Se è vero, come lo è, che dopo l’avvento di Beethoven la musica europea non poté più essere la stessa, è ancor più vero che dopo Richard Wagner furono le arti pressoché intere, e persino qualcosa in più, a dover mutare radicalmente di volto, e non solo in Europa.
Il «classicismo rivoluzionario» – stupenda definizione di Charles Rosen – del Gran Sordo costrinse la generazione di compositori coeva e successiva a ridisegnare intenzioni e progetti misurandosi innanzitutto con esso, al fine di non perpetuare sinfonie e sonate à la Haydn, quando andava bene sulla scia di Mozart. Proprio Haydn, che di Beethoven era stato maestro, suggerirà all’allora ventenne di non presentare in pubblico l’ultimo dei Tre trii, che poi diventeranno l’Opus 1: così perfettamente classico ma altrettanto già traboccante e promettente di quei rivolgimenti estetici di cui Beethoven sarà fondatore e spartiacque. Era solo il 1794.
Ma è con Wagner che muta radicalmente e in modo irreversibile il volto dell’Occidente artistico, e ciò nonostante le resistenze, le guerre, i ricatti, le ottusità, le censure, i divieti, le intimazioni a dire o a tacere. A capirlo e spiegarlo attraverso una miriade di dettagli ed esempi è il mostruoso, quasi mille e duecento densissime pagine, Wagnerismi di Alex Ross (Bompiani),musicologo e storico della musica americano, al quale va tutto il merito di aver capito e immortalato ciò che quasi mai o assai di rado e mal volentieri è ammesso dai critici di ieri e di oggi, ma che qualsiasi osservatore attento, wagneriano o meno, aveva ha già fatto proprio da tempo.
E mi sorprendo alla mia reazione direi entusiastica, ché ogniqualvolta e da trent’anni, tanto dura la mia ossessione, mi imbatto in un libro su Richard Wagner, mi si drizza il pelo sulla schiena, strizzo gli occhi, storco il naso, provo moti di fastidio e schifo, ché già sento battere e ribattere la solita sgangherata e becera solfa su pangermanesimo, nazionalismo, pessimo carattere, ruberie di quattrini altrui (come se poi ci fosse andato al casino) e, naturalmente, antisemitismo. Quasi mai mi sbaglio. Sono così prevedibili.
Certo Ross non evita alcune viete e sciocche tiritere che ci assediano e tormentano dall’Ottocento sino all’incrudimento successivo al 1945, sino a oggi. Ma è il fio da pagare, volenterosi e convinti o renitenti, scrivendo di Wagner con la pretesa di essere pubblicati, o per leggerne.
A parte ciò, Alex Ross compone un’opera davvero ammirevole e di somma utilità, tanto per gli addetti ai lavori wagneriani, quale ne sia l’animo, quanto per gli storici della cultura, i quali ultimi ottengono con essauna traboccante silloge, e ragionata, sulla ricezione del «dio Wagner», ancora vivo in tutto l’Occidente, colto, men colto, popolare. Il lavoro denuncia uno scavo attento del bagaglio culturale occidentale ed è diviso a temi, ad argomenti entro di che si innesta un turbinio di nomi, opere ed eventi, che in un modo o nell’altro vedono Richard Wagner protagonista o almeno interlocutore privilegiato quando non esclusivo.
Wagner forgiatore o ricreatore eccelso dell’opera d’arte totale, sì, ma altrettanto l’artista più universale mai esistito, colui che con la parola scritta della sua sterminata opera in prosa, ivi compreso l’epistolario, in teatro e persin nei maneggi e nelle operazioni pubbliche e private, seppe e invero volle lasciare la più profonda e solida impronta in tutto l’Occidente. Ma la penna mi sta sfuggendo di mano ed è meglio entrare in questo libro. Tolgo dalla cornucopia americana in maniera aleatoria.
Sorprenderà ritrovarsi Richard Wagner nella Russia comunista. Quantunque da quelle parti la cultura francese spadroneggiasse, Wagner riuscì a ritagliarsi un notevole spazio.
«L’interesse per Wagner – scrive Ross – raggiunse i vertici della nuova gerarchia sovietica. Vladimir Lenin fu un wagneriano occasionale… “Amava moltissimo Wagner”, ricordò la vedova Nadežda Krupskaja… Ascoltò la musica del Venerdì Santo dal Parsifal a Londra nel 1903, assisté a rappresentazioni wagneriane mentre era in esilio a Zurigo e tre libri di Wagner erano presenti nella sua biblioteca al Cremlino. Quando, nel 1920, depose una corona [di fiori] al Monumento delle vittime della rivoluzione… venne accompagnato dalla musica della Marcia funebre di Siegfried».
