano talvolta il capolavoro, come Love and Theft (2001), Modern Times (2006) e Rough and Rowdy Ways del 2020.

AllMusic lo considera esponente del “folk politico”, della “canzone di protesta” del “contemporary pop/rock” e dell’”AM pop”.

Febbrile, intenso, menestrello irripetibile nel far cozzare linguaggi eterogenei tra loro, abile stratega della caduta e della redenzione, è il gigantesco protagonista di una favola morale.

Dylan è certamente un re Mida della parola (il suo tocco è inconfondibile almeno quanto geniale e poco inquadrabile), della musica e della voce, un avventuriero della performance (quasi sempre tale da stravolgere formalmente l’andamento originario delle canzoni): mai appagato, mai sazio, senza patria, senza casa, perché siamo tutti in viaggio come in un grande romanzo Beat. Dirimente nell’evoluzione della musica popolare, si è imposto con un’identità fortemente autoriale connotata da una modernista e dirompente vena poetica, benché abbia dichiarato: “…le canzoni non sono come la letteratura. Sono state concepite per essere cantate, non lette. Le parole di Shakespeare dovevano essere recitate. Proprio come i testi delle canzoni sono destinati a essere cantati, e non letti.” E sono stati ascoltati e motivo di forti sentimenti di appartenenza da intere generazioni.

Ma veniamo a Blood on the Tracks, album pubblicato nel 1975, con cui raggiunse la prima posizione nella classifica pop di Billboard in Nuova Zelanda e Canada, la seconda in Norvegia, mentre nella corrispondente classifica inglese raggiunse la quarta posizione e la quinta in Olanda.

Le canzoni che compongono questa perla sono state generalmente interpretate da critica e pubblico come cartina tornasole dei tumulti personali che Dylan stava attraversando; in realtà, Dylan stesso dichiarò che erano stati ispirati dalla lettura dei racconti Anton Čechov. Dylan riflette, durante una intervista radiofonica: “Un sacco di persone mi dicono che amano quell’album. È difficile per me capirne il perché. Voglio dire, alle persone piace quel tipo di dolore?”. La risposta è sì, se si è sinceri fino all’autolesionismo, perché chi fissa in faccia il sole ne rimane sempre abbacinato.

In questo album, chiaroscuri di speranza, delusione, gioia, e contrasti cupi, pessimisti, inquietanti, abitano un diario autentico e perfino brutale di anime in pena ad uno dei tanti crocicchi dell’esistenza: viluppo intimo ed ermetico, turbamento senza dissimulazioni, senza infingimenti, test di pungente auto-analisi già dichiarata dal titolo: “Sangue sulle piste”. 

“Un album personale e universale nello stesso tempo, come Yeats o Blake: dove l’autore parlando per sé, rischiando di aprirsi le vene e farsi male, parla per tutti noi”, così Pete Hamill nella sua famosa introduzione presente nell’album stesso alla sua uscita.

Dylan, al tempo aveva trascorso le ultime settimane a scuola da un bizzarro insegnante d’arte, Norman Raeben, che non migliorò la sua scarsa vena di pittore ma gli dischiuse inusitati orizzonti di scrittura: “Ha riunito in me testa, mani e occhi”, confesserà tempo dopo: “in modo da permettermi di fare consciamente ciò che percepivo inconsciamente.” Ciò lo condurrà ad un disegno più fertile del tempo, permettendogli di elaborare la narrazione non in termini inflessibilmente rettilinei, bensì di emulsionare passato, presente e futuro tanto da guadagnare a sé un punto focale più solido e organico circa i temi trattati: “Ieri, oggi e domani convivono nella stessa stanza”.

