La volta scorsa abbiamo lasciato il lettore a metà del guado e ci siamo, con lui, lungamente riposati dalla cavalcata. Ora possiamo ripigliare con rinnovata forza il dialogo con Vincenzo Cicero.
Addentriamoci ancora nella tua filosofia. In Essere e analogia, che possiamo – correggimi se sbaglio – considerare il tuo testo filosofico principe, dichiari in maniera categorica che no, la filosofia non è finita, al contrario di ciò che non pochi tuoi colleghi sostengono. Vuoi riassumere per noi questa posizione?
Sì, hai detto bene: Essere e analogia è il mio scritto filosofico fondamentale, dove per la prima volta ho esposto in maniera sistematica quel fondamento speculativo “nuovo” di cui parlavo in precedenza, e che mi si era schiarito all’improvviso mentre passeggiavo in un pomeriggio assolato di fine estate 1997 per le strade di Reggio Emilia.
Nei quindici anni successivi la mia preoccupazione filosofica maggiore – al di qua e al di là degli scritti e delle traduzioni, del lavoro editoriale e degli insegnamenti all’università (c’ero approdato infine nel 2002, rocambolescamente, grazie al munifico Pietro Emanuele) e di tutte le altre attività che occasionalmente promuovevo su scala locale (teatro, organizzazione di eventi sportivi, giornalismo, catechesi in parrocchia, politica) – fu di mettere alla prova quel principio, di cercare di demolirne la fondatezza e l’originalità, in un confronto plurimo con i filosofemi ontologici più sottili e potenti. Solo dopo questo processo di ricerca “interna” dei frastagli aporetici estremi, moderatamente soddisfatto del grado di perspicuità raggiunto dalle mie riflessioni, decisi di raccontarne pubblicamente i risultati nel 2012, appunto in Essere e analogia. Con la presunzione, neanche troppo coperta, di prospettare un’angolatura ontologica innovativa.
E se parlo di ontologia, è perché il principio speculativo in questione ha a che fare con l’essere, il tema infinito della filosofia. Questo fondamento “nuovo” non è ovviamente l’essere, ma ciò che rende possibile pensarlo: l’inquanto – una neografia con cui mi riallaccio all’uso che ne facevano p.es. Tommaso d’Aquino e Duns Scoto nell’espressione ens inquantum ens. L’essere può venir detto e pensato inquanto altro (assoluto, divino, creaturale, vivente, inorganico ecc.) oppure inquanto essere, e in tutti i casi è indispensabile l’inquanto. Tale indispensabilità ne fa allora la “forma” trascendentale prioritaria, da cui procedono tutti gli altri trascendentali (p.es. le strutture kantiane, i noemata husserliani), e quindi, insieme, la condizione incondizionata di percettibilità, immaginabilità, dicibilità e pensabilità di ogni cosa. L’inquanto, che al e nel pensare speculativo si mostra in una sintassi analogica caratteristica e irriducibile (l’analogon dell’inquanto inquanto inquanto = iii), costituisce così il limite oltre il quale l’umano, da sé, non può procedere in alcun senso che non sia ipotetico; in questo contesto, la morte appare figura “inquantica” eminente.
Il mio testo principe – ti sono grato per come lo hai chiamato – è l’ingresso dell’inquanto nei palazzi regali della filosofia.
Vengo dunque alla domanda. Il mio punto di vista relativo al non esser finita della filosofia sorge di fatto in replica allo scritto di Heidegger del 1964 sulla fine della filosofia e il compito del pensare. Lì vengono sciorinate una serie di equazioni enunciative, che voglio tentare di compendiare: la filosofia è metafisica; la metafisica è platonismo; con la posizione di Nietzsche come platonismo rovesciato la filosofia è giunta alla sua fine, ossia si è dissolta nelle scienze basate sulla tecnica; l’unica possibilità rimasta al pensare non più filosofico è volgersi verso il luco, di cui la filosofia non sa nulla, per un altro inizio pensativo.
Questa è per me una narrazione pseudospeculativa, mistificante. Alla quale ribatto – per intima convinzione ed esperienza, non certo per mero spirito contrappositivo – con l’enunciato «la filosofia non è finita». Non è giunta alla fine (prima accezione dell’enunciato) perché il suo fine – la sofia – è sempre di là da essa, già lo insegnava Socrate; è l’esito di un’attività – il filosofare – strutturalmente non-finita, infinita (seconda accezione), perché intramontabilmente infinito si annuncia da sempre il suo tema centrale: l’essere inquanto tale. E la non-finitezza/infinitezza della filosofia ha la sua mallevadoria ultima nel limite incondizionato dell’inquanto.
Sei direttore della collana «Psyche ed Eros» di Morcelliana. Vorrei passarne in rassegna qualche titolo, iniziando da Un ricordo infantile di Leonardo da Vinci. Inizio chiedendoti due cose: primo, perché Freud lo riteneva il suo lavoro più bello?
A Lou Andreas-Salomé, in una lettera del febbraio 1919, Freud scriveva perentoriamente: «Il Leonardo è l’unica cosa bella che io abbia mai scritto». Non aggiungeva altro. Sulla motivazione sostanziale di questo giudizio si possono perciò fare soltanto congetture. Il saggio era stato composto nove anni prima in un’atmosfera febbrile, ossessiva, e a riconoscerne la bellezza, capace di condurre «a sfere superiori della conoscenza», era stato innanzitutto – pensa – Carl Gustav Jung (in una lettera dell’agosto 1910).
Credo che il giudizio freudiano intersecasse consciamente due regioni: a) la più prossima, abitata dalla bellezza raffinata e poliedrica della scrittura, con la sua elaborata architettura concettuale, la ben congegnata struttura compositiva, la felicità narrativa e la fluidità elegante della prosa (quest’ultima è in realtà la caratteristica della maggior parte dei testi freudiani); e b) la regione ascendente, le cui frange lambiscono la soglia da dove la bellezza inquanto tale, sporgendo, si irradia nel Leonardo tra miti egizi tremendamente attraenti e i misteriosi cromatismi leonardeschi, così che sulle armonie dello scritto aleggia anche la grazia della libertà intellettuale di spinoziana memoria.
Se la mia ipotesi è plausibile, allora non posso che concordare con la valutazione di Freud. In nessun’altra sua opera come in questo «romanzo psicoanalitico» l’intreccio a incasso delle due regioni è così stretto e icastico. Per di più, la profonda passionalità personale messa qui in gioco da Freud mi ha coinvolto al punto che considero il testo in appendice al volume, Da un sogno infantile di Sigmund Freud, uno dei miei scritti più belli.
Una sorpresa – almeno per me – è stato il freudiano Compendio di psicoanalisi che di fatto è l’ultima parola di Freud sulla disciplina. Prima di conoscere te, io ero rimasto all’Introduzione alla psicoanalisi e credo, con me, parecchie altre persone. Vuoi sottolineare la nostra ignoranza spiegandoci per cortesia come sta la faccenda?
L’Introduzione alla psicoanalisi è un capolavoro indiscusso di sintesi divulgativa. Le istruzioni per l’uso sono semplici: basta avere contezza della distanza – teorica, non solo temporale – tra le due sezioni del testo, dopo di che il grosso tomo può esser letto agevolmente e godibilmente anche da chi finallora non ha mai avuto contatti con gli scritti freudiani.
La prima parte è didattica in senso tecnico, perché frutto degli ultimi due corsi di lezione tenuti da Freud all’università di Vienna in qualità di professore straordinario negli anni accademici 1915/16 e 1916/17; ha per contenuto gli ambiti tematici che in meno di un ventennio avevano dato alla psicoanalisi il ruolo di protagonista sulla scena culturale occidentale (il sogno, gli atti mancati, la sessualità infantile, la teoria delle nevrosi), oltre ad alcuni altri concetti importanti che venivano messi a punto in quel torno di anni, come il narcisismo. La seconda parte apparve nel 1933 col titolo Nuova serie di lezioni di introduzione alla psicoanalisi, e, benché rivolta a un pubblico fittizio (da dieci anni il cancro alla mascella aveva drasticamente ridotto le capacità allocutive di Freud), mantiene il piglio e soprattutto lo stile colloquiale delle esposizioni accademiche in presenza; vi viene recepita la svolta teorica del 1920-22, con la nuova dottrina delle tre istanze dell’apparato psichico (io, es, super-io), e poi le pulsioni originarie di ascendenza empedoclea (amore e morte) e una inedita prospettiva sulla femminilità, nonché disquisizioni su problematiche pedagogiche, religiose e politiche.
Insomma, per chi vuole accostarsi a Freud tramite un inquadramento generale chiaro e pressoché completo del suo “sistema” teorico, l’Introduzione è insostituibile. Per chi invece si fosse già fatto un’idea (e un’esperienza) personale delle scoperte della psicoanalisi dalla lettura diretta degli scritti freudiani e dalla pratica analitica, lo strumento migliore e decisamente unico è senz’altro il Compendio, redatto con invidiabile lucidità dall’ottantaduenne Freud nel 1938. È il suo testamento dottrinale, che reca testimonianza anche delle ultimissime acquisizioni teoriche, come la scissione dell’io e il suo legame con il principio di realtà e con il feticismo. Lo consiglio come guida preliminare ideale a chi volesse apprestarsi a una rilettura sistematica degli scritti freudiani.
In questa collana, a occhio, c’è più Freud di Jung: è una casualità oppure un segnale?
