Una macchina da guerra: se vogliamo, tra il (molto) serio e il (poco) faceto sintetizzare la figura di Vincenzo Cicero, questa credo sia l’espressione più pertinente.
Traduttore, docente universitario (a Messina), chiosatore, curatore editoriale, impaginatore di ardite opere, filosofo in proprio; e poi padre di famiglia numerosa (Pina, Anthony, Claudia), uomo di teatro e innumeri altre attività. Attività che, a quando mi è stato dato di constatare in gran parte, Cicero svolge tutte in maniera eccellente, tantoché, e glielo chiederemo, m’è davvero sorto il dubbio che, come si sussurrava per Giorgio Scerbanenco, egli avesse un fratello gemello, ciò che avrebbe spiegato l’inesausta produttività dello scrittore.
Cicero – per quanto riguarda lui stesso, non Scerbanenco – smentisce l’illazione, esclusa (anche se con qualche istante di perplessità) dall’amabile consorte. Se così fosse davvero, Vincenzo Cicero forse ancor più che una macchina da guerra, è un mutante con poteri mai visti al cinematografo. Ma tant’è, e chi riguardi a lui con invidia (e ce ne sono d’invidiosi, uh se ce ne sono!) deve farsene una ragione.
Chi scrive lo scoperse oramai diversi anni fa leggendo la Fenomenologia dello spirito, che Cicero, dopo De Negri, tradusse commentò e migliorò (editorialmente) dando del capolavoro, a insindacabile mio giudizio, la versione migliore e direi anche l’unica possibile nella nostra lingua. Seguii di poi di Cicero le tracce: e fu l’Enciclopedia delle scienze filosofiche, altra meraviglia.
A quel punto il nome pretenzioso ed evocativo di Cicero mi si fissò nel cerebro: prima o poi, avrei incrociata la sua strada e ci avrei scambiate due parole; era sicuro. E ciò sino a quando, grazie a Luigi Maggio – il magistrale traduttore del Tao Te Ching, intervistato per Pangea – non fui messo in contatto con lui, scoprendo, oltre a quella lunga e grassa teoria di attività, anche un uomo piacevolissimo, pronto al motto di spirito (a riceverla e a lanciarla), e molto diverso dai suoi colleghi accademici, quasi tutti albagiosi o afasici.
Cicero è tutt’affatto il contrario d’albagioso e afasico, come ci si avvedrà scorrendo anche solo brevemente questo dialogo. Sicché unisce, e anche di questo ci si renderà subito conto, una grande maestria linguistica e filosofica, o meglio: filosofico-linguistica, e una prodigalità che sfugge all’accusa di egocentrismo, per il solito e doverosamente rivolta in ispecie a quanti menino vanto di sé senz’aver alcunché di che vantarsi.
Non stupisce invece, nella vita di Vincenzo Cicero, constatare che con tutto il suo per adoperare una parola dannunziana capolavorare, egli sia ancora costretto a svolgere il compito di professore associato anziché ordinario e che a esempio la Bompiani non gli abbia offerto, a lui che pur era stato eletto da Reale a suo successore, alcun incarico ufficiale e se lo sia tenuto “solo” come traduttore e arrangiatore grafico (impresa, quest’ultima, difficilissima: lavorando su traduzioni dotate dell’originale e vasti apparati critici, per due collane).
Adesso però mi fermo, lascio parlare Vincenzo (Enzo per i prossimi) Cicero, tentando nella disperatissima impresa di convogliare la fiumana che prorompe da lui e che egli stesso è.
Prendetevi tempo (e magari anche un dizionario) e buon viaggio.
È un’operazione editoriale unta dal crisma dell’eccentricità: basti soltanto dirti per ora che si tratta di un’anteprima mondiale. Vale quindi la pena ripercorrere le peripezie di questo testo entro una cornice che le faccia stagliare a tutto tondo. In due semestri accademici consecutivi (invernale 1930/31 ed estivo 1931), Heidegger tenne all’università di Friburgo in Brisgovia un seminario sul Parmenide di Platone, cioè sul testo sacro per eccellenza della filosofia. Ma, a differenza di altre occasioni didattiche dedicate a dialoghi platonici (come il Sofista, la Repubblica e il Teeteto), il momento accademico del Parmenide non sfociò in una redazione alla volta della stampa (né in vita dell’autore né postuma); e non venne praticamente più menzionato da Heidegger né da altri, tranne che in uno scritto compilativo di William Richardson del 1963. Già questo dato esterno suona un po’ strano.
Nel 1991 divenne potenzialmente di dominio pubblico la notizia che di quel seminario friburghese si erano conservati degli appunti dattiloscritti “completi” (coprivano cioè entrambi i semestri) presso il fondo bibliotecario francofortese del loro estensore, Herbert Marcuse. Ma fino al 2007 non risulta che il dattiloscritto sia stato fatto oggetto di esame da elementi della comunità accademica o del mondo extraccademico. Nel 2012, poi, venne edito il volume nr. 83 delle opere complete – di quella Gesamtausgabe progettata in 102 volumi, ormai quasi tutti pubblicati presso l’editore Klostermann, secondo il piano predisposto da Heidegger medesimo. Ebbene, solo in questo tomo c’è qualche traccia del seminario sul Parmenide di Platone: sono tredici pagine di appunti di mano heideggeriana, molto ellittici e per lo più esegetici, redatti allo scopo di venire approfonditi nel vivo degli incontri seminariali (però solo quelli del semestre invernale 1930/31: e non hanno che rare e poco significative tangenze con gli appunti di Marcuse).
Nel luglio 2018, infine, uno studente di filosofia dell’università S. Raffaele di Milano, Niccolò Tucci, incuriosito dalle citazioni rinvenute nei saggi del finlandese Jussi Backmann e in un mio scritto sull’oblio dell’essere, riuscì a farsi inviare la copia fotostatica del dattiloscritto marcusiano dalla biblioteca dell’università di Francoforte sul Meno, e ci costruì su il progetto della tesi di laurea magistrale. Nel maggio 2020 mi contattò per email, e da lì cominciò il sodalizio filosofico che, arricchitosi dell’indispensabile ruolo editoriale di Morcelliana/Scholé, ha portato alla piena collaborazione sintonica per la pubblicazione della prima edizione assoluta del testo seminariale, in tedesco e in italiano insieme.
Fin qui, per sommi capi, le peripezie esteriori del seminario. Da cui parrebbe potersi desumere che in fondo, se negli anni successivi Heidegger non lo ha più neppure citato, magari sarà stato perché il momento seminariale non aveva offerto spunti speculativi degni di nota, ma solo una esegesi modesta (come del resto confermerebbero le tredici pagine “innocue” del volume 83 della Gesamtausgabe). Senonché, vuoi sapere titolo e sottotitolo della tesi di laurea di Tucci? Eccoli: Dell’attimo rimosso. Lo strano oblio heideggeriano dell’exáiphnes di Platone. Il dattiloscritto serba dunque in sé un contenuto così (speculativamente) scabroso – l’exáiphnes, l’attimo improvviso di Platone, né temporale né eterno – da spingere Heidegger addirittura a rimuoverlo, proprio in senso freudiano, “subito e per sempre”:
subito, perché già dal semestre friburghese successivo (l’invernale 1931/32), con il corso sulla dottrina platonica della verità e l’annessa interpretazione dell’allegoria della caverna, il pensatore tedesco poneva le prime basi per la sua futura griglia concettuale onto-teo-logica della metafisica – quest’ultima gravata e compromessa, a suo avviso, dalla concezione inadeguata del tempo come presente e come presenza. Ricordo che l’onto-teo-logica, secondo cui l’intera metafisica da Platone a Nietzsche sarebbe dominata dal filosofema del sommo essente (ón) espresso nel discorso umano (lógos) unicamente come Dio (theós) e come eternità nel senso di esser-sempre-presente, dagli anni cinquanta in avanti sarà per Heidegger l’equivalente perfetto della filosofia “che è giunta alla fine” – una fine inscritta nel suo inizio “distorsivo”, coincidente con l’idea platonica del bene da lui interpretata quale risplendenza sempre presente. Nelle lezioni invernali 1931/32 non c’è più traccia dell’exáiphnes del Parmenide di Platone; eppure, appena nel semestre precedente, Heidegger lo aveva definito – cito a memoria dal dattiloscritto marcusiano – “il punto più profondo e più all’avanguardia della metafisica occidentale, l’avanzamento più radicale nella questione di essere e tempo”. Nei confronti di Platone, una torsione diametrale; per il pensiero di Heidegger, una rivoluzione interna abortita sul nascere. Ormai avrai certamente maturato il sospetto fondato che io non condivida affatto la mistificazione ontoteologica; quindi non ti stupirà udire che la considerazione dell’attimo improvviso tratteggiata nel dattiloscritto marcusiano mi appare invece come uno dei vertici più puri, probabilmente l’ultimo, della speculazione heideggeriana;
per sempre, perché dell’exáiphnes del Parmenide Heidegger non parlerà più, a nessun livello, lasciando cadere su di esso la mannaia di una inspiegabile damnatio memoriae.
Ora, perché sulla lucida analisi speculativa condotta da Heidegger nel suo seminario quasi-fantasma, e conservatasi nel dattiloscritto quasi-clandestino di Marcuse, è sceso l’oblio? Un’ipotesi ce l’avrei, ma non te la dico adesso. Aspettiamo di vedere gli effetti tra qualche mese.
Per anni abbiamo tutti studiata la Fenomenologia dello spirito nella versione di De Negri. Perché ti sei sentito in dovere di proporne una tua?
Non è stata una mia iniziativa, in effetti. C’è Giovanni Reale all’origine “ufficiale” del progetto di ritraduzione della Fenomenologia dello Spirito – uso la maiuscola fin dal titolo perché, come spiego nell’introduzione al volume Rusconi del 1995, si tratta niente meno che dell’automanifestazione dialettica dello Spirito assoluto, cioè dell’unitrinità del Dio biblico, nell’esistenza concreta (naturale e storica). Nella primavera del 1993 il grande platonista della Cattolica di Milano, con il quale ci conoscevamo personalmente da qualche mese, mi fece la proposta (per me scioccante) di una nuova edizione italiana dell’opera, dopo aver saputo che avevo cominciato a studiare il tedesco direttamente dalle pagine della Fenomenologia hegeliana. Il mio saggio di traduzione – le prime quaranta pagine della Prefazione – superò l’esame, e così l’avventura partì.
Se comunque nella prima metà degli anni Ottanta, da studente all’università di Messina, avevo appreso da autodidatta i rudimenti del tedesco filosofico proprio sulla Phänomenologiedes Geistes, la responsabilità è senz’altro della traduzione De Negri. Soprattutto per il suo italiano obsoleto (nonostante la seconda edizione del 1960 avesse «interamente rifatto» la prima, del 1933), che riesce nell’impresa di complicare ulteriormente uno stile di scrittura filosofica dalla difficoltà leggendaria.
Nell’ultimo anno di liceo avevo letto in traduzione denegriana la sezione sulla lotta delle autocoscienze e su signoria e servitù, e a mio modo ne avevo tratto spunti propedeutici importanti per la comprensione del materialismo dialettico di Marx. Ma se decisi di imparare il tedesco, e ciò avvenne durante la preparazione per il mio primo esame alla facoltà messinese di filosofia (con in programma appunto la Fenomenologia), fu perché mi accorsi che cominciavo a capire Hegel in originale – le concordanze, il senso dell’uso degli avverbi, i passi speculativi più adamantini, certi ingranaggi sintattici, le sfumature semantiche di alcuni termini – molto meglio che nell’italiano di De Negri.
Reale concordava con me sull’opportunità/necessità di svecchiare la traduzione. E mi invitò a inserire sistematicamente le titolazioni strutturali, che ancora oggi ritengo costituiscano un contributo importante all’intellezione del testo hegeliano – basta leggere l’indice analitico finale per vedersene restituita “abbastanza fedelmente” l’impalcatura tematico-argomentativa.
A quasi trent’anni da quella traduzione, ci rimetteresti mano?
Posso dire che farei alcune scelte terminologiche differenti, e che dedicherei una cura maggiore al testo tedesco a fronte, includendovi un apparato critico. Non so se mi accadrà di ritornare sull’edizione. Intanto, le puntuali ristampe annuali Giunti-Bompiani della Fenomenologia dello Spirito mi pare continuino a dar ragione a quella intuizione coraggiosa di Giovanni Reale (il 15 ottobre è stato il decennale della sua morte).
Alquanto diverso è il caso Holzwege, poiché sulla classica traduzione di Pietro Chiodi gravano sin dalla sua apparizione delle perplessità. Peraltro, come mi hanno detto apertis verbis due importanti germanisti, Chiodi non conosceva il tedesco sì da potersi cimentare, armato di parecchie pretese per giunta, con certi giganti filosofici.
Anche in questo caso l’idea di affidarmi una nuova traduzione fu di Reale, il quale aveva letto e apprezzato un mio scritto dei primi anni novanta sul problema del metaforico in Martin Heidegger. Stavolta però la necessità di una versione italiana aggiornata non derivava soltanto dai “limiti” dell’operazione-Chiodi, ma pure dall’opportunità di prendere posizione rispetto a un modus traducendi che si era imposto in Italia da un quindicennio. Cercherò di spiegarmi nella maniera più chiara – e sintetica – possibile. La versione Chiodi di Holzwege, pubblicata nel 1968 col titolo Sentieri interrotti ma realizzata in maniera compiuta già nel 1953, rispecchia nel complesso abbastanza correttamente la sintassi tedesca, benché risulti oggi deficitaria dal punto di vista delle corrispondenze terminologiche. E che risulti così è quasi inevitabile, data l’epoca in cui è stata composta, poiché in questo aspetto non è inferiore ad altre traduzioni italiane coeve di scritti di Heidegger (penso per esempio a Reina, Masi, Caracciolo). Debole è pure la sua sensibilità nella restituzione in italiano dei frequenti contesti ludico-etimologici tedeschi. Infine, e soprattutto, vorrei dire che è traduttologicamente ingenua.
«Traduttologicamente»: puoi spiegare ai non iniziati, per cortesia?
I testi heideggeriani, specie quelli posteriori al 1936, sono fra l’altro particolarmente difficili da tradurre perché redatti da un pensatore che, oltre ad aver elaborato una originale teoria della traduzione, l’ha messa costantemente alla prova mediante una correlata prassi traduttiva, specie dal greco, ma anche dal latino, e persino dal tedesco stesso (se si pensa ai saggi holzwegig – sentieri erranti –circa Hegel, Nietzsche e Rilke). Purtroppo, per rendere in modo adeguato tali testi in altra lingua, non basta avere coscienza e conoscenza di questa complessa circostanza teorico-pratica – Chiodi ne aveva lucida contezza. Secondo me bisogna piuttosto disporre di un bagaglio traduttologico personale filosoficamente coerente, e a sua volta forgiato in un duraturo corpo a corpo con la propria lingua. Le traduzioni chiodiane delle traduzioni heideggeriane – si prenda per tutte quella del frammento di Anassimandro nell’ultimo saggio di Holzwege – mostrano un bagaglio insufficiente. Tutto ciò giustificava ampiamente che agli inizi del terzo millennio si volesse ritradurre Holzwege, specie dopo che dal 1987 Franco Volpi, con la sua cura di Segnavia (Wegmarken), aveva dato avvio a una nuova tendenza nelle traduzioni italiane di Heidegger, accolte nelle collane di Adelphi. Il succo di questa novità si può esprimere così: l’atto di trasporre in italiano il corso del pensiero heideggeriano dovrebbe mirare a renderlo il più possibile chiaro, elegante e armonico. Ecco, ho sempre rispettato questa posizione, che chiamo “tendenza calligrafico-tradittiva”, ma senza condividerla, perché penso contenga in potenza i germi di una infedeltà che, per il pensare filosofico, può risultare letale.
Qualche esempio?
Volentieri. Ne proporrò uno, che vale sia per Sein und Zeit, sia per Holzwege: la parola Offenheit esprime per Heidegger la condizione strutturale dell’esser-aperto (Offensein) dell’umano a se stesso e alla totalità degli essenti; renderla in italiano con «apertura» (che in tedesco ha come corrispettivo Offnung) appare più elegante, ma speculativamente molto meno preciso, perché nel suffisso di derivazione latina -ur è contenuto un determinante riferimento dinamico, temporale, che nella Offenheit heideggeriana è assente.
Così la Nota del traduttore della mia edizione italiana di Holzwege, uscita per Bompiani nel 2002 (dal 2014 ha il testo tedesco a fronte), con titolo invariato dell’originale e sottotitolo Sentieri erranti nella selva, s’è presentata esplicitamente come un manifesto di traduttologia heideggeriana anteposto alla messa in applicazione pratica. Il mio gesto traduttivo mira in sostanza a provocare in chi legge in italiano lo stesso tipo di straniamento che i testi heideggeriani provocano in tedesco. E il principio di fondo è la fedeltà nella bella e nella brutta sorte, cioè la maggiore aderenza possibile al testo di Heidegger nel restituirne vizi e virtù, genialità e stucchevolezze: della prosa, delle assonanze e consonanze etimologiche, delle dense ramificazioni lessicali, dei neologismi (ogni volta neologizzando in italiano, come p.es. Unverborgenheit/inascosità, entbergen/disascondere). Da più parti mi sono inoltre pervenuti attestati di stima per il congegno dei quattro glossari in coda al volume, i quali, dipanandosi per oltre 250 pagine, intendono dar conto in dettaglio di tutte le scelte traduttive rilevanti. Consentimi allora di affermare che questi indici costituiscono un indispensabile strumento paradigmatico, utilissimo anche per chi non condivide il mio principio traduttologico.
Scusa se insisto e cerco di rovinarti la piazza facendoti sparlare di un mostro sacro (ufficialmente, ché poi dietro le quinte sunt rosae). Vorrei infatti ripigliare meglio la faccenda di Chiodi e della sua conoscenza del tedesco.
Certo. Se guardo ai risultati, posso dire: le sue ritraduzioni della prima Kritik e della Religion di Kant mi appaiono nel complesso passabili, anche se con una tendenza, non sempre necessaria, a restituire più il senso che la lettera; la versione di Sein und Zeit, pur con la parziale attenuante di essere pioneristica, sconta invece l’insufficienza di equipaggiamento traduttologico di cui parlavo prima, aggravata dalla mancata penetrazione della Grundstimmung dello scritto, cioè della sua fondamentale atmosfera stilistico-speculativa.
D’altra parte, non mi stupisce udire che, secondo alcuni germanisti, Chiodi “conosceva il tedesco solo per modo di dire”: in qualche modo è stato lui stesso ad autorizzare un tale giudizio, ammettendo nelle pagine del suo “diario” che, alla soglia dei trent’anni, sapeva leggere il tedesco (e leggeva Heidegger!), ma non parlarlo. Non ho elementi per dire se col tempo riuscì a colmare la lacuna dell’oralità, ritengo però che l’intensa attività di traduttore tolga qualsiasi dubbio sulle sue buone competenze nel tedesco filosofico.
Avrai sicuramente volute esaminare la revisione della versione di Chiodi fatta nel 2005 da Franco Volpi e la traduzione ex novo di Alfredo Marini. Ci commenti i risultati dell’avventura traduttiva italiana cui è stato sottoposto quel capolavoro filosofico?
Delle tre, la più “fedele” – nel senso traduttologico che ho esposto sopra – è senz’altro la versione Marini, che nel Meridiano Mondadori del 2006 ha il vantaggio decisivo del tedesco a fronte. Ma un sobrio commento sulle traduzioni italiane di Essere e tempo non può che cominciare da Chiodi, in relazione al significato che lo scritto assume per il pensiero heideggeriano nel suo complesso – e questo mi consente in realtà di giustificare e completare il giudizio tranchant che ho dato poco fa.
Se tu mi chiedessi una formula sintetica per l’intero itinerario speculativo di Heidegger, non esiterei a proporti questa: il tentativo drammatico di pensare e dire la questione del senso dell’essere come rilasciatezza al luco dell’Ereignis (in tedesco suonerebbe: der dramatische Versuch, die Frage nach dem Sinn des Seins als Gelassenheit zur Lichtung des Ereignisses zu denken und zu sagen).
“Questione del senso dell’essere” è il tema di Sein und Zeit, ivi annunciato e svolto, benché solo incoativamente, con una strategia di scrittura rivoluzionaria, ossia con un tedesco filosofico tanto più rinnovato e straniante quanto più plasmato in maniera sistematica, rigorosa, autogenerantesi, sulla tradizione filosofica – su di essa, sì, ma per stravolgerla. Per Heidegger, infatti, la dichiarata distruzione/decostruzione (Destruktion) dell’ontologia tradizionale non si limitava a essere un programma speculativo, ma esprimeva anche la correlata istanza della necessaria riconfigurazione della lingua filosofica tedesca per dire e pensare, appunto in modo nuovo, il senso dell’essere. Ora, Pietro Chiodi ha certamente intuìto la presenza di questa strategia, ma “non ha saputo” misurarne la portata, né tantomeno si è posto il problema dell’opportunità di operare una parallela rigenerazione della lingua filosofica italiana: è a tali limiti che mi riferisco quando parlo di bagaglio traduttologico insufficiente e di mancata penetrazione della fondamentale atmosfera stilistico-speculativa di Sein und Zeit da parte di Chiodi. (Però non erano tanti negli anni ’50-’70 del secolo scorso – in Italia e nel mondo, Germania inclusa – a tradurre Heidegger con dotazione idonea; pensa che lo stesso Vattimo, curatore nel 1976 dell’edizione Mursia di Saggi e discorsi, ha sposato felicemente la modalità traduttiva chiodiana, col risultato che la sua traduzione è oggi in parecchi punti inservibile, anzi dannosa perché fuorviante).
Quanto a Volpi, nella sua revisione della versione di Essere e tempo non è andato oltre un maquillage insostanziale, realizzato peraltro in obbedienza a quella tendenza calligrafico-tradittiva di cui ho già parlato. Aver lasciato le soluzioni traduttive di Chiodi solo perché erano ormai entrate nel linguaggio filosofico italiano è stata una scelta traduttologicamente letale, perché così si continua a non rendere onore al profondo travaglio linguistico del pensatore tedesco, ne si ammetta la necessità speculativa oppure no. Comunque, l’aggiunta delle glosse a margine di Heidegger tradotte a piè pagina è una pregevole soluzione redazionale che viene incontro alle esigenze di chi legge (i marginalia sono a piè pagina nell’ed. Klostermann, in coda al testo nella ed. Niemeyer).
Passo ora all’edizione Marini, che ai miei occhi è importante non per aver tentato di rimediare – in qualche caso riuscendovi, in altri no – alcune gravi imprecisioni terminologiche di Chiodi-Volpi (Vorhandenheit, Erschlossenheit/Entschlossenheit, Lichtung, Besorge, Befindlichkeit), ma perché ha saputo insistere sulla messa in questione, tanto speculativa quanto linguistica, del problema della traduzione filosofica dei e nei testi di Heidegger. La restituzione in italiano mostra maggior rispetto verso l’originale tedesco, anche se talora il precetto di replicare i radicali semantici giunge a risultati locuzionali imbarazzanti, come nella resa della coppia Zuhandenheit/Vorhandenheit con “esser-allamano”/“esser-sottomano” (Chiodi-Volpi: “utilizzabilità”/“semplice presenza”); e poiché attraverso il telefono vedo i tuoi occhi domandarmi come tradurrei la coppia, risponderò: “manipolatezza”/“manifestatezza”, per mantenere così heideggerianamente in entrambi i membri sia il riferimento alla mano, Hand, sia il significato di cosa dequalificata (strumentata nel primo caso, astratta nel secondo). Ma secondo me è soprattutto la parola Lichtung a non ottenere, neanche qui, la sua traductiva iustitia.
Infatti, nella formula unitaria sintetica del pensiero di Heidegger che sei riuscito a carpirmi più sopra, la seconda parte – «rilasciatezza al luco dell’Ereignis» (Gelassenheit zur Lichtung des Ereignisses) – è né più né meno che l’autotraduzione heideggeriana “ultima” della prima parte – “questione del senso dell’essere” (Frage nach dem Sinn des Seins). E delle tre parole della costellazione più tarda, Lichtung è appunto quella che consente di reggere il gioco sin da Essere e tempo, in cui ricorre solo due volte e da cui è iniziata la sua evoluzione semantico-teoretica. Tradurla è affare delicato, perché nel capolavoro del 1927qualifica unicamente il Dasein, la condizione ontologica dell’umano, mentre nel corso del semestre invernale 1931/32, dedicato all’essenza della verità in Platone (sull’allegoria della caverna della Repubblica), si comincia a delineare il rapporto tra Licht (luce) e Lichtung nella prospettiva dell’essere inquanto tale. È una medesima parola per un semantema che Heidegger viene via via esplicitando speculativamente fino a dire (negli anni Sessanta) che senza Lichtung non c’è luce, né chiarore, né oscurità. Medesima dev’essere dunque la parola anche in italiano.
Ora, davanti alla Lichtung di Essere e tempo, Chiodi trascrive: «illuminazione»; Volpi: «radura»; Marini: «chiarìta» [proprio con l’accento sulla «i», ndr]. La mia proposta segue invece Leonardo Amoroso, che già nel 1983, con il suo dotto contributo al Pensiero debole, ha trovato la parola: luco, dal latino lucus, “radura”, “bosco sacro”. Uno dei suoi parecchi privilegi è di esibire anche linguisticamente la provenienza ultrametafisica di Licht da Lichtung così come è pensata da Heidegger – lumen (lux) de luco, tradurrei latinamente (e non irrispettosamente). La creazione di questa accezione ha comportato in tedesco un ulteriore neoinvestimento semantico di gelichtet, participio di lichten («diradare, rischiarare»), e del neutro sostantivato Gelichtetes, nonché il neologismo Gelichtheit: è per tali complesse innovazioni heideggeriane che ho coniato il deverbale illucare, da cui illucato/a e illucatezza. Non puoi cannare la traduzione di una delle parole decisive di un pensatore, anche se non ne condividi, in parte o in toto, le escogitazioni. (Due parole decisive di questo tipo sono naturalmente anche le altre della costellazione tarda, Gelassenheit ed Ereignis, ma credo che l’exemplum di Lichtung sia più che bastevole).
Se vuoi, posso ora offrirti un brevissimo saggio di traduzioni comparate di Sein und Zeit, così da illustrarti in concreto cosa intendo con fedeltà traduttiva nella bella e nella brutta sorte.
(Rifiutare profferti simili, sarebbe come girarsi dall’altra parte davanti a un pasto caldo o a un letto non libero. Ma debbo, per ovvii motivi, spostare al fondo dell’intervista lo schema di raffronto).
Ho assai apprezzata la tua curatela di Verità e metodo, che ripiglia la classica (e unica) traduzione, quella di Gianni Vattimo, aggiungendo di tuo pagine che Gadamer allora non aveva pubblicate. Gadamer giudicò assai bene la versione vattimiana del suo opus maius sebbene, aggiungo io, essa sia oltremodo libera, sì che quando si raffrontano i due testi a volte si strabuzzano gli occhi. Le parole di Gadamer furono esercizio di diplomazia oppure hanno un fondamento?
Grazie per l’apprezzamento, però credimi: per l’edizione bilingue di Verità e metodo ho fatto veramente poco. Il volume della collana “Il pensiero occidentale” Bompiani è vattimiano da cima a fondo, nonostante la nuova introduzione di Giovanni Reale e i miei rari interventi integrativi (sempre corrispondenti alle integrazioni gadameriane rispetto alla prima edizione del 1960). Credo che Gadamer, nel suo giudizio sulla traduzione italiana, si sia servito di una porzione di fondatezza per poi esprimersi diplomaticamente. La versione di Vattimo è ben scritta, scorre agile, e del resto l’agilità della prosa, accompagnata dalla pregevole capacità di esporre con chiarezza i ragionamenti, mi è sempre apparsa una sua dote. Ma, come dici tu, il confronto con il testo originale smaschera una strategia che mira più a far suonare bene in italiano che a restituire il senso più genuino e spesso più sobrio del periodo tedesco, e così il bello stile prevale sistematicamente sul rigore teutonico. Ti faccio l’esempio della parola ricorrente Erscheinung: oltre ad attingere alla sfera semantica italiana tradizionalmente connessa, che incamera i sostantivi “apparenza”, “manifestazione” e “fenomeno” (ma in Wahrheit und Methode ricorre altrettanto il vocabolo Phänomen, reso in via univoca con “fenomeno”), Vattimo la rende disinvoltamente con una pluralità aggiuntiva di nomi i cui significati è eufemistico definire eterogenei: presentazione, forma, (entità) fisica, fatto, caso (specifico), (aspetto) sensibile, elemento, immagine. Non la considero sciatteria, ma cedimento al canto delle sirene calligrafiche.
Ora, più volte Gadamer ha ribadito la valutazione positiva della traduzione Vattimo. Nel corso di un’intervista a Giovanni Reale ha dichiarato che, se il suo capolavoro e altri suoi libri hanno avuto molto successo in Italia, il merito è proprio di Vattimo, del suo coraggio nel tradurre Verità e metodo con molta libertà, senza perseguire a ogni costo la corrispondenza perfetta tra le due lingue – una perfezione, peraltro, impossibile. Così, in fondo, Gadamer non ha fatto altro che confermare il proprio presupposto per cui «ogni traduzione che prenda sul serio il suo compito è più chiara e più superficiale dell’originale». Fin qui il giudizio gadameriano appare fondato. Ma il gesto della rilevata (e immotivata) eterogeneità nella resa italiana di una stessa parola tedesca non può essere scambiato per autentica libertà di tradurre. Né poteva essere sfuggito a Gadamer, teorico della traduzione, che Vattimo si sentisse più libero di migliorare lo stile di Verità e metodo che di rispettarne l’unitarietà e coerenza semantiche. Ecco perché ritengo che in quel giudizio, alla fine, ci sia molta più diplomazia di quanto sembra.
La prima volta in cui ci siamo parlati al telefono, se ricordo bene, mi hai rivelato un particolare che mi ha lasciato di stucco: tu non hai studiato la grammatica tedesca. Vuoi spiegare a noi che siamo diventati gobbi sugli avverbi pronominali e in congiuntivi “fantasma” come hai fatto? Hai doti medianiche o sei la reincarnazione di un tedesco dell’Ottocento?
Non osando oltraggiare la tua capacità mnemonica, mi assumo la piena responsabilità di non essere stato chiaro in quel nostro primo incontro telefonico. È verissimo che ho imparato il tedesco filosofico “sul campo”, immergendomi nella Phänomenologie hegeliana con accanto sia la traduzione De Negri, sia il vecchio Dizionario tedesco-italiano Bidoli-Cosciani della Paravia, tramite la cui consultazione sistematica ho fissato nella mente innanzitutto le corrispondenze nominali e verbali. Ma dovevo precisarti meglio che il passo successivo nell’apprendistato – cioè le movenze sintattiche della prosa di Hegel, dunque l’architettura linguistica del suo pensare speculativo – mi sarebbe stato impossibile senza il ricorso costante alla Grammatica della lingua tedesca di Ladislao Mittner. Quella esperienza mi confermò, in sede di testualità filosofica, l’intuizione avuta all’ultimo anno del liceo, durante la lettura e gli esercizi di versione italiana dei Dubliners di Joyce e dei Fleurs du mal di Baudelaire: per la comprensione adeguata di un testo poetico o letterario, scritto in altra lingua occidentale e già tradotto in italiano, non è indispensabile parlare correntemente quella lingua straniera, né conoscerne le regole grammaticali e le più rare eccezioni; ma è ben più importante leggerlo in un raffronto costante con il testo italiano, anche a prescindere dalla qualità traduttiva di quest’ultimo. All’epoca parlavo benino l’inglese e ne padroneggiavo la grammatica, ma il francese mi era del tutto ignoto: eppure, la traduzione dei Fleurs di Luigi De Nardis fu un eccellente apripista per il mio rapporto con la lingua transalpina, al punto che, quando nel 1990 volli leggere integralmente La mythologie blanche di Derrida (l’importante saggio sulla metafora contenuto in Marges de la philosophie), non ci pensai due volte a redigerne – e sempre solo a titolo di esperimento – la traduzione, benché in assenza di un equivalente italiano (la prima versione pubblica, di Manlio Iofrida, sarebbe uscita nel 1997 con Einaudi); due docenti di francese mi assicurarono che, nonostante la prosa derridiana per loro incomprensibile, i nessi grammaticali erano stati riprodotti correttamente.
Ma torno all’autunno 1982, all’inizio del secondo anno d’università, quando nel programma di filosofia teoretica comparve Essere e tempo: di lì a poco avrei scelto la questione heideggeriana del linguaggio come argomento della mia tesi di laurea, affiancando agli altri due strumenti il prezioso Kluge, cioè l’Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, a cui Heidegger stesso attingeva per le sue escursioni etimologiste (allora lo fotocopiai nella 21ª ed. del 1977, rielaborata da Walther Mitzka; nel 2000, in vista della traduzione di Holzwege, mi procurai la 23ª ed. curata da Elmar Seebold). Così la mia “conoscenza” del tedesco filosofico si accresceva, senza però che sapessi spiccicare un solo fonema in lingua tedesca, e pronunciando male persino i nomi dei filosofi. Tuttavia, negli anni folli e speratissimi degli studi universitari, la voracità indotta dal dover colmare qualcuna delle infinite lacune filosofiche limitò la mia vis traducens alla comprensione in lingua originale delle opere dei pensatori più rilevanti, non ancora alla loro (ri)traduzione scritta.
A quel punto sentivo di disporre di una modalità concreta di acquisizione linguistica molto funzionale, almeno per me. Ma di lì a qualche anno avrei avuto la conferma che funzionava anche per altri, con i medesimi strumenti grammatico-lessicali: infatti tre studiosi di sicura qualità (un italianista, un teologo, uno psicologo), in momenti diversi, hanno imparato a leggere il (e a tradurre dal) tedesco seguendo – come hanno detto all’unisono, benché non si conoscessero l’un l’altro – il mio “metodo”, dietro mie brevi indicazioni teoriche e dimostrazioni pratiche; e lo psicologo, Pasquale Cozza, ha di recente pubblicato una ritraduzione dannatamente buona di L’io e l’es di Freud.
Quindi, come puoi vedere, né medium né reincarnazione, ma solo un filosofo in erba curioso, al quale tra l’altro è toccato in dote un ottimo fucile protonico “ghostbusters” con cui ha potuto snidare, nell’infestazione dei campi tedeschi, molti di quei discolacci dei congiuntivi fantasma!
Non sono molto sicuro che il “fucile” dei Ghostbusters fosse “protonico”: sono dettagli, o Cicero, a cui prestare attenzione!
Ah ah! Questa è simpaticissima! Però, sei tu che devi fare attenzione: l’arma del film viene chiamata proton pack o proton blaster.
Vedi che combina l’età? Dico la tua: è normale che una persona anziana ricordi certi dettagli passati. Però facciamo pari e patta: ho letto Sapienza muta e non ci ho capito niente. Mi faresti dono d’un riassunto per mentalmente meno abbiente, per cortesia?
Con piacere, prima ancora che per cortesia! E con la doverosa precisazione che Sapienza muta è un libro per addetti ai lavori; al di fuori di questa cerchia non ne consiglio la lettura. Eppure, sto aspettando l’uscita a giorni della seconda edizione aumentata di Essere e analogia per organizzare un tour di presentazioni della coppia di volumi in varie zone d’Italia. Non ti sembri una contraddizione, qualora ti chiedessi che senso abbia promuovere un libro di cui io stesso sconsiglio la lettura a chi non filosofa. È una mossa ponderata da tempo, e ne ho azzardato un’anticipazione nella primavera del 2023. Il testo è scritto in maniera extrafilosoficamente illeggibile, è vero; però sono in grado di esporre in modo chiaro, davanti e assieme a un pubblico di qualsiasi età ed estrazione culturale, gli argomenti che affronto in esso. Questa convinzione mi deriva dalla natura trasversale del suo tema capitale (anche se non sempre in primo piano), Gesù Cristo, e dalla possibilità di far ricorso a una singolare tecnica didascalica.
Dunque: Sapienza muta vuol essere un’introduzione alla cristologia filosofica – la disciplina fondata cinquant’anni fa dal gesuita francese Xavier Tilliette – secondo la concettualità della nuova ontologia dell’inquanto [di cui si parlerà più oltre, ndr]. La cristologia esiste di per sé dal tempo immediatamente posteriore alla morte di Gesù di Nazareth, e considera quest’ultimo come il Cristo, cioè l’unto, il messia, il salvatore dell’umanità, il Dio Figlio, il Logos fattosi carne – quindi il Gesù dal punto di vista di chi ha fede nella sua incarnazione, predicazione, crocifissione e risurrezione. Ecco allora che la locuzione “cristologia filosofica” sembra un ossimoro, quasi un anello triangolare. Verrebbe da dire: o si fa filosofia o si fa cristologia, o razionalità o fede, ma non entrambe simultaneamente! E invece la sfida suprema del pensiero, quella per cui vale la pena impegnarsi sul serio nella teoresi come in ogni dimensione della prassi, sta oggi secondo me nell’interpretazione speculativa di Gesù Cristo inquanto Logos incarnato.
La possibilità che questa sfida sia vittoriosa è ora uno dei dissodatori decisivi per tutti i terreni d’incontro dialogico (interconfessionale, interreligioso, con non-credenti). La cristologia filosofica è ecumenica per vocazione, e si attua tanto più ecumenicamente quanto meglio viene colta la congruenza essenziale tra l’inquanto e il Cristo Logos, ossia tra il dato trascendentale e il dato cristologico, tra il mediatore analogico di tutte le cose dette (sentite, immaginate, pensate) e il Mediatore-Logos di tutte le cose fatte (e dette ecc.). Cristo apparirebbe così, tra l’altro, come il mallevadore ultraumano (ma insieme umano!) del mallevadore trascendentale di tutte le cose, e tale congruenza, la quale – se accade – non può non accadere per iniziativa divina, consente secondo me di riorientare cristosoficamente ogni trattazione metafisica di Dio. Sapienza muta giunge a questo risultato attraverso una serie di collocuzioni con alcuni importanti filosofi; ed è durante tali tappe che accentuo la complicazione della mia prosa, giacché tendo a plasmarla in base al corpo a corpo stilistico con il pensatore di turno. Così ogni tappa assume quasi una propria autonomia mono-grafica – e s’incrementa la difficile intelligibilità del complesso. Ma Sapienza muta è solo propedeutica alla cristologia filosofica vera e propria, la quale è destinata a essere esposta nel prossimo volume, Sapienza folle; e in tale stato di provvisorietà, per poter venire comunicata efficacemente in forma divulgativa, l’introduzione abbisogna di due opportunità: a) accompagnarsi al testo base dell’ontologia dell’inquanto (Essere e analogia), a sua volta già ridotto in una versione didascalica; b) corroborarsi allocutivamente tramite l’intervento della filmanalisi (Sapienza muta, § 10). È giunto perciò il momento di accennare a questa tecnica.
Da quando, nel 2005, durante il mio corso su Matrix frequentato da oltre duecento studenti, ho sperimentato tangibilmente le straordinarie virtù didattiche dei testi filmici, la pratica del mio insegnamento accademico è andata caratterizzandosi per un taglio prettamente filmanalitico, secondo una tipologia di fruizione filmica che ho poi impiegato anche fuori della sfera universitaria. La filmanalisi (alla lettera: anàlysis – scomposizione – di un film) è precisamente una modalità speciale di visione collettiva di un’opera cinematografica o telefilmica: si procede per proiezioni di micro- e macrosequenze che vengono intervallate da spunti d’interesse spettatoriale (osservazioni, discussioni, rilievi, congetture, “scoperte”) sui segmenti via via covisionati. È un forum la cui fecondità dialettica viene garantita dall’interazione dei diversi gradi di preconoscenza del film da parte di chi partecipa (si va da chi non ha mai visto il film al/la fan che conosce a memoria ogni battuta), e può favorire istruttivi scambi intergenerazionali. A differenza del cineforum classico, cha ha la struttura introduzione–visione–dibattito, la filmanalisi consente di mantenere costantemente viva l’attenzione spettatoriale anche nei casi il cui il film è “lento”, profondo e complesso.
In cosa consiste il tratto filosofico della tecnica filmanalitica? Al di là dei temi, che possono essere di varia matrice (filosofica, psicologica, politica, religiosa ecc.), esso pertiene strutturalmente al carattere maieutico della conduzione: filmanalisi è ostetricia in atto collettivo, mirante a far partorire in discussione pubblica congetture, concetti e ragionamenti delle personalità coinvolte. Gli interventi e colloqui di parte spettatoriale si snodano in un clima di rispetto reciproco e costruttivo per le opinioni altrui, per cui non esagero quando parlo della filmanalisi in termini di palestra di democrazia.
Ora, nelle presentazioni di Sapienza muta cercherò di avvalermi il più possibile delle risorse filmanalitiche (penso soprattutto al cinema cristologico di Pasolini, dalla Ricotta al Vangelo, senza escludere neppure Salò), secondo un modello diversificato ormai collaudato. Per esempio, tra qualche giorno comincerò nella mia parrocchia di Rometta Marea un ciclo di incontri su cinema e sacro aperto a tutte le età, in cui sono previste di volta in volta selezioni di sequenze da Donnie Darko, dalle saghe di Harry Potter e del Signore degli anelli, dalla serie The Chosen di Dallas Jenkins e dal pasoliniano Vangelo secondo Matteo. Sarà un importante banco di prova per calibrare l’accessibilità a ogni futura discussione pubblica sugli argomenti dell’introduzione alla “mia” cristologia filosofica, la quale vuole essere per tutti e per ciascuno.
Una volta mi hai raccontato come hai iniziato a tradurre testi filosofici. È una storia molto istruttiva che vorrei tu riferissi anche ai nostri lettori.
Era la primavera del 1986, lavoravo alla tesi di laurea (sulla questione linguistica in Heidegger, come detto) e avevo la necessità di leggere Identität und Differenz. Nella biblioteca di facoltà mancavano, per ragioni diverse, le due traduzioni italiane che all’epoca circolavano solo su riviste (Eduard Landolt su «Teoresi» e Ugo Ugazio su «aut aut»). Presi allora in prestito la prima edizione tedesca (1957); e quando cominciai a sfogliarla mi accorsi subito di una circostanza straordinaria: oltre a riconoscere il significato di gran parte delle parole e di determinate combinazioni frastiche, in ogni pagina arrivavo a comprendere almeno la metà dei periodi – e, per la prima volta, tutto ciò accadeva senza il raffronto simultaneo con una traduzione italiana esistente! Fu un’epifania radiosa, irradiante.
Vincenzo Cicero
Dopo la laurea, calibrai variamente lo sfruttamento di questa rivelazione secondo la lingua d’origine del testo filosofico che andavo via via leggendo. Così lo studio degli scritti dei pensatori in originale divenne il mio primo habitus di lettore. Senza l’accesso diretto alla Poetica e al terzo libro della Retorica di Aristotele non sarei mai riuscito a sondare le sue formidabili cognizioni della lingua greca né la sua abissale intuizione del fenomeno metaforico, esplorazione che è stata decisiva per la mia personale meditazione sull’analogia. I primi tentativi di traduzioni filosofiche, redatte parzialmente o integralmente, risalgono però solo ai primi anni Novanta, per il mio bisogno di indagare la questione del tempo nell’ottica del legame tra l’analogon in generale e l’exáiphnes platonico (nel quale mi pareva di indovinare l’arcaico antesignano dell’Augenblick, l’“attimo”, di Heidegger; ma all’epoca non c’era alcun documento testuale che ne attestasse espressamente il collegamento). Si trattava quindi di prove effettuate al servizio esclusivo dei miei interessi filosofici. Agli inizi di gennaio 1993, la rabbia per l’ennesimo esito infelice di un concorso di ammissione al dottorato mi fece balenare per la prima volta l’opportunità di trasformare gli esercizi di traduzione in attività professionale. Avevo pronte le prime stesure di tre scritti filosofici: Konrad Gaiser, Platons ungeschriebene Lehre (1963), “La dottrina non scritta di Platone”; Jacques Derrida, La mythologie blanche (1971), sulla metafora – già citato; Gernot Böhme, Zeit und Zahl (1974), la parte su tempo e numero nei dialoghi platonici. L’idea era di inviare presso varie redazioni di case editrici e riviste dei brevi saggi di traduzione di questi e di altri testi, nella speranza di qualche riscontro positivo. Il mio amico Salvatore “Salvaccio” Cariati mi consigliò di contattare per primo Giovanni Reale, esperto di filosofia antica (e non solo) già allora di fama mondiale, il quale tra l’altro aveva contribuito a far conoscere Gaiser in Italia traducendone alcune opere per Vita e Pensiero. Ero scettico, perché mi immaginavo Reale assorbito interamente dalle sue attività editoriali e accademiche: figurati se avrebbe avuto tempo per un signor nessuno, che al suo attivo curriculava solo un volumetto a quattro mani (con Salvaccio) sulla definizione aristotelica della metafora! A ogni buon conto, spedii al suo indirizzo in Cattolica la traduzione di venti pagine di Gaiser, accompagnata da una lettera e dal libello; ma avevo quasi pronto anche il plico di Derrida per «aut aut»…
Ad accentuare lo scetticismo, seppur “rabbioso” dunque non rassegnato, era una parte delle mie generali condizioni esistenzial-lavorative del periodo: trent’anni compiuti da poco, una moglie inesauribile ma al momento disoccupata (per fortuna proprietaria della casa in cui viviamo tuttora a Rometta Marea), una bimba meravigliosa di sei mesi; di mattina leggevo filosofia e la traducevo con voracità, ma intanto le delusioni concorsuali mi avevano portato a detestare in via definitiva gli ambienti universitari, da non volerne più sapere; di pomeriggio insegnavo felicemente italiano in una cooperativa per stranieri di Messina, però la scarsa remunerazione mi costringeva nei fine settimana a integrarla con lezioni private. E, in fondo, il pessimismo proveniva dall’essere contrariato con me stesso, perché sentivo da diverso tempo covarsi in me un principio speculativo “nuovo”, ma a cui non riuscivo a conferire adeguata espressione concettuale né nome – da qui l’addensarsi di dubbi sulla mia effettiva capacità di venirne, un giorno, a capo.
Quel lunedì 18 gennaio 1993, circa le 17:30, rientravo come al solito dalla cooperativa con la Peugeot 205, e avevo appena posteggiato sotto casa quando tutto il vicinato sentì l’urlo di Pina che si sbracciava dal balcone al secondo piano: «Ha telefonato Reale! Vuole conoscerti di persona e farti un contratto!». Incipiebat vita nova.
La generosità, di energie e tempo, di Vincenzo Cicero è incontenibile. Sicché riteniamo opportuno rimandare il resto dell’intervista a una seconda puntata. Che si incaricherà di approfondire – tra le altre, molte cose – il pensiero strettamente “ciceroniano”.Lasciamo ancora al lettore il piacere di soffermarsi qui sotto sulla comparazione di un passaggio di Essere e tempo letto dai vari traduttori e completato dalla versione di Cicero.
A presto, dunque! (L. B.)
Sein und Zeit, § 28: versioni a confronto.
Die ontisch bildliche Rede vom lumen naturale im Menschen meint nichts anderes als die existenzial-ontologische Struktur dieses Seienden, daß es ist in der Weise, sein Da zu sein. Es ist »erleuchtet«, besagt: an ihm selbst als In-der-Welt-sein gelichtet, nicht durch ein anderes Seiendes, sondern so, daß es selbst die Lichtung ist. Nur einem existenzial so gelichteten Seienden wird Vorhandenes im Licht zugänglich, im Dunkel verborgen. Das Dasein bringt sein Da von Hause aus mit, seiner entbehrend ist es nicht nur faktisch nicht, sondern überhaupt nicht das Seiende dieses Wesens. Das Dasein ist seine Erschlossenheit.
CHIODI:
La rappresentazione ontica di un lumen naturale nell’uomo sta a indicare null’altro che la struttura ontologico-esistenziale di questo ente, che è tale da aver da essere il proprio «Ci». Che esso sia «illuminato» significa che, in quanto essere-nel-mondo, è luminoso in se stesso, non riceve la luce da un altro ente, è esso stesso illuminazione. Solo per un ente illuminato esistenzialmente in questo modo, ciò che è semplicemente-presente può venire in luce o restare nell’ombra. L’Esserci comporta il suo Ci in modo originario; senza di esso non solo non esisterebbe di fatto, ma non potrebbe essere l’ente della propria essenza. L’Esserci è la sua apertura.
VOLPI:
La metafora ontica di un lumen naturale nell’uomo indica null’altro che la struttura ontologico-esistenziale di questo ente, ossia che esso è in modo da essere il proprio Ci. Che esso sia «illuminato» significa che è in se stesso aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro ente, ma in modo che esso stesso è la radura. Solo per un ente aperto esistenzialmente in questo modo come radura ciò che è semplicemente-presente può venire in luce o restare nell’ombra. L’Esserci comporta il suo Ci in modo originario; senza di esso non solo non esisterebbe di fatto, ma non potrebbe essere l’ente di questa essenza. L’Esserci è la sua apertura.
MARINI:
Quando in senso ontico-figurato si parla di un lumen naturale nell’uomo, non si intende altro che la struttura esistenzial-ontologica di questo ente, che è in modo da essere il suo ci. Che sia «illuminato» vuol dire: rischiarato in se stesso in quanto essere-nel-mondo, non da un altro ente ma in modo che lui stesso è la chiarìta. Solo a un ente esistenzialmente così rischiarato l’ente sotto-mano è accessibile in luce e coperto al buio. L’esserci porta sempre con sé il proprio ci, senza di esso non sarebbe l’ente che essenzialmente è non solo in senso fattizio, ma in assoluto. L’esserci è la sua schiusura.
CICERO:
Il parlare ontico figurato del lumen naturale nell’uomo non intende altro che la struttura ontologico-esistenziale di questo essente, per cui esso è nella modalità di essere il suo “ci”. È “illuminato” vuol dire: illucato in esso stesso inquanto essere-nel-mondo, non mediante un altro essente, bensì in modo che esso stesso è il luco. Soltanto a un essente così esistenzialmente illucato qualcosa di manifesto diviene accessibile alla luce, nascosto al buio. L’esserci comporta il suo ci sin dall’inizio, privo di esso non sarebbe l’essente di questa essenza, non solo fattivamente, ma in generale. L’esserci è la sua schiusità.