05 Novembre 2024

Vandali wagneriani. Piccolo discorso su un’ennesima, inutile biografia

Nel febbraio del 2022, su questa rivista, m’incaricavo di mettere alla berlina gli scempi linguistici e culturali con cui la docente universitaria Ines Testoni aveva composto Il grande libro della morte (il Saggiatore). In quell’occasione dichiarai in incipit di non amare codesto genere d’interventi. Prediligo infatti occupare tempo spazio ed energie, miei e dei lettori, per tentare sia di edificare, sia di promuovere chi e che cosa, a mio controvertibile giudizio, lo meriti. Ribadisco tutto.

A riprova implicita di ciò, c’è il mio silenzio – un silenzio ben sdegnato, s’intenda – davanti ai non pochi volumi (nel senso di massa cartacea, che altro certi oggetti non sono, e quindi non certo quale sinonimo di «libro») in che mi sono imbattuto negli anni e che avrebbero invero meritato la pubblica gogna.

Nondimeno, lo ammetto, talora cedo, o voglio cedere, dacché davanti a certe catastrofi è impossibile ratternersi, e farlo implicherebbe, per certi versi, visti alcuni aspetti della mia attività di scrittore, complicità.

Sicché eccoci ancóra una volta alle prese con una perla della nostra editoria: Wagner, il cane e il pappagallo. Una biografia emotiva, di tal Valerio Vicari, direttore artistico dell’Associazione Roma Tre Orchestra e altre cose, pubblicato dalla Ets di Pisa. Come sempre in simili casi di sfacelo, i guasti sono tanti e tali da gettare nell’imbarazzo d’una scelta che dovrà giocoforza essere a un dipresso aleatoria, quantunque più che eloquente e paradigmatica.

Principio dal fondo (del così detto “libro”, e non ancóra del barile), ossia dalla Bibliografia.

Alla sezione «Biografie», Vicari annette diversi titoli che non sono affatto biografie, ad esempio quello di Vincenzo Ramón Bisogni e Fuoco magico di Bertita Harding, quest’ultima addirittura solo un romanzo biografico. Per contro Vicari esclude, per patente “distrazione”, alcuni biografi a dir poco cruciali, classici dell’indagine wagneriana; due su tutti: il Glasenapp e il Martin Gregor-Dellin. È come escludere, mutatis mutandis, Carcopino e Canfora da una bibliografia su Giulio Cesare, o le opere di Franco Cardini e Jacques Le Goff in uno studio sul Medio Evo.

Inoltre, Vicari è incapace di distinguere un titolo originale da un titolo editoriale. L’autobiografia wagneriana nasce e va nel mondo intitolata semplicemente così: Mein Leben, La mia vita. Vicari lo ignora, altrimenti non avrebbe inserita l’edizione della Ghibili, che reca un ruffiano e inutile sottotitolo: La mia vita. Autobiografia dell’artista più amato e odiato di sempre.

Ma ben di peggio Vicari combina con il famoso libro teorico wagneriano, conosciuto da noi soprattutto come L’opera d’arte dell’avvenire (Das Kunstwerk der Zukunft). Il nostro spericolato pasticcione riesce a riportarne un’edizione, pubblicata da un editore oltremodo scalcagnato, il quale, oltre a sostituire «avvenire» con «futuro» (ma è nulla di grave), vi aggiunge anch’esso un sottotitolo da dementi: Alle origini della Multimedialità.

Codesto campione delle sciamannate nostre lettere d’oggidì, mostra patenti difficoltà anche nella copiatura: Wagnerismi, il libro di Alex Ross recensito e più volte citato su questa rivista dallo scrivente, diventa sempre Wagner-ismi, così, con un trattino piantato in petto, del tutto inventato.

Anche il succitato Ramón Bisogni finisce nel tritacarte di Vicari, il quale non solo omette l’accento acuto sul primo cognome e scrive quindi «Ramon», ma modifica anche il titolo del suo libro. La parola Rheingeld, «il danaro del Reno», coniata di bel nuovo da Bisogni per fare il verso al wagneriano Das Rheingold, (L’oro del Reno), viene infatti da Vicari abolita e sostituita con l’originale, vanificando così lo sforzo di fantasia del collega (che, visto quel libro, se lo merita). Occorre commentare? Proseguiamo.

In un capitolo intitolato «Tra Marx e Hitler: una questione in sospeso», Vicari si slancia in discesa libera:

«Proviamo a fare un po’ di ordine e torniamo un attimo indietro: se Hitler all’epoca [di Wagner] non era neanche nato, Marx sì, eccome, anche se con Wagner non si incontrarono mai, né abbiamo traccia certa di alcun commento espresso dall’uno nei riguardi dell’altro» (p. 218).

Gli è però che Richard Wagner, sì, non nominò mai Karl Marx. Marx invece nomina eccome Wagner, e con grande sfavore. Dove? Che Vicari si cerchi da sé il passaggio.

Concediamolo: sia Marx sia Wagner hanno scritto migliaia e migliaia di pagine ed è molto difficile ritenere o accorgersi di tutto. Nondimeno, se non si sia più che certi d’un fatto, si taccia o almeno si adoperi qualche dubitativo, anziché sparare la prima convinzione che passi per la zucca.

La galleria degli orrori prosegue con una citazione sbalorditiva:

«A seguito dell’improvvisa morte di Richard, Cosima prese le redini del Festival, pur nello scetticismo di molti (perché donna, perché francese di origine, perché figlia illegittima e pure divorziata). Ma alla fine Cosima prevalse avvalendosi anche della collaborazione di Houston Stewart Chamberlain, che nel 1908 ne aveva sposato la figlia Eva» (p. 221).

Qui ci sono almeno due artigliate sulla lavagna. Primo: la dipartita di Richard Wagner non fu affatto improvvisa. Non pretendo la lettura della mia indagine sulla Morte di Wagner, sì invece quella di qualche studio, diffuso e notissimo; le lettere del musicista; i diari di Cosima; la testimonianza di Anton Bruckner; e parecchio altro materiale: tutti vòlti a spiegare che la verità su quel 13 febbraio 1883 è l’esatto opposto di quella detta da Vicari.

Secondo: la resistenza contro Cosima in quel frangente fu pressoché nulla, e anche su questo punto ci sono montagne di documenti.

Ora si rilegga per bene la ricostruzione di Vicari, prestando attenzione ai tempi verbali: stando alla logica e alla grammatica di costui, parrebbe che Cosima abbia prese le redini di Bayreuth dopo il 1908, anno dello sposalizio tra Eva e Chamberlain. Delle due, l’una: o Vicari ha evitate le scuole medie e quindi ha difficoltà a maneggiare i verbi; ovvero non sa che Cosima assunse la guida del Festival sin dal momento stesso in cui Wagner morì, cioè nel 1883.

Sembra di poi, leggendo Vicari, che la supremazia bayreuthiana di Cosima sia stata dovuta anche alla collaborazione di Chamberlain. Oppure Vicari sta dicendo che questi sostenne Cosima durante la gestione del Festival? A questo punto solo un arùspice potrà sciogliere gli arcani vicariani.

Ma Vicari deve avercela proprio con Cosima (senza avvedersene, beninteso). Altrove, infatti, egli cita, con favore e per appoggiare altre sue castronerie, un autore del suo stesso calibro, pel quale Cosima «si compromise fortemente con la dittatura nazista» (p. 14). Miracoli wagneriani! Una donna morta nel 1930 riesce a legarsi a un regime sorto tre anni dopo. Che Cosima fosse una volpe era noto a tutti, ma che avesse anche facoltà paranormali no. Oppure dobbiamo rettificare tutti i libri di storia, che collocano l’ascesa al potere di Hitler nel 1933?

Dedichiamo ora uno spazio a un duplice salto mortale, che ha come oggetto di discussione un tema davvero originalissimo su cui – son certo – nessuno studioso del maestro lipsiense ha giammai proferita parola: Wagner e il Nazionalsocialismo.

Hitler, leggiamo, «rese omaggio alla vedova del figlio Siegfried [il primogenito di Wagner] e per i figlioletti, ovvero i nipoti del grande Richard, iniziò, poco alla volta, a diventare “lo zio Wolf”. Si arriva così a Hitler che presenta Wagner come il suo alter ego, il Führer deutscher Art» (p. 221). Qui, davvero, ho avuto un capogiro.

Lasciamo stare la ricostruzione che sta in piedi come un ubriaco a passeggio per Trieste durante la bora, e concentriamoci sul tedesco di Vicari. Pel quale, se sono riuscito a decrittare il suo italiano rupestre, Hitler volle trasformare Wagner nel suo omologo in arte. Ora, per esprimere questo alato concetto, Vicari si abbranca alla lingua tedesca, non dissimilmente da un subacqueo in carenza d’ossigeno armato di fiocina e alla caccia d’innocenti creature.

Con il conio «Führer deutscher Art», Vicari vorrebbe intendere: «guida (Führer) dell’arte tedesca». Ma – rullo di tamburi e squilli di trombe –, l’espressione creata da Vicari significa invece guida d’impronta tedesca; guida alla maniera tedesca; guida dai tratti tedeschi, et similia: infatti, arte, in tedesco, si dice «Kunst», e non «Art»! Inoltre, a parte questo esilarante drizzone, se Vicari avesse voluto dire, come sarebbe stato ovvio, «guida dell‘arte tedesca», avrebbe dovuto scrivere «Führer der deutschen Kunst», qualcosa di assai diverso dal capolavoro vicariano.

Mai una frase così breve ha subìte così tante crivellazioni.

Non ci si arrischi a credere, tuttavia, che questa sia l’unica macelleria dell’idioma germanico. Eccone un altro paio: Volksblätter, un giornale tedesco dell’Ottocento, diventa «I Fogli del Popolo»: ma Volksblätter non è articolato, occorrerebbe aggiungere «die». Per Vicari, poi, Der Ring des Nibelungen è «L’anello dei Nibelunghi». Ignoranza e del tedesco, e di Wagner, assai grave, perché anche l’ultimo bazzicabarbieri sa che il titolo della Tetralogia è tutto al singolare.

Se non si conosce una lingua, un autore, li si lasci stare: non è obbligatorio occuparsene. E si eviti di affermare di non conoscere «abbastanza bene il tedesco» (p. 13), quando con la propria dotazione non si riuscirebbe nemmanco a ordinare Kartoffeln und Wein in un’osteria amburghese.

Vicari però, siamo onesti ed equanimi, non si limita a violentare la lingua tedesca: si accanisce anche contro l’italiano. Tutto questo guazzabuglio – verrebbe da dire: ovviamente – è infatti veicolato da una lingua sciatta, elementare, da scombinata chiacchiera al mercato.  Un solo fiore e neppure dei più marcescenti: «Per Richard gli “ebrei” erano più un concetto della mente…» (p. 226, corsivo mio). Forse che esiston anche concetti del fegato, del gomito o dei linfociti? Ma forse Vicari, che spesso ragiona coi piedi, ha voluto specificare. Non si sa mai.

E infatti le riflessioni, ahimè continue, di tutta la fatica vicariana sono ora banali, ora avvilenti per balordaggine, ora francamente stupide. Sentite questa:

«Probabilmente, se Wagner fosse vissuto un secolo dopo, avrebbe scelto di fare il regista cinematografico, di quelli ovviamente che pensano alla sceneggiatura, recitano, dirigono e magari [sic!] scrivono anche la colonna sonora. Uno alla Clint Eastwood» (p. 12).

Inutile dir poi, che in tutto quest’ammasso di carta sciupata, non c’è un misero straccio di guizzo, di documento innovativo, di originalità.

In somma, ci troviamo dianzi a un cataclisma sott’ogni riguardo e senza posa.

* * *

Dico sul serio: come si possano avere sì tanti e tali coraggio e sfrontatezza da scrivere e pubblicare un libro soverchiamente eruttante siffatta prodiga profusione di strazii e d’abissi, mi è quasi oscuro. Chi, se non persone del tutto inconsapevoli di sé medesime e del mondo, son capaci di sfornare un tale intruglio? Oppure, si è così arroganti da imporre lucidamente la propria insipienza e le proprie aberrazioni, consapevoli che il pubblico (e l’editore, beninteso) è ancora più ignorante, sicché ci si compiace a dileggiarlo e incitrullirlo ancor di più? Le due ipotesi possono anche reciprocamente tenersi.

Ampliando lo spettro d’indagine e guardando ora alle scelte editoriali, si possono ravvisare principalmente due fattori, più un ulteriore, che guidano certe scellerate decisioni.

Anzitutto vale il principio per cui anche le pulci hanno la tosse, sicché a tutti è garantito il diritto, in un modo o in un altro, d’esprimersi: e poco conterà se la più parte di costoro sfornerà aborti geneticamente guasti. In secondo luogo, quand’anche qualcuno, con onestà, reputasse inostensibile un’opera, egli sarà assai sovente costretto ad agire contro la propria coscienza: ora per fare ovvero restituire un favore a qualche amichetto o amichetta, ora per ingraziarsi qualche terz’attore.

Terzo (ma ahimè temo non per importanza) l’assenza, oramai conclamata e strutturale nei decisori, della facoltà di sapere discriminare il grano dal loglio, ciò da cui discende, di necessità, la promozione di lavori alla medesima infima altezza degli insindacabili signori giudici delle case editrici. Sono da gran tempo relegati in remote ridotte i cervelli in grado di riconoscere gl’ingegni superiori.

Ma noi, alla fine, si dovrebbe essere assai più tranchant e ripagare con la stessa moneta dell’universale disinvoltura codesti bestiali vandali: senza indugiare in soverchie indagini naturalistiche e sociologiche, denunziarli (in mancanza d’altro) con spietatezza senza appello e a gran voce. E ciò quantunque, fosse pure la più autorevole e ascoltata penna, sia ormai impotente ad arginare questo sempre più crescente maremoto di frantume ora múffido, ora marcescente. Ci possiamo solo augurare di resultare di tanto in tanto utili a quei pochi, pochissimi ancóra volenterosi e seri, i quali inavvedutamente si accostino, ovvero siano obbligati da qualche professore, a certi “oggetti misteriosi”.

Naturalmente, è da aggiungersi in chiusa e quasi pleonasticamente, aver segnalata in via privata e con modi diplomatici, ai responsabili della casa editrice codesta graveolente pattumaia non è servito ad alcunché. Come infatti a suo tempo vedemmo con il caso Testoni-Saggiatore, e come sa chi abbia a che fare con l’ambiente editoriale, gl’impiegati e i capi delle case editrici soventissimamente non usano degnarsi di rispondere, reputando così di dimostrare disprezzo per il mittente. Così portandosi, invece, dimostrano soltanto, e anzi confermano, il loro rango culturale morale e sociale.

Luca Bistolfi

Gruppo MAGOG