La parola “padre” – leit motiv del Festival “Ipercorpo 2018” organizzato a Forlì all’interno dell’Ex ATR, una struttura di archeologia industriale riconvertita sapientemente a luogo “altro” – mi ha sempre affascinato: scomponendola, appare (anche) il vocabolo “preda”. Una figura che sta in sospeso, lieve e ferma, assolutamente “soggettiva” ma soprattutto mutevole come il tempo: da monolite per i figli piccoli, quando invecchia tende a scappare dall’età che avanza, rifugiandosi in escamotage per fermare Kronos. Perché, e questo è il punto: non siamo greci e non siamo antichi, e abbiamo in mano solamente “quel tempo” nella sua dimensione di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore mentre la “tensione ideale e ambita” è tutta rivolta alle altre due divinità, Aion (l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo; è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile) e Kairos (il tempo opportuno, la buona occasione).
“Ipercorpo” mette al centro la figura paterna nella sua assenza poetica: la sublima, rinnegandola, per elevarla a elemento totemistico davanti al quale pregare una litania pagana, forse apocrifa, di certo sincera come un bisogno primordiale.
La testimonianza più limpida ha una durata di mezzora e un nome preciso: “Verso la specie”, il ballo della scuola di movimento ritmico di “Mòra” (dal nome della pausa più piccola, utile a distinguere due suoni) diretto da Claudia Castellucci (Socìetas Raffaello Sanzio) e che pone al centro il gesto.
Privo di ogni orpello scenografico – la sala è nuda e vuota -, lo spettacolo inizia dal foyer: è da lì che un corteo in fila indiana muove i passi verso la scena. Un lungo cordone opaco, composti da “figuri” vestiti di nero e incappucciati che, con passo dondolante, riempiono lo spazio. Una danza che insegue e riproduce l’affiorare consecutivo di immagini mentali lì dove il bisogno di ritualità si concretizza nella figura ricorrente del cerchio, nelle azioni propiziatorie che i gesti riproducono nelle processioni. La partitura musicale campionata produce un effetto di rottura di quel tempo greco che è uno e trino: davanti agli occhi si stagliano ombre antiche, forse suorine di clausura che con grazia e armonia disegnano un linguaggio ancestrale fatto di aste, cerchi e fonemi silenziosi.
Il rigore che attraversa la pièce, quasi una disciplina militare, è uno degli elementi cardine della poetica della Socìetas (ricorda il bellissimo “Cryonic Chants” ospitato anche al Velvet di Rimini tanti anni fa), un segno marcato di riconoscimento: la geometria drammaturgica è, de facto, teatro puro, e dà seguito al percorso in fieri della “Mòra” (rispetto allo spettacolo portato a Cesena a fine 2016 poco è cambiato, quasi che “Verso la specie” fosse in realtà una versione teatrale delle “Variazioni Goldberg” di Glenn Gould). Gli elementi che contraddistinguono la ricerca del “Ballo” ci sono tutti: le tonache nere, la bandiera con una croce al centro che viene girata e piegata, la reiterazione dei movimenti, la consumazione del tempo, il ritmo.
Ma è soprattutto il gesto a farsi racconto. Gli attori combattono, pregano, falciano, si inginocchiano, ri-pregano per poi uscire di scena e replicare lo spettacolo in qualche altro spazio. Perché loro conoscono Aion, a differenza del pubblico.
Alessandro Carli