Ma veniamo alle tracce “insanguinate”. “Aggrovigliato nella tristezza”, il protagonista del brano d’avvio, cerca di rendere fede al proprio sentimento per una donna che continua a incrociare il suo destino negli sprazzi di una vita simile a un lungo viaggio d’esperienze picaresche e avventuriere, e quel tanto da fargli percepire il “refrain” di un amore, concreto almeno quanto umbratile, sulle note oblique dell’esistenza. “Ci incroceremo di nuovo lungo la strada”… È un monito o una promessa? Una donna che l’autore non riesce a smettere d’amare in un eterno ritorno che intercetta solo trasversalmente i gangli di una vita e che macchia con versi ardenti le sue pagine. Tutto sembra sospeso in un’epoca che ha il sapore di un seppia da dagherrotipo, ma potrebbe essere ovunque e in qualsiasi tempo o età.

Nella seconda traccia una scozzata di carte decide ancora, come “un gioco del destino”, un incontro che avrà il suo culmine e la sua deriva. Incontrarsi, qui, equivale a doversi perdere, ma perdersi non è abbastanza da poter decidere e pensare che sia destino. Una flebile eco della voce, combinata con un fa diesis minore, dopo il primo verso di ogni strofa, contribuisce a creare un tono profondamente malinconico. Il protagonista della canzone (Dylan alterna la presenza di questi alla propria soggettiva) “avverte il ticchettio degli orologi” ed è alla ricerca disperata (della donna amata e perduta nel tempo di un battito d’ala della vita) “sul fronte del porto, dove tutti i marinai fanno ritorno”. Perché forse “lei lo sceglierà di nuovo”, ma quanto è dura attendere che si ripresenti, ancora una volta, questo semplice gioco del destino. C’è chi dimentica un ghiribizzo del fato e c’è chi non può fare altrettanto ed è in cerca di una rima con un verso che reca l’enjambement di un anelito di continuità che è forse follia attendersi.

Dylan, nella canzone seguente, sembra ammonire ogni amante con il sangue battente del proprio stesso amore: lei è davvero “una gran ragazza”, ma se proprio vuoi cercarla ancora sai che la troverai sul letto di qualcun altro, tu sotto la pioggia e lei “sulla terra asciutta”; sai che la canterai e che riconoscerai il tuo stesso canto nel cordiale cinguettio di un uccelletto… E il tempo cambia rapidamente, ma ha un senso “cambiare cavallo in mezzo a un fiume”? Che nome dare a un amore che non può più durare, a un amore che porta il nome di ogni più bella cosa ma non si riconoscerà più intero quando sarà il tempo a cambiare nome a tutto? Che senso attribuire a tutto ciò che ci ha condotto ad averla se la perdiamo? Una ballata semplice e sofferta, e pochi versi per congedarsi “con un dolore che si ferma e ricomincia / come un cavatappi puntato sul (proprio) cuore” da quando due destini sono stati sparigliati dalla stessa vita che li aveva uniti.

Dylan, poi, non è nuovo agli “intoppi” della propria celebrità  e, sebbene riservato e schivo, la sua vita è ormai sotto i riflettori e il suo timore di apparire ciò che non è, di dover sacrificare il proprio sangue (beffardamente evocato nel titolo dell’album) sull’altare del successo sfiora in lui la paranoia.

In Idiot Wind, 7.47 minuti di caustica e vivida poesia, lunga ed avvincente canzone sulle spine avvelenate di una relazione alla deriva, così canta:

“Mi sono imbattuto nell’indovina
mi ha detto Attento ai fulmini che possono cadere
Non ho conosciuto pace e calma
per così tanto tempo da non ricordare come sia”.

Nessuna tregua, quindi, da molto tempo, e Dylan è tormentato da chiacchiere mendaci sul suo conto, un “vento idiota” di calunnie, pettegolezzi e persino tratti della sua vita stravolti da una volontà perfida di farla a pezzi e ricomporla come un mostro da laboratorio. C’è una ragazza che continua a vederlo in circostanze inesistenti, a dipingerlo in pose improbabili, ad attribuirgli azioni che non ha compiuto in luoghi che non ha visitato. È proprio un’idiota: è un miracolo che sappia ancora “come respirare”. Se nei pezzi precedenti dominava una dolce nostalgia e il desiderio di un nuovo incontro che cassasse la parola “fine” da quegli intensi ma caduchi legami, qui egli traccia una distanza venata di disprezzo. Ma Dylan sa bene di appartenere, ormai, un po’ a tutti e sempre meno a se stesso.

“Mi farai sentire solo quando te ne andrai”, questo ripete il nostro, nella canzone omonima, colmo d’amore ma conscio che, ancora una volta, esso non può durare almeno quanto valga.

“Tutto è finito in tristezza
tutte le storie sono state pessime.
La mia è stata come quella tra Verlaine e Rimbaud
ma non posso paragonare in alcun modo
quelle scene a questa storia
mi farai sentire solo quando te ne andrai”

perché ciò che oggi è dimora del bello e dell’amore, sarà il vuoto incolmabile di domani; perché questa ragazza dai capelli rossi sa come onorare un amore e dare tutto ciò di cui un uomo ha bisogno, ma non la certezza che così sarà per sempre.

Poi, lontano dallo stilnovismo di Dante, citato (verosimilmente) come grande “poeta italiano del Tredicesimo Secolo” nel primo brano, Dylan raffigura un’immagine vibrante di dolore, un’enciclopedia del sentimento d’amore, incomunicabile o frainteso come in Meet Me in the Morning, blues acustico eseguito con una band al completo:

“Guarda il sole che affonda come una barca
Guarda il sole che affonda come una barca
non è proprio come il mio cuore, babe,
quando baciavi le mie labbra?”

Interrogativo irrisolto, in seguito negato, narrazione afflitta d’un νόστος mai compiuto. Sotteso di ineludibile estraniazione e destino di triste incomprensione. “Dicono che l’ora più scura è appena prima dell’alba”: tragico ed indiscernibile crepuscolo tonale.

Dylan è già riuscito a creare una fucina prismatica di sottigliezze indiscernibili all’ascoltatore occasionale, e continua su questa via. “Il festival era finito”, ancora si chiude il sipario su un amore in Lily, Rosemary and the Jack of Hearts: un racconto in forma di ballata country, in cui Dylan usa solo tre accordi maggiori e circa sedici versi, per una storia ricca e densa, che potrebbe fungere da scenario per una novella o un film. Una magnifica tensione drammatica costruita nel segno di un linguaggio plastico e evocativo, con suggestioni sensuali, destini di morte e un protagonista ambiguo, carismatico e misterioso.

Personaggi senza tempo, svolte evenemenziali avvolte come in una nebbia di parziale nonsenso, e due donne il cui destino è segnato in nome dell’amore. Bisogna amare a metà, difendersi dall’amore? Qual è la via per riuscire ad afferrarlo? Rassegnarsi a perderlo, averne solo un misero tozzo, o andare fino in fondo anche quando è baro e malandrino? Perché esso designa, forse, la sola verità possibile da disvelare a se stessi senza tradirsi e senza tradire, anche quando le carte sono truccate e la mano è perdente.

E ancora avanti: amore reale e che urge, ma anche spettro e derelitta assenza/presenza  entro lo statuto emotivo di cuori che spesso non fanno il paio o vivono vite non più conciliabili. Ma aggiunge Dylan in modo lene, in If You See Her, Say Hello: “Sebbene la nostra separazione mi abbia trafitto il cuore, / lei vive ancora dentro di me, / non ci siamo mai lasciati davvero”, poiché l’amore è sospeso e in attesa, una forma trascendentale con cui si fa esperienza della realtà, con la mistica e messianica impressione che tutti gli orologi abbiano perso la lancetta dei minuti e quella delle ore… anche quando è un solo cuore di due invece che due cuori in uno.

Il fiato di Dylan, ora, è anche il nostro: così vicino, così familiare nella sua rassegnata tristezza, quanto Buckets of Tears. Čechov scrisse:

“Non si dovrebbe mettere un fucile carico sul palco se non sparerà. È sbagliato fare promesse che non si vuole mantenere”.

Non è così anche in amore?

Massimo Triolo e Giusy Capone

Gruppo MAGOG