Assolutamente casuale! Nel cantiere di «Psyche ed Eros», per dirti, ci sono attualmente più ritraduzioni di Jung che di Freud. Però è vero che tradurre Jung risulta in genere più complicato e che le versioni dei suoi scritti comportano maggior impegno e tempo, e la ragione è secondo me nella spiccata versatilità della sua scrittura. C’è molta varietà stilistica, non di rado anche all’interno del medesimo scritto, tra p.es. Tipi psicologici (1921), Paracelso (1934), Aion (1950) e Un mito moderno (1958); per non parlare del Libro rosso, autentico crogiuolo di stili (pure grafici), risalenti in prevalenza al secondo decennio del secolo scorso. Rispetto a questa deflagrante multiformità, i testi di Freud appaiono fortemente omogenei – oltre che in generale più eleganti.
Personalmente, qui come altrove, non appartengo a nessuna fazione, e non mi piacciono i derby, a nessun livello. Voglio dire che amo molto entrambi, per motivi diversi, Freud e Jung. Da loro sono venuti alcuni capolavori assoluti della cultura novecentesca: basti citare l’Interpretazione dei sogni, a mio avviso il miglior trattato di ermeneutica applicata, e Risposta a Giobbe, una sfida straordinariamente ardita quanto teologicamente feconda alla concezione ebraico-cristiana del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
A proposito del Libro rosso di Jung, tu ne hai curata una singolare versione. Vuoi spiegare ai lettori della nostra rivista perché dovrebbero scegliere anche la tua versione e non solo quella originale?
L’esemplare originale del Libro rosso è un grosso volume in folio con rilegatura in pelle rossa, calligrafato per 182 pagine, il cui materiale letterario e grafico è stato redatto da Jung tra il 1913 e il 1930 (ma soprattutto nel periodo 1913-1917). La sua pubblicazione è però avvenuta solo nel 2009, a quasi cinquant’anni dalla morte dello psichiatra svizzero, in una confezione raffinata nella quale il manoscritto, miniato in caratteri gotici e illustrato, è stato riprodotto in scala 1:1; seguono poi in caratteri romani una trentina di pagine introduttive di Sonu Shamdasani, quindi la trascrizione dei testi (altre 150 pagine circa).
Scusami se mi sono dilungato su questa descrizione esteriore, ma credo da sola faccia intendere come un volume del genere sia insostituibile. Ecco perché la tua domanda è ben formulata: si tratta di capire perché, assodata l’indispensabilità dell’edizione calligrafica del 2009 (tradotta in italiano da Bollati Boringhieri nel 2010), ci si dovrebbe procurare anche la mia “versione”.
Leggere il Libro rosso di Jung è un eccellente compendio originale – è la mia prima risposta. Non un riassunto, bensì una sintesi ricreativa dei tanti momenti poietico-speculativi e stilistici del manoscritto junghiano, in cui tutte le frasi dell’originale riportate alla lettera sono state sistematicamente ritradotte, e che soprattutto sposta grammaticalmente il soggetto del «viaggio all’altro polo di Dio» (lo sprofondamento entro sé), cioè Io-Jung, dalla prima alla terza persona, riorientando l’intera narrazione.
Leggere contiene tutte le illustrazioni dipinte, non esclusi i capilettera figurati o istoriati, le cornici, i bordi e altri ornamenti del volume calligrafico – è la seconda risposta. Le illustrazioni, in particolare, alcune delle quali di somma qualità artistica, non sono mere raffigurazioni accessorie o esornative, ma nel loro complesso rappresentano una vera e propria co-narrazione, complementare a quella scritta e contenente aspetti inediti.
Non credi che sarebbe insensato disgiungere editorialmente il versante letterario da quello grafico? Eppure è ciò che ha fatto la Bollati Boringhieri con la posteriore edizione studio del 2012, rinunciando a qualsiasi elemento grafico. Ho la presunzione di affermare che Leggere sopravanza quest’ultima pubblicazione sia per le novità narratologiche, la sobria introduzione e l’agile glossario finale, sia soprattutto perché reca con sé l’irrinunciabile corredo iconico, concepito da Jung come coespressione delle essenziali esperienze della propria discesa agli inferi e della riemersione fino alla bellezza della sofferenza cristica.
Da dove è nata l’idea di una collana di psicoanalisi?
Senza le ottime vendite di Leggere, è probabile che questa idea non si sarebbe mai attuata. Il volume era stato fortemente voluto da Ilario Bertoletti, allora come oggi direttore di Morcelliana/Scholé. Lo aveva dapprima incuriosito il mio lavoro a fini didattici sul testo tedesco del Libro rosso, e poi era rimasto – come mi disse – impressionato dal dattiloscritto con illustrazioni che nell’estate 2016 mi aveva chiesto di inviargli per email. Il libro uscì in dicembre, e i riscontri commerciali positivi mi incoraggiarono a proporgli un progetto che mi frullava in testa da un paio d’anni: tradurre e far tradurre i capolavori della psico-analisi (non solo freudiana e junghiana) secondo il modello editoriale che avevo appreso alla scuola di Giovanni Reale, cioè sistematicamente con il testo originale a fronte e con utili apparati lessicografici; mentre la motivazione teorica consiste nell’esigenza – da me molto sentita, ma alla quale i miei prevalenti interessi cristologici lasciano poco spazio – di ricostruire genealogicamente i primi vent’anni del movimento psico-analitico a partire dalle relazioni passional-intellettuali fra le tre straordinarie personalità protagoniste: Freud, Jung, Spielrein.
Bertoletti accettò subito, e lanciò l’idea di una sezione della collana “Orso blu” che ospitasse i classici del pensiero psico-analitico. Gli sarebbe piaciuto vedere inaugurata la serie dal Compendio freudiano, ma si è potuto accontentarlo solo diversi anni dopo: la sezione «Psyche ed Eros» fece invece il suo esordio ufficiale nel marzo del 2018 con il testo chiave della metapsicologia di Freud, Al di là del principio di piacere.
È una “collana” che, con i sei titoli fin qui pubblicati, mostra una sua schietta personalità editoriale, unica nel panorama italiano e internazionale – Freud e Jung in traduzioni la cui fedeltà «senza miglioramenti né abbellimenti» è immediatamente riscontrabile e valutabile nel raffronto con il tedesco a fianco. Spero si incrementi più a lungo possibile, almeno fino a includere i due Meisterwerke che sai.
Traduci, scrivi, commenti, insegni all’università, fai teatro, sei in politica, hai una famiglia numerosa, ti intrattieni a lungo al telefono con amici, studenti, colleghi, editori. E ti riesce tutto benissimo, non hai proprio l’allure dell’improvvisato. Adesso, ti prego, confessa: hai due o tre fratelli gemelli. Oppure dicci dove hai nascosta l’astronave. Altrimenti non si spiega.
E invece la spiegazione è semplice: Pina. Non c’è attività – sedentaria o dinamica, solitaria o collettiva, creativa o burocratica – che io abbia potuto svolgere senza la presenza diretta, foss’anche soltanto silenziosa, di lei. Stiamo insieme dal 1985, e il nostro matrimonio dura da 35 anni. E se in me è qualche talento, lei ha anche quello di agevolarne il venire alla luce e il dispiegarsi, esonerandomi puntualmente dalle incombenze spicciole della quotidianità e dalle ritualità sociali, e assecondando i miei ritmi lavorativi, non di rado sovrumani – benché sempre preoccupata e vigile, fino ai vent’anni di Claudia, che non intaccassero seriamente il mio ruolo di papà. Insegnante dal 1995 di discipline psicopedagogiche in corsi professionalizzanti nel Messinese, amministratrice generale degli affari famigliari (nel significato parentale più ampio), nonché esecutrice materiale di tutti i lavori di manutenzione e riparazione domestica (idraulica, elettrica, mobilio, appendistica varia), Pina è sempre stata custode infaticabile e discreta della mia solitarietà durante gli studi filosofici, le stesure entusiastiche, le bulimie traduttorie, la multioperatività editoriale. Quanto poi alla sfera pubblica dei momenti collettivi (teatro, sport, giornalismo, eventi culturali in genere, ministero laico del lettorato), lei mi ha consentito di esercitare la mia solare tendenza alla leadership sobbarcandosi ogni volta le incombenze logistiche, spesso occupandosi in prima persona del “rancio per l’intera truppa”.
Con una fuoriserie così – è lei la vera extraterrestre – sarebbe stato difficile non riuscire bene… anche se, per pudico rispetto del senso delle proporzioni, va precisato che queste occasioni collettive hanno vigore solo su scala molto locale (Rometta Marea, al massimo Messina città), imparagonabile alla portata degli effetti pubblici delle occupazioni solitarie.
Quando perciò sostieni carinamente che mi «riesce tutto benissimo», l’espressione va sottoposta a limitazione in base a due circostanze: a) l’appena citata differenza di scala; b) in politica, cioè nella mia attività militante locale, le cose mi sono sempre riuscite male. Negli ultimi 25 anni la “mia” coalizione civica non ha mai vinto le elezioni amministrative, e, quando mi sono candidato direttamente al consiglio comunale (era il 2014), ho avuto il piacere di venire eletto in assemblea, sì, ma in una minoranza sgangherata, che in un paio d’anni s’è dissolta come grandine al sole. Evidentemente, non porto fortuna ai miei sodali, né ho talento “politico” (mi manca quel diabolico mix di astuzia, intrigo, malignità e spietatezza) – e anche se ne avessi un po’, verrebbe sommerso dal mio carattere troppo focoso, scarsissimamente diplomatico. Ma sono pure testardo, e difatti continuo a fare progetti per la Rometta futura e a tentare di attuarli insieme alle poche individualità affidabili della mia piccola polis; mentre per le scale politiche maggiori mi sforzo – probabilmente mi illudo – di incidere attraverso la poliedricità delle mie azioni formative, istituzionali e no.
