16 Maggio 2023

“Quando è uscito, volevo bruciare il disco”. Compie 50 anni “Storia di un impiegato”

“È un disco tremendo: il tentativo, clamorosamente fallito, di dare un contenuto ‘politico’ a un impianto musicale, culturale e linguistico assolutamente tradizionale, privo di qualunque sforzo di rinnovamento e di qualunque ripensamento autocritico: la canzone Il bombarolo è un esempio magistrale di insipienza culturale e politica” scrisse il sociologo e critico musicale Simone Dessì poco dopo l’uscita del concept album. Ma ci è andata giù pesante anche Fiorella Gentile che sulle colonne di Ciao 2001 si è espressa con queste parole: “La musica presta il nome a qualcosa che a tratti sembra la colonna sonora di un film sulla mafia (con il sintetizzatore al posto dello scacciapensieri), a volte quella di un thrilling alla Dario Argento (con il basso che riproduce il battito cardiaco), altre recupera i toni alla Cohen e alla Guccini: ma rimane un prodotto scucito, che non ha più il vecchio incanto”. Nemmeno lo stesso l’autore era convinto del lavoro realizzato assieme a Bentivoglio e Piovani in un anno e mezzo tormentatissimo:

“Quando è uscito volevo bruciare il disco. So di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi”.

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Uno dei capolavori assoluti di Fabrizio De André compie 50 anni: era il 1973 quando uscì Storia di un impiegato, un vinile complicato, nebuloso, poeticamente magnetico e assoluto, non capito ai tempi (è stato riabilitato solamente negli anni Novanta) e, come molte fatiche di Faber, di meravigliosa, verticale attualità. Un oggi quindi registrato nel secolo scorso, a ricordarci che i corsi e i ricorsi storici di Gianbattista Vico sono un’ombra che non si scioglie mai al sole: è il cammino dell’umanità che passa dal senso alla fantasia e alla ragione e poi, corrompendosi, ricade in basso, nello stato selvaggio, per riprendere di nuovo il processo ascensivo e iniziare il ricorso della civiltà.

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Ci ha messo dentro tutto il suo credo: politica, contestazioni, amori, personaggi senza voce, disperati e rassegnati, parolacce, potere. Ma mai rabbia. Tra le tracce ritroviamo quel giudice riesumato dalla collina di Spoon River, quello che ha il cuore troppo vicino al buco del culo; quello che ne La canzone del padre diventa oggetto di insulto (“Vostro Onore, sei un figlio di troia…”) da parte dell’impiegato, rassegnato dall’incomunicabilità con la propria metà (“Con mia moglie si discute l’amore/ ci sono distanze, non ci sono paure/ Ma ogni notte lei mi si arrende più tardi/ Vengono uomini, ce n’è uno più magro/ Ha una valigia e due passaporti/ Lei ha gli occhi di una donna che pago”) ma con ancora un barlume di speranza, di orizzonte da raggiungere (“Ora aspettami fuori dal sogno/ Ci vedremo davvero/ Io ricomincio da capo”), ma solo una volta superato l’incubo della quotidianità.

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Ma è in Verranno a chiederti del nostro amore che Fabrizio raggiunge i vertici più assoluti: una vetta che mette in ombra anche La canzone dell’amore perduto. L’impiegato, finito in galera perché ha fatto fuori l’amante della moglie, legge (o ascolta in televisione) le interviste che rilascia (ieri, come oggi e come domani). Parole di libertà, di leggerezza, di accuse, di prese per il culo, per quella notorietà che si lega ai fatti di cronaca nera e che dopo qualche settimana finiscono nel dimenticatoio. De André si schiera alla parte del più debole, quella dell’uomo. Un uomo che personalizza, in una forma di solipsismo, il tradimento e che si misura con l’amante (“…non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole/ le tue labbra così frenate nelle fantasie dell’amore/ dopo l’amore così sicure a rifugiarsi nei ‘sempre’/ nell’ipocrisia dei ‘mai’/ non sono riuscito a cambiarti/ non mi hai cambiato lo sai…”). Un impiegato, che immagina la “civettuolità” della donna (“…tu regalagli un trucco che con me non portavi…”) che ha un obiettivo ben preciso, quello di un posto fisso (“…i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro/ i tuoi occhi assunti da tre anni…”). Nonostante il dolore, l’impiegato Faber pennella una chiusa di rara bellezza e significato, avvicinata solo nella coda di Giugno ’73 (“…poi il resto viene sempre da sé/ I tuoi ‘aiuto’ saranno ancora salvati/ Io mi dico è stato meglio lasciarci/ che non esserci mai incontrati”). Dopo essere finito in gattabuia, dopo aver visto partire la donna con un altro uomo, dopo essere rimasto solo, lui riesce egualmente a cantarle:

“…resterai più semplicemente
dove un attimo vale un altro
senza chiederti come mai
continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai”.

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L’accusa: Verranno a chiederti del nostro amore è un pezzo “troppo” deandreiano, l’impiegato è troppo faberiano e non può pronunciare – per i critici e i criticoni – una chiusura simile perché, come riportano le note nel libretto che accompagna il disco, “impara un altro modo di agire, di pensare, di gestire la propria persona tenendo conto della presenza degli altri, facendosi un tutto con gli altri fino a cambiare l’io col noi, ripetendo la stessa posizione di lotta ma questa volta con la coscienza di appartenere alla stessa classe di sfruttati”. Per Guido Michelone, nell’ellepì

“De André non riesce a non essere De André quando veste i panni del suo protagonista, un antieroe scalcinato o un romantico assai velleitario”.

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Eppure, il tempo ha dato giustizia a questo lavoro da studio, musicalmente forse poco nelle corde classiche del cantautore genovese ma, testualmente, di grande impatto emotivo: il disco è un disco, ma anche un libro di racconti, un film, un viaggio nelle contestazioni sessantottine, un affresco di una società che ha smesso di lottare perché è diventata stanca, pigra, annoiata. E ha rinunciato a osservare: è più facile limitarsi a vedere, con distanza e da distante, i tanti giochi delle parti che accadono, assistere e accettare i silenzi. Una società che, prendendo a prestito le parole di un pezzo meraviglioso e poco frequentato di Francesco Guccini, “…non sceglie, non prende parte, non si sbilancia/, o sceglie a caso per i tiramenti del momento/ curando però sempre di riempirsi la pancia”. Un Addio – questo il titolo del pezzo – “alle commedie tragiche dei sepolcri imbiancati”: meglio, molto meglio, molto più semplice circondarsi di “lampade e tinture degli eterni non invecchiati” e vivere, o meglio, tuffarsi ad occhi chiusi in un “mondo fatto di ruffiani e di puttane a ore”.

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG