18 Marzo 2019

Ecco perché continuiamo ad amare i Nirvana (in ogni caso, meglio ascoltare “All Apologies”): Matteo Fais dialoga con Paolo Giovanazzi, che non ha scritto la solita biografia di Cobain & Co.

Se c’è una cosa difficile, praticamente impossibile, è trovare un autore di libri dedicati a musicisti, o cantanti, che sappia appassionarti come un grande romanziere. Paolo Giovanazzi, autore per Giunti di Nirvana. Teen spirit. Le storie dietro le canzoni, ce l’ha fatta. Dimenticatevi il solito testo compilativo, pedante, privo di ritmo, buttato giù in fretta e furia seguendo le voraci esigenze di un mercato che non vede l’ora di spremere soldi dal cadavere di uno dei più grandi gruppi musicali di sempre. Giovanazzi racconta la storia di ogni singola canzone della band di Seattle, da quando fu concepita nella mente di Cobain al mixaggio finale, con il trasporto con cui Bukowski narra di una sua bevuta o Agatha Christie rivela infine il nome dell’assassino.

Davvero, raccontare i Nirvana non è semplice. L’autore lo fa prendendo in esame i pezzi in tutte le variazioni, mutazioni, restituendoci il travaglio di ogni singolo accordo di Kurt o rullata di Grohl, parlandoci delle chitarre spaccate e dei pezzi di batteria riparati con lo scotch.

Il testo è per gli appassionati, ma può tornare utile a chiunque voglia immergersi nella cupa vitalità di un gruppo che, inconsciamente e suo malgrado, ha fatto da specchio dei tempi. Apatia, instabilità emotiva, difficoltà nello stare al mondo, nel tollerarlo. L’idea che, in ultimo, “non importa”. Giovanazzi, con la sua prosa coinvolgente, ha dato voce a tutto questo, a un passato che ci ha segnati e che inevitabilmente sembra sempre lo si viva ex post. Anni della nostra vita che ci sono sfuggiti dalle mani, ma dai quali non vorremmo mai distaccarci.

Partiamo da una riflessione generale. Non ti sarà sfuggito che, per fare il verso a una famosa canzone, non si esce vivi dagli anni ’80 – ma direi anche dai ’90, come dai ’60 e ’70. Qualcuno ha parlato di sindrome da nostalgia e remake. I giovani vanno ai concerti dei Rolling Stones, ovvero di quattro – non so più quanti siano, in realtà – arzilli vecchietti. I Guns ’n’ Roses sono tornati e stanno sulla cresta dell’onda, malgrado Axl Rose assomigli sempre di più al vecchio zio, ex playboy, oramai alcolizzato e male in arnese. Che opinione ti sei fatto in merito a questa tragica e un po’ grottesca situazione? C’è ancora in giro il fermento di un tempo?

In realtà non credo che sia poi così diversa la situazione, rispetto al passato. È il mercato a essere mutato. Una volta per ascoltare la musica si pagava, questa è la differenza più evidente. Per fare soldi, oggi, bisogna fare concerti. Chi ha una storia, o un nome, rimasti nella memoria ha da spenderli il più possibile e sono pochi quelli che hanno resistito al richiamo – ad esempio gli Smiths, che hanno rifiutato offerte decisamente notevoli. Visti i soldi che ci sono in ballo, non so se al loro posto avrei fatto altrettanto, a voler essere totalmente onesto. Quanto al fervore, al momento: forse c’è fin troppa produzione, in realtà. Se vai a scavare, al di là del cosiddetto mainstream o della musica indipendente più istituzionalizzata, esiste veramente una quantità impressionante di roba in circolazione. Negli anni ’80 e ’90, arrivare a confezionare un disco era più difficile. Registrare e stampare costava molto di più e ciò, di per sé, determinava una severissima selezione. Chi arrivava al disco aveva già un suo pubblico. Oggi come oggi un album è alla portata di tutti, come poi inserire qualcosa su Spotify. Puoi fare tutto da casa, anche le registrazioni. Dunque, la mole è tale che risulta più difficile orientarsi. Poi, sai, per molta gente subentra la questione dell’età, la stanchezza. Diciamo che la voglia di scoprire cose nuove passa. Direi che, quindi, il fermento al momento è notevole, ma c’è troppo in giro ed è difficile trovare qualcosa che metta d’accordo un po’ tutti.

Come mai, ancora a distanza di venticinque anni, siamo qui a parlare di Kurt Cobain e dei Nirvana?

Bella domanda, ma rispondere è difficile. Ci sono cose che rimangono, mettiamola così. Potremmo chiederci perché, negli anni ’80, io e i miei compagni di classe compravamo i Doors che, per quanto più vicini, erano già morti e sepolti. Per i Nirvana non ti so dire, non ho la percezione di quanti salti generazionali abbiano compiuto. Vedo in giro tanti giovani con la loro maglietta, ma so che non è più come quando ero ragazzo io. Non significa appartenenza, ma unicamente che ti piace la maglietta. Ai miei tempi, comprare la t-shirt di un gruppo era un segno distintivo. Adesso, non so. Forse per qualcuno. Insomma, non so quanto i ragazzi abbiano ancora interesse nei Nirvana. Per chi ha la mia età conta la nostalgia, il fatto che ti piacevano e ci sei rimasto attaccato. Tanti, come dicevo prima, dopo una certa età smettono di seguire. Si sono formati i loro gusti: ciò che gli piaceva è anche quello che continuano ad ascoltare. Poi, ovviamente, chi detiene i diritti dei Nirvana ha interesse a mantenere viva la cosa.

Come giustamente sta scritto nella presentazione del tuo testo “Sono usciti tantissimi libri sui Nirvana ma nessuno come questo. Si è sempre privilegiato l’aspetto biografico, la drammatica storia di Kurt Cobain e l’impetuosa ascesa della band nei giorni furenti del grunge di Seattle. Si è sempre fatta poca attenzione alla musica, alle canzoni. Qui invece abbiamo un libro che parla di canzoni; in maniera dettagliata, precisa, quasi maniacale”. Come mai hai fatto questa scelta? Volevi riempire un vuoto del mercato, o pensi che il culto del personaggio Cobain abbia finito per mettere in secondo piano la qualità artistica della sua opera?

Mi piacerebbe darti una risposta da autore, ma la verità è piuttosto banale. La Giunti ha una collana di libri sui gruppi e le loro canzoni. A me andava bene rientrarci, perché preferisco scrivere dei singoli album e brani, piuttosto che il solito libro biografico. Ho fatto pertanto un lavoro di ricerca, d’archivio, recuperando tutte le varie riviste, i libri e ricercando sui siti internet. La ratio di tale operazione è che anche l’appassionato più fanatico è difficile abbia voglia di andare a raccogliere tutto quello che si sa su ogni pezzo, sulle sue varie fasi. Una nuova biografia avrebbe senso solo avendo informazioni di prima mano, magari dopo aver parlato con qualcuno che conosceva bene la band e ti racconta qualcosa che ancora non sia noto alle cronache. Altrimenti, i fatti più o meno si conoscono. Negli anni precedenti avevo fatto un lavoro simile a questo con Springsteen e i Rolling Stone – due imprese abbastanza complicate, data la quantità di canzoni. Con i Nirvana, che decisamente hanno una produzione ridotta, è stato molto più semplice. Per risponderti, comunque, direi che il mio è, essendo io un giornalista, un libro da giornalista.

Chiariscici un punto una volta per tutte, per favore: i Nirvana sono grunge?

È un po’ un falso problema, nel senso che, per dare una risposta definitiva, bisognerebbe avere una definizione precisa di cosa sia stato il grunge. Il termine ha iniziato a prendere piede, nella stampa musicale, quando sono emersi una serie di gruppi, con i connotati di quella che solitamente viene definita come “una scena”: area geografica abbastanza delimitata, nella fattispecie Seattle, una o due etichette del posto, come per esempio la Sub Pop. Ci sono, poi, un paio di teorie su come sia nato il nome. La più accreditata è quella secondo cui i Mudhoney, alla domanda su come fosse la loro musica, risposero proprio “grungy”, come dire “sporca”. Questa definizione deve essere piaciuta particolarmente perché, da quel momento, si è diffuso l’uso del termine, fino a divenire distintivo per un certo genere di band. Ci sarebbe però da chiedersi quali siano, in ultimo, i tratti caratteristici del grunge. Sul sito del produttore Jack Enedino, c’era per esempio una polemica contro quelle riviste che lanciano rubriche del tipo “i dieci migliori album grunge”. Lui contestava il fatto di vedervi figurare un disco come l’Unplugged dei Nirvana, sostenendo che il grunge è una musica da gruppo rock e suona distorta. La definizione, però, è quantomeno vaga. Infine “grunge” è un’etichetta, un capello messo su una serie di gruppi gravitanti intorno a un certo giro e caratterizzati da un suono duro e aggressivo. Come i Nirvana, che incidevano per la Sub Pop, e, pur non essendo di Seattle, vi abitavano. In tal senso, sì, lo erano. Per il resto la definizione risulta piuttosto fumosa.

Se dovessi delineare le mutazioni più evidenti nella carriera dei Nirvana, quali indicheresti?

Il passaggio più evidente è quello tra il primo album, Bleach, e Nevermind. Mentre in Bleach vi erano molti riff pesanti, con lui che vi urlava sopra, il secondo album presenta melodie e pezzi orecchiabili che suonano ancora duri e cattivi, ma con ritornelli più easy listening. Quello è stato il rivolgimento più evidente e la chiave che ha permesso loro di vendere tanto. Forse In Utero è stato una mediazione tra le due anime, quella pop unita a quella rock più rumorosa e dissonante. Nell’ultimo disco in studio viene inoltre riservata maggiore attenzione al testo, inseguendo una dimensione narrativa. In Nevermind le liriche erano invece costituite da frasi slegate tra loro, a volte anche contraddittorie si veda, per esempio, Come as you are in cui un verso contraddice quello precedente, senza intenzione di raccontare alcunché. Rimarrà il dubbio di che strada avrebbero preso dopo In Utero.

A tuo avviso, esistono canzoni palesemente brutte dei Nirvana?

 Palesemente brutta direi Beans, contenuta nel cofanetto With the Lights Out. In verità, non so nemmeno se la si possa definire una canzone, visto che si tratta semplicemente di Cobain che fa lo stupido con un registratore, velocizzandosi la voce. Di proprio orribili, per il resto, non me ne vengono. Poi, è questione di gusti. Io, personalmente, non sono mai stato un entusiasta di Bleach. Lo trovo abbastanza ripetitivo. Non mi dice granché – non era nelle mie corde e non lo è tuttora. Conoscevo già qualcosa di quel primo album, quando uscì Nevermind, e il mio scarso amore per esso è anche il motivo per cui non vidi i Nirvana dal vivo, quando per ben due volte passarono qui in Brianza, prima che la fama li travolgesse. A quei tempi stavano girando in Europa, ma suonavano ancora in locali piccoli. Snobbati i concerti in zona, di lì a qualche giorno, ascoltai Teen Spirit, rendendomi conto che probabilmente avevo fatto una cazzata. Forse quello era il loro momento migliore, l’ideale per vederli dal vivo, quando la formazione si era definita con Dave Grohl alla batteria, il loro stile era già formato, ma loro stavano ancora girando con un furgone. Durante l’ultimo tour, invece, c’era già qualcosa che non funzionava. Lui cominciava a essere stanco, o comunque non era nelle condizioni migliori.

Mi piacerebbe che scegliessi la tua preferita tra le canzoni dei Nirvana e introducessi i lettori al suo ascolto.

In questo momento, sceglierei All Apologies. È una canzone scritta molto prima della sua pubblicazione. Le prime registrazioni risalgono addirittura ai tempi di Nevermind. I pezzi di In Utero nuovi, in realtà, erano veramente pochi. Cobain aveva recuperato diverso materiale precedente e ciò significa che in quel periodo stava scrivendo poco. In una delle ultime interviste aveva detto che sarebbe stato bello vedere cosa sarebbe riuscito a tirare fuori per il disco successivo, visto che non aveva più brani da parte e avrebbe dovuto, per così dire, cominciare da zero. Poteva essere il segnale che, in realtà, il momento magico era già finito. Il motivo per cui ho scelto questo brano, comunque, è che ne apprezzo la melodia, una delle migliori scritte da Cobain, tant’è che ha addirittura ricevuto l’onore di una cover da Herbie Hancock. Ne parlai anche con lui, quando lo intervistai anni fa. Mi raccontò di aver rifatto questo pezzo perché, in quel suo album, in cui aveva deciso di riprendere brani rock per trasporli in chiave jazz, quello dei Nirvana era veramente la scelta più improbabile. Insomma, si trattava di una sfida. Al contempo, questo brano gli offriva più possibilità per via della melodia ben definita. Un altro aspetto che mi affascina è che, in una delle prime versioni, il pezzo fosse concepito come acustico, vagamente alla Beatles una parte di tamburello, effettivamente, li ricorda. Infine mi piace il fatto che Cobain la considerasse una canzone dedicata alla moglie e alla figlia, anche se nel testo non vi si fa riferimento. Era la melodia a dargli un senso di pace e ciò lo legava al pensiero delle due. Questo è peraltro indicativo di come desse maggiore importanza alla musica rispetto ai testi. Com’è noto, lui spesso scriveva questi all’ultimo minuto. Chi ama psicanalizzare ti direbbe che ciò significa che tirava fuori quello che aveva dentro senza filtrarlo. In verità, non lo sapremo mai.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG