16 Marzo 2024

Sia lode a Piero Martinetti, il filosofo che preferiva parlare con il proprio asino piuttosto che con i “colleghi”

Sarà ben difficile, che anche un lettore forte, richiesto di elencare i filosofi significativi del secolo scorso, evochi il nome di Piero Martinetti (1872-1943), scomparso o quasi dagli orizzonti dell’augusta disciplina già da vivo. Anni fa ascoltai orripilato la conferenza d’un pallone gonfiato, e della letteratura, e delle filosofia, entrambe occupate abusivamente, tenuto per il culmine paradigmatico dell’erudizione e dell’intelligenza, richiamarsi all’autorità del consensus gentium per sapere chi e che cosa siano meritevoli di ascolto, e chi invece debba restare in anticamera o addirittura fuori casa. Il gaglioffo parlava ovviamente pro domo sua e delle sue camarille, e al fine di sottolineare il sottinteso: chi è come noi ha il diritto di cittadinanza: chi no, è fuori, scarto immeritevole della storia per acclamazione popolare, storia che poi son quelli come me. Peraltro una svergognata ruffianata verso il solito “popolo”.

Il camorrista era pure un esperto di comunicazione, ma si prese ben guardia dallo specificare ai boccaloni pendenti dalle sue ciarliere labbra, che quel consensus è per lo più coartato attraverso plurimi e non sempre corretti mezzi. Coi capuvastuni che vuoi ragionare? Ma tali figure non sono noduli solo dei tempi nostri miserabili e proprio il caso di Martinetti lo confessa.

A osteggiare e boicottare il filosofo, il fascismo arrivò ben ultimo e invero per certi versi nemmeno arrivò, e ciò nonostante le boiate di qualche odierna servetta. Ben più e ben prima, e con maggiore efficacia, ci pensavano altri in vario modo a tentare la liquidazione di Martinetti dal consesso filosofico italiano. Oltre a Giovanni Gentile, che lo definì filosofo di «nessunissima importanza», c’era anche il galantuomo liberale Benedetto Croce. Accanto a loro si schierarono i neotomisti capeggiati da Agostino Gemelli – il criminale francescano che sostenne e introdusse in Italia la vivisezione, e una vivisezione d’una crudeltà satanica – e la Chiesa in generale, ora ignorandolo, ora arruolando nell’Indice dei libri proibiti i suoi lavori; e insomma tutte le teste d’uovo insofferenti, e alla forza, e alla profondità martinettiane e a una eccentricità che lo collocava al di fuori delle correnti filosofiche e religiose ufficiali, consacrate e alla moda. Gente che non si poteva soffrire riuscì a trovarsi sulla stessa sponda antimartinettiana.

A dimostrazione del trattamento demente e camorristico riservato a Martinetti anche in epoca di così detta libertà quale sarebbe la nostra, si sappia l’esclusione dei lavori dedicati a Spinoza dall’«Introduzione di Cristina Santinelli al volume Spinoza in Italia. Bibliografia degli scritti italiani su Spinoza dal 1675 al 1982» (Argalia 1984), come ci avvisa Amedeo Vigorelli nel saggio premesso alla Religione di Spinoza di Martinetti (Ghibli 2002). Vigorelli annota anche il «diverso accento» dato nella presentazione del martinettiano Spinoza. Esposizione (Bibliopolis 1987) da tal Franco Alessio, accento «non di commiserazione e di rammarico… bensì di esaltazione e di rivendicazione, per Martinetti, di una diversa e in certo senso più “nobile” ascendenza spirituale», cioè a dire per la collocazione martinettiana più nel solco interpretativo tedesco di fine Settecento, che non in quello italiano, con cui avrebbe poco in comune. Giustamente Vigorelli però specifica che Martinetti non affonda nell’humus degli studi italiani solo se con essi «assumiamo quelli di ascendenza neohegeliana e spaventiana, rivendicata negli stessi anni da Giovanni Gentile, con scoperta accentuazione “nazionalistica”».

Ulteriori colpe poi davvero imperdonabili, furono di essersi opposto alla Prima guerra mondiale e soprattutto di non aver sottoscritto né il manifesto di Croce, né quello di Gentile.

Martinetti infatti percorreva, pressoché solitario, soprattutto una direttrice di spiccato dualismo religioso, consapevolmente ignorando psicoanalisi e idealismo, marxismo e positivismo, esistenzialismo e nietzscheanesimo, e ahimè anche la scienza. Una scelta in nome anche di quella Libertà, che dà il titolo all’opera uscita due anni dopo, 1928, il disastroso iv Congresso Nazionale di Filosofia, organizzato dalla Società Filosofica Italiana per il marzo 1926 a Milano e presieduto dallo stesso Martinetti, mai giunto al termine a causa di tali maneschi disordini da costringere l’intervento della questura, che infatti lo chiuse. L’episodio giunse sino agli orecchi di Roma, tanto fu tumultuoso e pesante.

Fu una trappola apparecchiata a tavolino da tutte le fazioni filosofiche, ma soprattutto da Agostino Gemelli, per osteggiare Martinetti, colpevole non solo d’aver tenuto fuori dal novero dei relatori il frate, ma altrettanto per l’invito, accettato, a Ernesto Buonaiuti, il sacerdote romano scomunicato in ragione della sua difesa del modernismo, alla sua volta condannato, anno Domini 1907, dalla celebre enciclica di Pio x Pascendi Dominici gregis. (Per avere un’idea sommaria della forza e dei contenuti del pensiero martinettiano in quell’occasione, ci si legga il discorso inaugurale sulla «Funzione sociale e religiosa della filosofia», nei Saggi filosofici e religiosi, Bottega d’Erasmo 1972).

La presenza di Buonaiuti non era appoggio implicito al modernismo, quanto espressa provocazione a Gemelli, che Martinetti disprezzava come uomo e filosofo, e grande stima per lo studioso autore di notevoli monografie su autori e temi cari a Martinetti, ad esempio lo gnosticismo, e opposizione a una Chiesa traditrice secondo il filosofo del messaggio evangelico: quest’ultimo dato emerge perspicuo, accanto alle innumeri e importanti notizie e riflessioni, dal Gesù Cristo e il cristianesimo, voluminosa e brillante opera uscita nel 1934 e immediatamente annessa all’Indice e che soltanto oggi trova, per i tipi di Morcelliana, meritatissima ripubblicazione in edizione finalmente critica, preceduta da un’istruttiva introduzione di Giovanni Filoramo.

Martinetti guarda alla storia quale eterno terreno di scontro tra le due “classiche” potenze della gnosi antica, tenebre e luce, di che quella del cristianesimo, vasto particolare nel generale, ne evidenzia urto e portata.

Gesù non è quanto insegnato con ignoranza e tradimento da una proditoria e spuria consuetudine orba di spirito (qualunque cosa voglia dire la parola, che faceva andare ai matti Leopardi); ma un filosofo in che si incarna l’eterna e universale legge morale.

Nell’opera Martinetti traccia un vasto itinerario storico-filosofico-religioso, semplice ma densissimo: dal culmine della “ragione religiosa” incarnata da Gesù, il cristianesimo è progressivamente decaduto a istituzione dogmatica oppressiva e antispirituale: vicenda tuttavia costellata qua e là di figure di eccellenza, comunemente considerate eretiche, ma capaci invece di tener fermi il rigore e la sincerità di una fede razionale, esempio per tutti anche sotto il rispetto pratico.

Non avrà tardato il lettore da questi pochi cenni a scorgere in filigrana le figure, oltreché di Spinoza, di Schopenhauer e Kant, triade tutelare nel dominio strettamente filosofico e pratico, a giudizio di Martinetti mai disgiunto dal religioso, anzi essendo essi due volti del medesimo conio. A proposito di Kant, ho sempre trovato interessanti le parole dedicategli dal filosofo italiano, e non a caso alla fine del quinto capitolo dedicato alla «Tradizione cristiana»; sicché chiudo il becco e lascio parlare Martinetti:

«Kant non è un mistico, se per misticismo intendiamo la pretesa di conoscere o descrivere il trascendente: pretesa per la quale Kant in ogni occasione giustamente dimostra il suo più grande disprezzo. Ma è un mistico nel vero e più alto senso in quanto pone al di là della sfera del conoscere una realtà inaccessibile che è come il silenzio impenetrabile degli gnostici: realtà che noi afferriamo soltanto in simboli e traduciamo in noi per mezzo dell’attività morale (…). Ma in mezzo a questa tenebra noi abbiamo, secondo Kant, un punto luminoso: che è la conoscenza del nostro essere come operante moralmente. Qui, e soltanto qui, discende un raggio della realtà divina: questo è il punto che dobbiamo chiarire a noi medesimi, non tanto per estendere il nostro sapere (che è cosa impossibile), quanto per guidarci nella vita in modo da avvicinarci a questa realtà divina per quanto a noi è possibile».

E ancora:

«La realtà sensibile mi è rappresentata dall’intelletto come un meccanismo cieco: ma essa non è che la parvenza della vera realtà, la quale può tralucere qualche momento nella visione estetica, ma né in questa né in alcun’altra forma non può mai essere resa presente».

Martinetti fu anche, e credo di non sbagliare, il primo in Italia a trattare diffusamente di Sebastian Franck e di Meister Eckhart (di quest’ultimo non solo nel Gesù Cristo), considerate tra le più eminenti figure della tradizione cristiana.

Per onestà verso i lettori, debbo dire la mia distanza per molti versi da Martinetti, e ciò senza diffondermi a spiegarne i motivi, onde non infliggere parole qui inutili. Ma volentieri parlo di Martinetti nel nome della vera filosofia, che con estrema onestà e competenza egli cercò di fare seguendo sempre e soltanto la sua ragione con quella coerenza che nei più è solo imbecillità razionalistica ma in Martinetti ha il volto dell’incrollabile certezza d’un luminoso mondo metafisico, i cui barbagli si riflettono per brevi momenti quaggiù attraverso il transito di rare figure.

A proposito di «ragione», Martinetti chiede di far precedere la lettura del Gesù Cristo e il cristianesimo dal saggio su Ragione e fede: è disponibile anch’esso in nuova edizione presso Morcelliana.

* * *

Ora mi si lasci lo spazio per rilevare e forse rivelare un aspetto non solo del filosofo ma anche dell’uomo Martinetti, foriero d’ammirazione.

In un’epoca di soverchia trascuratezza e maltrattamento a ogni livello degli animali, Martinetti sa cogliere l’essenza comune di queste creature con la nostra, ossia la loro dignità e la loro sensibilità. E tra le pagine più alate del filosofo, non meno filosofiche delle più complesse, ci sono per l’appunto quelle dedicate alle creature non umane. Talune si soffermano a descrivere anche il suo stato d’animo alla morte d’una gattina domestica, come leggiamo in Pietà verso gli animali. Di recente si sono rese disponibili in un breve ma denso mazzetto di pagine anche alcune conferenze dedicate alla Psiche degli animali, che un editore ha definito «il primo saggio animalista del Novecento», con ciò rendendo un pessimo servizio all’autore, viste certe uscite dei così detti animalisti, per il solito non molto istruiti. È una lettura salutare e intelligente, molto all’avanguardia e assai insolita nell’andamento martinettiano, perché qui per la prima e unica volta Martinetti attinge alla concretezza delle scienze naturali che confermano l’intuizione filosofica.

Quando fu esonerato dall’università per aver ricusato di prestare giuramento al fascismo (dicembre 1931), Martinetti si ritirò nella sua graziosa casa di Spineto, una frazione delle valli canavesane, provincia di Torino. Qui era circondato di animali, suoi e della campagna, e non di rado altercava con quei cavernicoli degli abitanti, che già lo consideravano un matto, perché maltrattavano gli animali. Chi era pazzo: il filosofo o i fustigatori di animali?

Martinetti era anche vegetariano, e andava a parlare, diciamo così, col suo asino, rivolgendoglisi con un «Salute a te, caro collega!». Sono parole che dimostrano tre cose. Prima, un’anima sensibile; secondo, il senso dell’autoironia, per lo più sconosciuto agli intellettuali; terza e più importante: con tutto il rispetto per l’asino che invece è un animale molto intelligente, che Martinetti ben conosceva i professori universitari. E proprio per questo sono sicuro, anche se nessuno lo attesta, che subito dopo Martinetti chiedesse scusa all’asino, spiegandogli che i suoi contemporanei non solo credevano gli animali privi di anima ma anche d’intelligenza e avevano scambiata l’avvedutezza dei somari, come dimostra l’etologia, per stupidità: invero avevano dimostrato che i veri fessi erano soltanto loro.

I ragli di affetto e approvazione dell’asino avranno senz’altro consolato Piero Martinetti, che li riteneva assai più eloquenti e significativi delle parole di certi strilloni filosofici. Gli stessi che lo avevano perseguitato o ignorato e di cui oggi ci sono ancora a giro figli, nipoti e meretrici.

P.S.: Come a qualcuno è noto, Piero Martinetti fu tra gli involontari protagonisti anche di un’altra vicenda nazionale, cioè a dire la richiesta di giuramento alla patria e al regime fascista da parte di Balbino Giuliano, ministro della Pubblica istruzione, ribattezzata nel ventennio Educazione nazionale, e quindi di tutto il governo, Mussolini in testa, ai professori universitari nel 1931. Le imprecisioni e la superficialità di storici e studiosi di filosofia su quanto accadde durante e dopo la richiesta sono molteplici e non sempre in buona fede, com’è prevedibile e come emerge a contrario leggendo con attenzione sia la preziosa raccolta di Lettere (1919-1942) di Piero Martinetti pubblicata nel 2011 dall’editore Olschki per la cura di Pier Giorgio Zunino, sia alcuni testi espressamente filosofico-civili del pensatore piemontese.

In un prossimo contributo, che si incaricherà di lumeggiare ciò che all’oggi resta tanto oscuro quanto scontorto, ma nondimeno ripetuto a pappagallo, vorrò quindi render conto di cosa realmente accadde in quel dramma tutto italianissimo e ricollocare al giusto posto figura e operato martinettiani.

Luca Bistolfi

*In copertina: Antoine Coypel, Democrito, 1692

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