Raccolgono dei sassi da terra e li scagliano lontano. Contro una donna. I sassi, uno dopo l’altro, colpiscono il suo corpo e, con un tonfo sordo, rimbalzano a terra, sollevando un velo di terra. Si tratta della lapidazione di un’adultera. Lui osserva la scena, mette a fuoco ogni singolo dettaglio, ma è ancora troppo giovane per partecipare al rito. Le lacrime della donna si mescolano alla polvere, alla terra, al suo sangue. Si copre il volto con le mani. Qualcosa di terribile, così brutale, così ancestrale, si sta consumando. Qualcosa di giusto, secondo lui. Siamo nello stadio affollato di Kabul, teatro di crimini efferati e gratuiti.
Vent’anni fa, lui è il giovane Farhad Bitani (oggi 32 anni), ex capitano dell’esercito afgano, figlio di un importante generale. Il racconto a voce è avvincente, tiene in pugno gli sguardi e i cuori della platea, affollata. Nessuno di noi, svogliati figli dell’occidente, sa ritrovare, dentro di sé, il vago ricordo di una lapidazione. La lapidazione dell’adultera – continua il racconto – avveniva sotto gli sguardi strazianti dei suoi innocenti pargoli. Bitani era un ragazzino. Mentre racconta la sua vita, Farhad Bitani non ha cedimenti. La sua voce non trema, in nessun punto. “Pensa, mentre noi da bambini guardavamo i film della Disney, lui giocava con un kalashnikov russo” mi suggerisce Roberta, al suo fianco in questa presentazione. Lei è Roberta Colombo, autrice e direttrice artistica di una scuola di teatro a Varese, STCV, dopo aver letto L’ultimo lenzuolo bianco. L’inferno e il cuore dell’Afghanistan, il libro autobiografico di Bitani, ha osato trasformarlo in un’opera teatrale. Lei, un’infedele. Per giunta, una donna. Ripenso alle parole di Bitani: “quando sono arrivato a Roma la prima volta, ho pensato: quanti infedeli. Da uccidere”. Non è la moderna e retorica versione di un’antica favola persiana. “Sono tante, forse troppe, le cose che ho visto nei miei primi ventisette anni di vita. Adesso le racconto. Lascio le armi per impugnare la penna. Traccio i fatti senza addolcirli, senza velarli. Dopo aver vissuto l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza nell’ipocrisia, ho un tremendo bisogno di verità”.
Ma da che parte si trova la verità? “Con i talebani ho assistito a stupri, decapitazioni. Con i mujaheddin, famiglie potenti come la mia si sono spartite gli aiuti umanitari che giungevano da ogni parte del mondo ed erano destinati ai più poveri. Ho assistito alla lapidazione di due donne. Non ho mai provato sensi di colpa. Ma le grida di quella madre e delle sue figlie obbligate ad assistere alla sua esecuzione non le dimenticherò mai”. Questo libro si quindi è trasformato in un’opera teatrale, che qualche settimana fa è stato presentato al Meeting di Rimini. Il filo rosso nel percorso di questo libro, da oriente a occidente, mi sfugge. Afghanistan. Una donna di Kabul, la coraggiosa e saggia Manà, racconta la storia di suo figlio, diventando protagonista di questo viaggio insieme al giovane Farhad, l’amico Seyar, e gli altri personaggi che prendono vita dai ricordi evocati: dall’Afghanistan all’Italia, dalla famiglia e gli amici di infanzia. Ai nuovi incontri destinati a cambiare per sempre la vita di questo giovane ragazzo afghano. Ma, senza scomodare la filosofia, è possibile diventare altro da ciò che si è? Cerco il famoso punto bianco. Ripercorro con Roberta Colombo le fasi dell’opera di trasformazione del libro in uno spettacolo di teatro. Non hai mai avuto paura? “Quando per la prima volta ho parlato della mia idea di portare questa storia a teatro, qualcuno mi ha detto ‘lascia perdere, sono argomenti che scottano oggi. Non cercarti problemi’. Un po’ di paura forse c’era, ma la convinzione non è mai mancata. Di terrorismo e di fondamentalismo islamico ne erano (e sono) pieni i giornali e le tv. Era l’estate dell’attentato sulla Rambla, figuriamoci. Ma ci sono cose che senti di voler fare e basta, viene naturale, cose che diventano una necessità. E quando qualcosa è una necessità, soprattutto in questo campo, la strada forse è quella giusta. Anche durante la produzione dello spettacolo, c’è stato qualcuno che era titubante e ha cercato di depistarmi, insinuarmi dubbi e timori, ma non sono bastati. La voglia di portare questa storia sul palco era più forte”.
È possibile pensare ad una redenzione da tutto questo male? “Io credo che sia possibile cambiare, consci del fatto che non sia un percorso facile. È possibile evolvere e crescere e in questo ‘viaggio’, se si incontrano le persone con cui confrontarsi e capire meglio se stessi, una speranza c’è. Leggendo la storia di Farhad, di male se ne sente tanto, troppo forse da capire, fino in fondo, per chi ha vissuto una vita ‘normale’, e mi metto nel mazzo. Eppure il messaggio che lascia è talmente positivo che ti fa venire voglia di fare qualcosa per cambiare il mondo”.
Cambiare il mondo? Che cosa può insegnare alla nostra civiltà un cambiamento di vita così radicale? “Sicuramente insegna che senza confrontarsi e conoscere chi è diverso da noi non si andrà molto lontano. Le cose che si possono imparare da una cultura diversa dalla nostra sono infinite e preziosissime. Una persona che riesce a stravolgere la sua vita per ricercare la verità e se stesso è un esempio di vita impagabile. Si capisce quanto può fare la differenza nel mondo anche una sola persona”.
Sei proprio sicura che esista davvero questo punto bianco nel cuore di ogni uomo? “Penso che esista in tutti, ma che non tutti lo usino. È qualcosa di scomodo, se vogliamo. Ci mette di fronte al fatto che tra il bene e il male si può scegliere. Non sempre è facile, ma si può. Ci fa capire che abbiamo una responsabilità. Sta un po’ ad ognuno scegliere se nutrirlo o meno, scegliere le persone giuste che possono farlo crescere. È un po’ come l’amore, no? Che se lo scegli poi devi averne cura. Nel bene e nel male. Ma forse parliamo della stessa cosa”.
Linda Terziroli