07 Marzo 2024

“Grande è l’inferno e l’umanità giace al suo interno”. Il nichilismo nella letteratura accadica 

Lo Šimâ Milka o Istruzioni di Šūpê-Amēli è un testo sapienziale accadico. A questo genere letterario, il cui nome, introdotto da W. G. Lambert, è di ascendenza biblica (Proverbi, Giobbe e Qoelet sono i cosiddetti libri sapienziali), appartengono testi di natura diversa (istruzioni pratiche, proverbi, indovinelli, racconti e favole, dialoghi, composizioni scolastiche, opere umoristiche e satiriche) pertinenti alla morale e molto di ciò che in Grecia si sarebbe chiamato filosofia. Ammesso e non concesso che sia lecito parlare di filosofia prima dei Greci, idea influenzata da una vecchia tradizione che identificava nei Proverbi biblici una protoforma di filosofia, allora intesa più in senso di attitudine esistenziale che di pensiero speculativo.

In realtà, questa categoria è molto problematica: in essa si includono anche inni e lamentazioni dal contenuto etico o rivolte a Marduk, dio babilonese della sapienza (in accadico nēmequ, che forse, come l’ebraico ḥokma, indicava anche una ‘filosofia di vita’). E perché non includere sotto questa etichetta anche testi magici e divinazioni, che facevano tutti parte della sapienza babilonese? E perché non l’Epopea di Gilgameš, che contiene riflessioni sul tema del carpe diem? Lambert scrive che la letteratura sapienziale presenta un’attitudine più apertamente razionale rispetto all’epica. Eppure, il fatto che Gilgameš impari attraverso l’esperienza pratica anziché la ricerca teorica non lo rende diverso dagli altri sapienti: infatti, questo è un elemento tipico del sapere mesopotamico nella sua interezza.

L’egittologo Jan Assmann identifica quattro tipologie archetipiche di sapienti: Salomone (la saggezza del governante e del giudice); Prospero (la magia); Jacques (sapere critico) e Polonio (la saggezza dei padri). Al primo gruppo apparterrebbero i codici di leggi come quello di Ur-Nammu (2112-2095 a. C.), quello di Lipit-Ištar di Isin (1934-1924 a. C.) e quello di Hammurabi (1792-1750 a. C.), o ancora le leggi di Ešnunna (XVIII secolo a. C.), le leggi ittite (XIV secolo a. C.), le leggi di Assur (XIII secolo a. C.), il Codice dell’Alleanza (Esodo 21:1-22:16, IX secolo a. C.?), il Codice deuteronomico (Deuteronomio 21-25, VII secolo a. C.) e infine le leggi neobabilonesi (VI secolo a. C.). Al secondo, incantesimi, divinazioni e tutto ciò che pertiene a Marduk; al terzo il sapere umoristico dei dialoghi e delle composizioni scolastiche; al quarto la saggezza degli antichi, come l’eroe sopravvissuto al diluvio Ziusudra ‘dalla lunga vita’ (in accadico Utnapištim, con lo stesso significato, o Atraḫasis ‘il molto saggio’), Gilgameš, Adapa e Aḥiqar. Va detto, però, che nessuno classificherebbe il Come vi piace o l’Amleto di Shakespeare come testi sapienziali!

Torniamo al nostro testo. Lo Šimâ Milka conta circa 150 versi ed è stato tramandato da una fonte di Ugarit, una di Emar e una di Ḫattusa, la capitale ittita. Quest’ultima presenta due colonne, una col testo accadico e una con la traduzione in ittita, che però è più breve e con molte righe vuote, forse perché il testo accadico non era pienamente compreso o forse perché era un semplice esercizio scribale. Molti passaggi sono di difficile interpretazione, anche perché in questi testi che non provengono dalla Mesopotamia non viene rispettata l’unità poetica del verso.

A prima vista, lo Šimâ Milka (letteralmente ‘ascolta il consiglio’) appartiene a un sottogenere ben preciso, quello delle istruzioni di un padre al figlio. Si tratta del genere tradizionale per eccellenza, quello che ha come obiettivo la trasmissione del sapere dei vecchi saggi alle nuove generazioni. Questi testi sono estremamente conservativi, presentano il passato come modello per il futuro e non propongono nessun cambiamento nell’ordine sociale, che anzi viene inteso come rigido e immutabile. Questo genere affonda le sue radici nella letteratura sumerica, e in particolare nelle Istruzioni di Šuruppak (Šuruppak è il nome della città in cui avviene il diluvio), la cui prima redazione si data al Protodinastico IIIa (2600 a. C. circa). Non a caso, questo testo si apre con le parole u4 ri-a u4 sud-rá ri-aĝi6 ri-a ĝi6 bad-rá ri-a mu ri-a mu sud-rá ri-a ‘in quel giorno, in quel giorno remoto; in quella notte, in quella notte remota; il quell’anno, in quell’anno remoto’, proprio come il poema Gilgameš, Enkidu e gli Inferi. L’uomo di Šuruppak che dà istruzioni al figlio altri non è che il già citato Ziusudra figlio di Ubar-tutu, l’eroe del diluvio. Di questi personaggi leggendari la Lista reale sumerica dice che vissero vite incredibilmente lunghe, come i patriarchi della Genesi, fino a 36000 anni. Quando dà consigli al figlio, però, Ziusudra si trova già nell’oltretomba.

Gli insegnamenti di Ziusudra non sono di tipo morale, ma sembrano essere ispirati da un principio che Alster definisce di “modesto egoismo”. Per esempio, il figlio è invitato a non violentare una donna, a non rubare e a non calunniare non in quanto atto peccaminoso o immorale, ma perché la gente lo saprà e si vendicherà. Pur essendo attribuiti a un sovrano mitologico come Ziusudra, è difficile che suggerimenti di questo tipo si adattino a una corte. Piuttosto, sembrano adatti a qualsiasi uomo, per prepararlo alla vita nella società e alla vita dei campi più che alla vita di corte. Anzi, talvolta traspare anche un atteggiamento critico nei confronti del palazzo. Mancano quasi del tutto i riferimenti agli dèi e alla loro possibile vendetta, al punto che si potrebbe quasi parlare di un testo agnostico. Gli insegnamenti sono frutto di secoli di trasmissione orale e di uno spiccato senso pratico; qualunque tentativo di generalizzazione metaforica risulta fallimentare. Essi sono di tipo proverbiale, ricordano ora i già citati codici di leggi ora i Proverbi biblici, che non rappresentano una visione sistematica e coerente del mondo, ma a volte si contraddicono tra di loro.

Allo stesso genere appartengono anche le Istruzioni di Ur-Ninurta, re di Isin (1923-1896 a. C.), e i Consigli di saggezza mediobabilonesi. Né mancano parallelismi in altre letterature. In Egitto, i consigli di Imhotep durante la III dinastia (2683-2613 a. C., perduti); le istruzioni di Djed-ef-Hor (un solo frammento) e quelle di Kagemi durante la IV dinastia (2613-2494 a. C.); le istruzioni di Ptah-hotep durante la V dinastia (2494-2345 a. C.); le Istruzioni per il re Merikare (2100 a. C. circa); le Istruzioni di Emenem-otep (X-VI secolo a. C., modello per Proverbi 22:17-23:11) e le Istruzioni di ‘Onchsheshongy (V secolo a. C., in demotico). In aramaico, i Detti di Aḥiqar, menzionato anche nel libro di Tobia, nome aramaico di Aba-dNinnu-dari, forse autore dei Consigli di saggezza mediobabilonesi. Nella Bibbia, oltre ai Proverbi, il Qoelet, il Siracide e i testamenti di Giacobbe, di Mosè e di Davide. Nel Corano la Sura 31 (Luqman); in Grecia le Opere e Giorni di Esiodo. E poi ancora i Disticha Catonis, la Disciplina clericalis di Pietro Alfonsi, i Proverbi di Alfredo anglosassoni, le Istruzioni di re Cormac in celtico, Havamál e Loddfáfnismál in antico norreno.

Il nostro testo si apre in modo ambiguo. Nel manoscritto di Emar leggiamo [š]i-ma-ma mil-ka […] šu-ú-pè-[…] ‘ascolta l’ammaestramento […] Šūpê-amēli’, mentre in quello di Ugarit leggiamo chiaramente il segno ša ‘di’: [š]i-ma mil-ka ša šu-pè-e-LÚli ‘ascolta l’ammaestramento di Šūpê-amēli’. La maggioranza degli studiosi lo interpreta come genitivo soggettivo, ma non è da escludere completamente un’interpretazione come genitivo oggettivo. Nel secondo caso, Šūpê-amēli (letteralmente ‘il più illustre tra gli uomini’) sarebbe il discepolo, non il precettore, e il precettore potrebbe essere il dio Enlilbanda, menzionato subito dopo, qui inteso non come il giovane Enlil, bensì come ‘Enlil della saggezza’, cioè Ea. Tuttavia, è abbastanza improbabile che i consigli siano dati direttamente da un dio. Dal momento che Ea è il dio che dà istruzioni ad Atraḫasis e dal momento che ci sono notevoli somiglianze tra questo testo e le Istruzioni di Šuruppak, si è pensato che Šūpê-amēli sia da identificare con lo stesso eroe del diluvio Ziusudra, tuttavia non vi sono prove certe. Del resto, Ea è per antonomasia il dio che dà la conoscenza all’umanità (un po’ come il greco Prometeo), anche al già citato Ur-Ninurta di Isin. Il fatto che il figlio rimanga senza nome non deve sorprendere: era così anche nelle Istruzioni di Šuruppak.

Secondo Cohen, non c’è coerenza interna negli insegnamenti di Šūpê-amēli, mentre secondo Seminara essi sono organizzati secondo un ordine logico preciso. Riassumiamo brevemente i 16 precetti: lavora i campi, invece di partire alla ventura; non frequentare taverne; non sparlare di un collega; evita di farti coinvolgere in dispute legali; sii umile; non avere timore; difendi i tuoi risparmi da tua moglie (la misoginia è un tratto tipico di questi testi); non rispondere alle provocazioni; non scavare pozzi all’ingresso del tuo campo, ma in mezzo; non farti ingannare da una donna; non acquistare uno schiavo rimesso a nuovo; non farti scrupoli con un locatario moroso; difendi la proprietà dai ficcanaso; non scambiare la casa paterna per una tenda. Insomma, una Ringskomposition, che si apre e si chiude con una critica al nomadismo, con la quale si concludono anche le Istruzioni di Šuruppak. Del resto, il contrasto tra la vita urbana e quella della steppa è un tema che interessa la letteratura mesopotamica sin dall’incontro tra Gilgameš e il selvaggio Enkidu, che verrà da questi “civilizzato”. Insomma, il quadro generale che emerge è quello di una morale anti-eroica, tradizionalista, ben radicata nella casa, nella famiglia e nell’agricoltura e ostile alla guerra, all’avventura, alla libertà e a qualsiasi forma di novità.

Eppure, nel finale dello Šimâ Milka si verifica un fenomeno del tutto nuovo per la letteratura sapienziale. Dopo aver ascoltato i consigli del padre, il figlio gli risponde punto per punto, e la sua replica, pur frammentaria e di difficile interpretazione, rappresenta un capovolgimento della morale paterna e di tutti i valori della tradizione. Lasciamo parlare direttamente l’anonimo figlio riportando il testo della fonte di Emar, con piccole integrazioni dagli altri manoscritti:

[m]a-ru KAxU-šú i-pu-ša i-qáb-bi iz-za-ka4?-ra

Il figlio aprì la bocca per parlare e dichiarò

ana AD-šú ma-al-ki a-mat a-bi-ia ma-al-ki

a suo padre, il consigliere: «Le parole di mio padre, il consigliere,

a-na-ku aš-me AD qu-lim-ma a-ma-ta ana ka-ša ša lu-uq-ba-ak-ku

ho ascoltate. Padre, ora lascia ch’io ti faccia un discorso.

[a]-né-en-na TU.MUŠENMEŠ da-me-me-tu4 MUŠEN

Dove sono le colombe, uccelli lamentosi

[m]u-ur-tap-pi-du4 šá GU4 dan-ni a-le-e É-šú

erranti? Dov’è la casa del bue potente?

[ANŠ]E.NUN.NA-tu4 a-né-en-na DUMUMEŠ-šú

Dove sono i figli dei muli?

[a-g]a5-le-e dUTU Á.KÁR.AM sa-ab-sé-e

Sono dell’asino. Šamaš è il protettore dell’ostetrica

[Á].KÁR.AM dINANNA kúm mul-ta-ṣi GÚ.UN Mĺ sa-ab-[su-ti]

Ištar ne è la protettrice, poiché fa emergere il fardello delle levatrici.

[q]á-a-bu-ia ú-ul ta-mu EN SAĜ.DU GAL.LA

Le mie parole non sono state mantenute, un demone è il creditore.

[e-r]a-ša ina KIRI6 mu-ša-ru i-na-ṣa-ru

In un campo coltivato il giardino controlla forse il suo contadino?

[da-a]n-na ši-pár ÚMEŠ ú-ul i-kal

Questi non otterrà un grande ritorno dalle sue piante.

[BA]D me-eṭ-ri-tu-um-ma ú-ul i-šat-ti A.MEŠ-šá

Se il canale è aperto, non ne berrà le acque.

[IGI] A IMMIN-šú AN-e i-da-gal9 ú-ul i-na-g[á-aš]

Attenderà l’acqua dal cielo per la sete, ma non si muoverà.

[…] i-ra-hi-iṣ ù šá kab-ta-ti

Ci sarà un’alluvione e il padrone

[EN-š]ú ú-ul ú-bal a-bi DÙ-u[š] É

non pagherà la tassa sul raccolto. Padre, hai costruito una casa,

[dá-al-ta] tu-ul-li ṣu-up-pa DAĜALxLA-ka

ne hai eretto la porta decorata, 60 cubiti

[mi-na]m-ma tal-qì ru-gu-ub É-[k]a e-ma mál

è l’ampiezza dei vani della tua casa sempre piena

ù ga14-ni-ni-šú mál dNISABA a-[na U]4-mi

e il magazzino è pieno di orzo, ma nel giorno

NINDA ši-im-ti-ka 9 KURUM6MEŠ ŠID-nu-ma [i-šak-ka]-a-nu

del destino come pasto conteranno nove razioni di pane.

i-na SAĜ-[š]u-uk-ka ina NĺG.GA-ka [a-na]

Nel tuo capitale, in tua proprietà

li-im [U8].UDUHI.A-nu en-zu ku-sí-t[u4]

mille pecore, capre e vesti

ina ŠÀ-ka NĺG.TUKU-šu u NINDA u GÚ.UN [LUGAL KÙ.BABBAR-šu-ma È-ma]

a te cari: tutto ciò che possiedi, il pane, il tributo del re e l’argento se ne andrà.

mi-ṣu U4-mi-tu4 šá GU7 NINDAMEŠ ma-‘a-duMEŠ ir-ri-qa ZÚ-ni

Pochi i giorni in cui si mangia il pane, molti quelli in cui il tuo dente sarà giallo.

mi-ṣ[u] šá na-da-ga5-lu dUTU ma-‘a-du KI.MIN

Pochi i giorni in cui guardiamo il Sole, molti i luoghi

šá nu-[ša]b ina ĜIŠ.MI DAĜALxLA.LA

in cui siederemo nell’ombra. Grande

ki-[ir-ṣ]i-tu4-um-ma ni-šu i-ni-lu

è l’inferno e l’umanità giace al suo interno.

d[Ereš]-ki-gal AMA-ni-ma né-e-nu DUMUMEŠ-ši

Ereškigal è nostra madre e noi siamo suoi figli.

[ĜAR-nu-m]a ina KAN4-bi ki-ir-ṣi-ti ṣa-lu-lu

Alle porte degli inferi hanno posto uno schermo

[aš-šum T]I.LA-tu4 NU i-da-ga-lu BA.ÚŠ-ti

perché i viventi non vedano i morti.

[…]x an-na-a da-ba-ba a-bu

Questa è la discussione che padre

DUMU-šu TÉ[Š.BI] DI.KU

e figlio affrontarono insieme.

Come si evince, il passo è molto criptico. Limitiamoci ai principali punti critici. Šupê-Amēli è definito malku, che significa ‘principe, re’, ma non vi è ragione per pensare che lo sia. Dal momento che la stessa radice vuol dire anche ‘consiglio’, è meglio tradurlo come ‘consigliere’. Anēnna può essere l’interrogativo ‘dove?’ oppure una forma alternativa di nīnu ‘noi’: quindi, il quarto verso si potrebbe tradurre anche ‘noi siamo colombe, uccelli lamentosi erranti’. Ki-ir-ṣi-tu4-um può voler dire ‘casa diroccata’, ma più probabilmente è la fusione tra il sumerogramma KI e la corrispettiva glossa accadica erṣētum ‘terra’, ma in questo caso ‘inferi’.

Passiamo ora al commento. Il figlio prende la parola in maniera dichiaratamente polemica e ostile: se prima è stato in silenzio, ora è giunto il momento di parlare. Se si accetta l’interpretazione di Seminara, nella visione del figlio gli uomini sono come colombe fuggitive, costantemente irrequieti come tutti gli esseri viventi sulla terra (il bue, il mulo, l’asino…). L’esistenza umana è penosa a tal punto che gli dèi – Šamaš e Inanna, quasi mossi a pietà – assistono all’ostetricia per controllare e limitare le nascite. L’azione umana è inutile, vanificata dalle catastrofi naturali e dall’ingiustizia umana (quando non va distrutto, il raccolto è dissipato tra tasse e tributi).

Poi si passa all’attacco nei confronti del padre: hai costruito una casa enorme e ricca, dice il figlio, ma cosa ti resterà quando morirai? Nove razioni di pane. La vita stessa è una prefigurazione della morte: siamo tutti figli di Ereškigal, la regina degli inferi. Solo uno schermo – estremo inganno giocato a danno degli uomini – ci separa dalla morte, consentendoci di portare a termine quella grande illusione che è la vita.

John Martin, La caduta di Babilonia, 1831

Nel complesso, la risposta del figlio è eversiva, ha un carattere ancor più marcatamente individualista ed esistenzialista della saggezza tradizionale, con una forte inclinazione al pessimismo e al nichilismo, secondo una tendenza che è tipica anche della letteratura egiziana e biblica. Seminara vi scorge un lato umoristico, ma è più facile pensare che siamo in presenza di una semplice tenzone letteraria tra la Tradizione e la nuova etica della Babilonia cassita. O meglio, tra quelli che Michael Fox chiama rispettivamente sapere positivo (quello dei Proverbi e delle Istruzioni di Šuruppak) e sapere negativo (quello del Qoelet e delle Istruzioni di Šupê-Amēli), altrimenti detto sapere critico. Questa seconda forma di sapere è caratterizzata da due temi principali: quello della vanitas, che richiama immediatamente il Qoelet, e quello del carpe diem.

A ben vedere, anche questa seconda tendenza affonda le sue radici nella letteratura mesopotamica. Nel Níĝ-nam nu-kal (Nulla è di valore) si legge che nulla dura in eterno, perciò la nostra vita dev’essere all’insegna della dolcezza (verso ripreso anche nelle Istruzioni di Šuruppak). Inoltre, in questo testo si riscontra un’attitudine agnostica, quando si dubita che il fumo di un sacrificio possa raggiungere gli dèi in cielo. Nell’Epopea di Gilgameš, Siduri consiglia a Gilgameš di dimenticarsi della vita eterna e di pensare piuttosto ad amare il presente, la moglie e i figli, mentre negli Inferi Utnapištim introduce il tema della vanità facendogli un discorso simile a quello del figlio di Šupê-Amēli. Nella Ballata dei primi sovrani (XIII secolo a. C., 22 versi) si legge che sin da tempi immemori c’è il vento, ma neppure gli uomini straordinari sono immuni alla morte. Infine, la forma dialogica è presente anche nell’Arad mitanguranni o Dialogo del pessimismo, un’opera del I millennio a. C. che affronta il tema della teodicea sotto forma di botta e risposta ironico tra un padrone e il suo schiavo.

Dal momento che il nostro testo è tramandato solo da fonti periferiche, cioè esterne alla Mesopotamia, Seminara ipotizza che esso sia nato nell’ambito della Siria del Tardo Bronzo, in un contesto di crisi, di frammentazione politica e di vassallaggio alle grandi potenze (Mittani, Ḫatti e l’Egitto). In realtà, però, è già citato come [ši]-me milkam in un catalogo di testi letterari del periodo paleobabilonese (prima del 1595 a. C.). Possiamo ipotizzare che la risposta del figlio sia stata aggiunta in un secondo momento, ma è più facile pensare che entrambi questi atteggiamenti intellettuali – il sapere positivo e il sapere critico – siano caratteristici del pensiero mesopotamico.

A questo punto, viene spontaneo chiedersi se davvero la differenza tra la filosofia dei Greci e la non-filosofia dei popoli mesopotamici stia nella natura razionale-teorica della prima contrapposta all’inclinazione pratica dei secondi, come scrivono i manuali di filosofia. Secondo Abbagnano e Fornero, «se la sapienza orientale è di tipo religioso e tradizionalistico (poiché è privilegio e patrimonio della casta sacerdotale, e dunque ancorata a una tradizione ritenuta sacra e immodificabile), la sapienza greca si presenta invece, in quanto filosofia, come una ricerca tradizionale che nasce da un atto di libertà di fronte alla tradizione, al costume e a qualunque credenza accettata come tale». Eppure, ci sembra che questo testo dimostri un atteggiamento intellettuale in controtendenza, forse sviluppatosi in un periodo di crisi o forse parte essenziale di quella cultura. Quel che è certo è che l’immagine che comunemente abbiamo della letteratura mesopotamica, vista come il prodotto di un regime autocratico che non lascia spazio al dissenso, dev’essere quantomeno rivista.

Christian Allasino

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Per approfondire

La traduzione è a cura dell’autore dell’articolo, ed è frutto di lunghe e attente discussioni a lezione con il professor Maurizio Viano, che insegna letteratura sumerica e accadica all’Università di Torino. Per una trattazione degli archetipi del sapiente, si consiglia Aleida Assmann (a cura di), Weisheit. Archäologie der literarischen Kommunikation III, Fink, Monaco 1991. Per un’introduzione alla letteratura sapienziale e un’edizione delle Istruzioni di Šuruppak, si consigliano i testi di W. G. Lambert (Babylonian Wisdom Literature, Clarendon Press, Oxford 1960) e di B. Alster (Wisdom of Ancient Sumer, CDL Press, Bethesda 2005). Per una buona edizione del testo, si rimanda a Y. Cohen, Wisdom from the Late Bronze Age, Society of Biblical Literature, Atlanta 2013, oppure a D. Arnaud, Corpus des textes de bibliothèque de Ras Shamra-Ougarit (1936-2000) en sumérien, babylonien et assyrien, Editorial Ausa, Barcellona 2007. In italiano è disponibile la traduzione di G. Seminara (“Le Istruzioni di Šūpê-Amēli. Vecchio e nuovo a confronto nella ‘sapienza’ siriana del Tardo Bronzo”, in: M. Dietrich, O. Loretz, Internationales Jahrbuch für die Altertumskunde Syrien-Palästinas, 32, Ugarit Verlag, Münster 2001).

*In copertina: Cornelis Anthonisz, La caduta della torre di Babele, 1547

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