Non ci sono dunque gemelli né cloni. Ammetto però che senza l’aiuto di mio fratello Fabio non avrei mai potuto firmare la curatela di due volumi a cui sono particolarmente legato: Pillole rosse. Matrix e la filosofia (Bompiani 2006) e Hitchcock e la filosofia (Scholé 2022), due esperimenti di “traduzione in collettivo dall’inglese” compiuti con studenti che hanno a loro tempo frequentato i miei corsi sulla trilogia di Matrix e su Marnie di Hitchcock. Fabio insegna l’inglese a scuola e lo parla fluentemente (inoltre conosce bene la lingua tedesca e la parla molto meglio di me), e ha di suo pubblicato per Bompiani traduzioni di Winckelmann, Coleridge e Kerényi, oltre ad aver curato un’edizione del Paradiso perduto di Milton. È stato lui il supervisore massimo dei due progetti citati, e solo per una questione di concessione di contributi accademici è dovuto apparire in copertina il mio nome al posto del suo. Specialmente la sua funzione demiurgica nella lavorazione dello Hitchcock è stata una manna celeste, dato che nel frattempo la mia famiglia è divenuta più “numerosa”.
Da otto anni, infatti, il ménage in casa è stato del tutto rivoltato, come il 6 gennaio la calza della befana, dall’entrata in scena non pianificata di Anthony, il flagello delle notti insonni. Ma poter fare finalmente il papà a tempo (quasi) pieno è un’impagabile matrice di ulteriore senso esistenziale.
Hai più sopra (molto più sopra) citato Il pensiero debole. Io, per l’anniversario della morte di Vattimo (19 Settembre) ho pubblicato su questa rivista una cronaca e alcune considerazioni sul debolismo, senza – ovviamente – suscitare alcun effetto, ciò che peraltro ha dimostrato, posto che ce ne fosse bisogno, esattamente ciò che ho scritto a chiare lettere nel mio contributo.
Scusa se mi sono permesso di toglierti due righe di spazio, ma era mio dovere e piacere ricordare il fatterello, anche per tirarti la volata (è niente, dopo esserti diventato scrivano).Ora, dicci cosa pensi del debolismo.
Lo faccio volentieri, perché lo ritengo ancora oggi degno di grande considerazione speculativa. Uno dei tratti più notevoli del pensiero debole consiste, secondo me, nell’aver mutuato la denominazione dal proprio progetto filosofico: ha inteso infatti elaborare una nuova concettualità a partire dal dato ontoastenico, cioè dall’indebolimento che la nozione metafisica di “essere” aveva subìto attraverso le severe critiche di Nietzsche e Heidegger. L’ipotesi rovattimiana si è autobattezzata debole non certo perché propugnante la carenza di nerbo teoretico in filosofia, ma in quanto il suo tema centrale è la debolezza dell’essere, e di rimbalzo la correlata crisi del soggetto metafisico. Il suo scopo è la preparazione energica, tutt’altro che remissiva o flebile, di un’ontologia debole, capace proprio per questo di opporsi nella prassi sociale, culturale e politica a ogni potere coercitivo di ascendenza metafisica.
Penso per esempio alla posizione di Rovatti, secondo cui il pensiero debole deve avere il coraggio di scombinare l’intangibilità dei giochi di potere, assumendosi la fatica di convivere in presa diretta con le pratiche specifiche degli umani in carne e ossa; coraggio e fatica comportano una forza considerevole, altro che astenia! E condivido appieno questo appello a “contaminare” socraticamente il filosofare nello «scenario multiculturale e conflittuale» in cui viviamo. Anche politicamente, per quanto possa apparire ingenuo o velleitario, è un punto di vista non molto distante dal mio.
Ti confesso però che è soprattutto la declinazione astenica dell’“ultimo” Vattimo a catturare la mia attenzione cristologica. Come è stato mostrato in dettaglio e persuasivamente da Francesco Tomatis lo scorso settembre nel convegno di Torino in onore del filosofo, agli inizi degli anni Novanta Vattimo ha compreso che la sua ontologia debole risulta fecondamente in rapporto con lo stesso messaggio cristiano dell’incarnazione del logos divino come kenosis, come svuotamento e indebolimento fino alla morte di croce – un concetto teologico capace di disinnescare la violenza di ogni tradizionale concezione assolutistica (metafisica!) del divino. È allora in questa ottica che Vattimo è riuscito a spiegare finemente come la debolezza del pensare significhi essere capaci di ascolto, quindi di interpretazione, e voglia dire perciò autenticità esistenziale, libertà personale, etica della non violenza. Avendo così lui stesso precisato infine che il suo pensiero debole è «un farsi povero con i poveri e aprirsi a un “pensiero dei deboli”», sono convinto che questa pietas meriti il più alto rispetto cristiano e filosofico.
Parlando dal mero punto di vista della fecondità, credo che si riesca a spremere più da Il pensiero debole o dalla Fine della modernità (Vattimo, Garzanti 1985), che non da quei pensatori che, mi pare, stanno ancora a giro perché molto telegenici o sponsorizzati da qualche potente club oppure perché citarli “fa figo”. Se uno ripete Cacciari o Severino, con quelle acrobazie che finiscono nel nulla, passa per un sapiente; se invece cita Vattimo, al massimo per uno di sinistra o un gay-friendly.
La mia formazione filosofica deve molto agli scritti di Severino e di Cacciari, per cui non sottoscriverò i tuoi giudizi su di loro. Per me, e in ciò sto in compagnia di parecchi pensatori, La struttura originaria severiniana è un’opera imprescindibile della filosofia italiana; e, nei miei primi anni Novanta, Dell’inizio di Cacciari fu una lettura esaltante, a cominciare dal suo recupero al sommo livello speculativo della Filosofia della rivelazione di Schelling. Sono molto critico nei confronti di alcuni loro filosofemi essenziali, come si può vedere in Sapienza muta (§§ 7-9), ma ciò rientra nella normale collocuzione filosofica. Posso inoltre aggiungere che in entrambi lo scarto tra l’oralità e la scrittura è assai pronunciato (ma questo si può dirlo anche a proposito di me), e chi ha avuto l’opportunità di ascoltarli parlare di cose filosofiche potrà facilmente concordare sul fascino teoretico del loro eloquio – mentre gli scritti, non hai del tutto torto, contengono talvolta delle parti non indispensabilmente impervie.
Ora, anche Vattimo, perlomeno fino al Parkinson, è stato un affabulatore affascinante, ma in più aveva in dote – come detto prima – una prosa agile e chiara. Senza abbozzare neanche alla lontana un confronto tra i “massimi sistemi” delle tre personalità, anche perché sento che non ti convincerei a mutare parere sulle prime due, chiuderò questa risposta alla tua provocazione rilanciando le parole di poco fa: che io abbia citato Vattimo anche per l’abissale serietà cristologica della sua ontologia debole, ti lascia capire perché, nonostante lui sia stato poco incisivo sulla mia formazione, non potrò mai ritenerlo meno decisivo di Severino e Cacciari per il pensiero filosofico italiano odierno e futuro.
Infine, alla tua parentesi sull’inopportunità delle classifiche filosofiche: anche Heidegger l’ha dichiarata, ed è sacrosanta solo se si ha in mente il modello della classifica di un torneo di calcio o di una corsa ippica. Altrimenti, come protesti giustamente, il pensiero di Nicola Cusano varrebbe quanto quello di Francesco Patrizi o di Giorgio Trapezunzio – e la filosofia perderebbe la trebisonda.
Te la senti di dare un giudizio almeno sommario sulla filosofia italiana contemporanea?
Sì, ma sarò ingeneroso, per due motivi: a) per parzialità palese, in quanto menzionerò solo chi appartiene alla tradizione teoretica entro la quale mi sono formato e che riconosco come filosofare perenne; b) per la discreta ignoranza, solo fino a un certo punto giustificata, delle fisionomie filosofiche delle nuove generazioni.
La tradizione di pensiero che ho abbracciato scientemente fin dal tempo degli studi universitari era incarnata a Messina da Filippo Bartolone, il quale aveva chiamato la propria teoresi ontologia della libertà, secondo un’indagine speculativa indipendente da – ma comunque convergente con – quella omonima di Luigi Pareyson. Il loro territorio comune di ricerca è andato dissodandosi tramite l’elaborazione del filosofema della libertà come risposta paradigmatica alla questione perenne del senso dell’essere. Non si tratta dell’elucubrazione astratta intorno a un mero complesso di nozioni: è la libertà nella sua essenziale dimensione reale a venire pensata qui come il senso dell’essere per eccellenza, da cui dipende la comprensione (non solo filosofica) di ogni altro senso possibile.
Quando parlo dunque di filosofia, in generale e in particolare, mi riferisco principalmente alla fatica di meditare su questo nucleo tematico tradizionale e al correlato travaglio di concretizzarlo nel quotidiano fare e non fare, disfare e misfare. E in ciò è già contenuto il mio pre-giudizio sommario su quella che riguardo come filosofia italiana contemporanea, perché in essa ritrovo, al di là delle differenze magari radicali nei presupposti e nelle formulazioni, il medesimo afflato del cuore intemerato di Parmenide e della parresia di Foucault – della luce umana gloriosa di Severino, del coraggio di pensare di Cacciari e del farsi povero coi poveri di Vattimo (ch’è stato allievo di Pareyson). Riconosco allora tracce rilevanti e originali di una tale ispirazione anche nel filosofare dei grandi vecchi Virgilio Melchiorre, Carlo Sini e Vincenzo Vitiello, nell’ontologia relazionale di Piero Coda e nell’alpimistica di Francesco Tomatis (pure lui allievo di Pareyson, uno degli ultimi).
Dopo di che, con diversi indirizzi e posizioni di pensiero, che secondo me orbitano a varia distanza attorno a questo corpo tradizionale, è comunque necessario confrontarsi per raccoglierne le continue sollecitazioni epistemiche – il tutto nella prospettiva di una epistemologia generale, di cui non si può negare ci sia oggi un autentico bisogno filosofico.
So che tieni molto al tuo rapporto con Filippo Bartolone (1919-1988), che fu il tuo grande maestro. Vistoché non è un nome molto noto, perché non ce ne spieghi qualcosa?
Al tempo dei miei vent’anni, là dove le altre docenze messinesi facevano ordinaria didattica in discipline filosofiche, Bartolone pensava a voce. Sulla carta l’insegnamento era filosofia morale, ma di fatto si assisteva puntualmente all’incarnarsi del puro verbo teoretico e al suo drammatico partorirsi sotto forma di potente sollecitazione etica. Le sue lezioni costituivano dei momenti unici, sia per la straordinaria forza dei pensieri espressi, capaci di sollevare montagne, sia per il biascichio e gli spasmi a cui lui era costretto per via dei muscoli facciali semiparalizzati dalla distrofia; quando ti sintonizzavi con quelle modulazioni sofferte della voce, ti rendevi conto di ciò che nessuno scritto filosofico ha mai potuto né mai potrà offrire.
La sua scarsa notorietà è dovuta in buona parte all’immobilità coatta patita dalla metà degli anni Settanta in avanti, che gli impedì di viaggiare e di partecipare a convegni fuori Messina, e all’anchilosi delle mani, da cui dipese il rarefarsi – fino ad azzerarsi – delle pubblicazioni, peraltro presso editori locali a diffusione assai ridotta. Nel 1999 Giovanni Reale, riconoscendone la statura di pensatore robusto e originale, fece ripubblicare da Vita e Pensiero e a mia cura il capolavoro Socrate (prima edizione: 1959). E a quel primo tentativo di sottrazione all’oblio dell’ontologia della libertà di Bartolone hanno fatto séguito altri importanti passi divulgativi, che sono culminati nel 2019 con l’edizione del volume in due tomi Ontologia e liberazione. Opere edite in vita (1948-1978), curato da Anna Gensabella, Francesco Franco e me per Morcelliana/Scholé.
I suoi scritti sono caratterizzati da un periodare che, inseguendo le dense torsioni dei pensieri, tende ad attorcigliarsi su se stesso, e molti passaggi abbisognano così di venire letti e riletti più volte. Ma la stoffa teoretica è di grande qualità, e il riverbero delle epifanie speculative che sperimentavamo nell’aula di filosofia morale lascia intendere che la pubblicazione delle trascrizioni dei corsi renderebbe più accessibile, e non meno rigorosa, la sua prosa. Si recupererebbero così, tra le altre, le sue meditazioni sulle lezioni di filosofia della religione di Hegel, da cui emergeva cristallina la vocazione teologica del suo pensare – e che, per la immane penetrazione del testo hegeliano, così tanto influirono allora sulla mia riconversione al cattolicesimo e ancora oggi sul progetto di una nuova cristologia filosofica.
Insieme a Franco, Gensabella e altre personalità legate alla figura magistrale di Filippo Bartolone stiamo lavorando all’edizione di altri volumi di suoi scritti, editi e inediti. Ma il sogno resta appunto la pubblicazione dei corsi, e, finché le bobine non si smagnetizzeranno, la speranza non verrà meno.
Tu sei un cattolico di sinistra ma sei intelligente, spiritoso e colto: allora è vero che hai qualche gemello nascosto!
Ah ah!! È senz’altro vero che ho un generale atteggiamento positivo, ottimistico verso le persone, il mondo e il futuro. Però, una volta a contatto con i particolari, l’ottimismo può rimodularsi e trascolorare in amara indifferenza, ben a prescindere dall’“orientamento politico”. Voglio dire: anche se tu non sei di sinistra, le nostre tante e lunghe telefonate – interrotte dalla peste Anthony – testimoniano di un’intesa multilaterale a più livelli; come mi capita con esponenti di Libera di don Ciotti e della Comunità di Sant’Egidio, per esempio. Però ammetto che le minori amarezze le riscontro a sinistra, con cattolici e non.
Battute penose a parte: come si spiega che una persona con le tue inclinazioni politiche e spirituali si rivolga soprattutto ad autori conservatori? E, ti prego, non mi citare la lettura da sinistra di Hegel altrimenti l’intervista finisce qui.
Potrei rispondere che, anche se così fosse, sarei in buona compagnia – alla dogana della sinistra non è forse stato soprattutto Cacciari a svincolare la merce Carl Schmitt? La risposta autentica ha però due versanti. Il primo è l’appariscenza: ho tradotto e scritto molto di Hegel e di Heidegger, ma, a parte il cuore di allievo che batte tuttora per il cattolicesimo progressista bartoloniano, alcune mie forti “passioni” per pensatori tutt’altro che conservatori non sono affiorate debitamente solo per motivi esteriori, più per penuria di occasioni pubbliche che altro. Su Duns Scoto, uno dei filosofi-teologi più rivoluzionari del medioevo, uscirà finalmente tra qualche mese un mio breve scritto. Quanto al sublime Pavel Florenskij, non vedo l’ora di occuparmene nel séguito di Sapienza muta (Sapienza folle, che dovrebbe uscire entro il 2026). Considero il monaco russo il sommo filosofo del Novecento, insieme a Walter Benjamin, al quale ho potuto fin qui rendere omaggio soltanto con la premessa gnoseocritica – densa, tra i miei migliori pezzi – all’edizione critica Bompiani dell’Opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, peraltro egregiamente tradotta da “Lucianissimus” Tripepi e dall’highlander Salvaccio Cariati. Se nel 1993 Giovanni Reale mi avesse proposto di editare il Kunstwerk benjaminiano invece di tradurre la Phänomenologie di Hegel, magari adesso mi avresti fatto tutt’altra intervista – o forse nessuna.
Il secondo versante è la critica speculativa, che è radicale sia verso Hegel sia verso Heidegger. Sono entrambi pensatori assolutamente imprescindibili, ma ai miei occhi risultano tali specie per le loro aporie macroscopiche (macrocosmiche, mi verrebbe quasi da dire), le quali vanno affrontate di petto proprio nella speranza che in futuro non vengano più riproposte, in nessun’altra forma. Hegel è il sicario del liberticidio di Dio; Schelling (che gli preferisco di gran lunga) ha trascorso gli ultimi quarant’anni della sua vita a escogitare ed elaborare la soluzione di questa colossale aporia hegeliana (ne tratto da ultimo in Sapienza muta, §§ 5 e 9). Heidegger è il dilapidatore del patrimonio teoretico all’avanguardia che aveva accumulato negli anni Venti tra le università di Marburgo e Friburgo, depositandolo parzialmente in Essere e tempo e mettendolo a frutto nel seminario sul Parmenide di Platone; dopo di che, per ragioni che restano ancora inesplicate, ha messo in piedi un carrozzone ipermetafisico le cui ruote si muovono in obbedienza a una controfigura del Dio cristiano – a quell’Ereignis la cui intera epopea, protratta per decine di volumi postumi ossessivi, non regge davanti ai pochi enunciati di Benjamin sull’aura.
Ho notato che nonostante la tua appartenenza a quest’area culturale nomini poco, anche nelle conversazioni private, Marx & C. È casuale, una precisa presa di distanza, un disinteresse oppure, da cattolico di sinistra, dai per sottinteso che Marx sia come Dio: è sempre presente e sottinteso?
In parte è casuale. Ma devo anche dire che, dopo il precisarsi della mia critica al formalismo necessitaristico di Hegel (seconda metà anni Novanta), ho cominciato a guardare alle opere marxiane (i Manoscritti del 1844e quelli del 1857-59, L’ideologia tedesca, il Manifesto e il primo volume del Capitale) con occhio diverso da quello infatuato dell’Enzo tardo- e postadolescente: nella centralità ontologica della determinazione formale (Formbestimmung) che le attraversa ho riconosciuto più nitidamente la longa umbra hegeliana, e spero un giorno di poterne trattare in maniera adeguata. Esse rimangono tuttavia opere essenziali, tanto più se vogliamo – e non possiamo non volere – comprendere il marxismo nella sua globalità, fino ai suoi ultimi esponenti come Alain Badiou, che stimo e a cui ho dedicato un saggio, e il vulcanico Slavoj Žižek, di cui seguo più le analisi filmiche che la ripassata lacaniana. Se avessi trent’anni, troverei figo lavorare a un’edizione tedesco-italiana di Das Kapital. Buch I.
Luca Bistolfi
(fine)
*In copertina: Pegaso e Bellerofonte secondo Max Klinger