Non meno appassionato di Wagner fu Anatolij Lunačarskij, capo bolscevico poco noto ai non addetti ai lavori e sui daremo qualche cenno in un prossimo curioso contributo sul cosmismo russo. Lunačarskij era arrivato al comunismo via Nietzsche, Wagner e il teosofismo: un «percorso tortuoso» afferma Ross a ragione, che però lasciò tracce anche se non così tanto singolari e bizzarre come si potrebbe credere e come emergerà meglio in quel contributo.
Commissario del popolo all’istruzione e «principale autorità culturale nei primi anni del regime», Lunačarskij nel 1918 scrisse l’introduzione a L’arte e la rivoluzione, una delle opere più incendiarie di Wagner. «Il movimento rivoluzionario del 1848 da cui si originò il decisivo Manifesto del partito comunista dei nostri grandi maestri Marx ed Engels si riflesse anche nel breve, vivace, profondo e rivoluzionario opuscolo del non meno grande Wagner» (corsivo mio). E le sorprese in casa sovietica non sono tutte qui.
Uno dei capitoli più interessanti è «La roccia di Brünnhilde», dedicato in gran parte alla scrittrice statunitense Willa Cather, da noi, mi pare, poco nota. Willa Cather, nata in Virginia e vissuta a lungo in Nebraska, fu una figura eccentrica nel senso stretto del termine, del mondo letterario e del secolo. Femminista ma non in senso moderno, esaltava le donne eccezionali mostrando distanza da quelle ordinarie e al contempo dalle femministe tout court. Anche per questo, spiega Ross, «le eroine di Cather, come quelle di Wagner, pur all’interno di un ordine sociale maschile superiore sprigionano potere». Avrei qualcosa da obbiettare sull’«ordine sociale maschile superiore» in Wagner, il quale mi sembra oltremodo dominato dall’eterno femminino, e così i suoi personaggi. Ma transeat. Secondo Ross «pochi romanzieri hanno registrato il mondo dell’opera in modo così efficace», e in particolare quello wagneriano, come Willa Cather e a leggere ad esempio Il canto dell’allodola, il suo romanzo più celebre e robusto, gli si può dare ragione. È un peccato, vista la tirannia dello spazio, non potersi dilungare oltre su questa scrittrice, ma vale la pena di conoscerla bene, magari facendosi accompagnare proprio da Ross.
Di segno affatto opposto ma pur sempre debitore è quanto avviene nell’Ulisse. Joyce, pare non trascurabile tenore e notoriamente amante della bella musica, aveva con Wagner un rapporto singolare, ben registrato e spiegato da Ross lungo quasi un intero e vasto capitolo dedicato all’«Olandese volante» con così penetrante acribia che verrebbe quasi da dire che senza Wagner non ci sarebbero stati né Joyce, né Ulisse. E mi scuso per la seconda promessa: torneremo di necessità sulla faccenda parlando dei prodromi di Bloom & C.
Dall’Irlanda torniamo negli Stati Uniti, ora in California, per scoprire che nemmeno la Disney è immune dal “morbo” wagneriano. Spiega infatti Ross:
«Quando Walt Disney commissionò un castello turrito per Disneyland, il suo parco divertimenti ad Anaheim, in California, i suoi progettisti… si ispirarono a Neuschweinstein, il castello di Ludwig II sulle Prealpi bavaresi. Negli anni cinquanta, i castelli e palazzi di Ludwig attraevano oltre un milione di visitatori ogni anno: erano il prototipo dei parchi a tema moderni, con temi forniti da Wagner. Come Linderhof ha la sua Grotta di Venere, Disneyland ha la sua Grotta di Biancaneve. Matthew Wilson Smith, in The Total Work of Art [l’opera d’arte totale, ossia Gesamtkunstwerk] sottolinea la predilezione di Walt Disney per le leggende popolari medievali, spesso germaniche, e per il vocabolario romantico di sogni e magie… Secondo Smith, tanto Bayreuth quanto Disneyland sono immerse in un “tempo mitico che incoraggia la nostalgia, la speranza e la fantasia, distogliendo dalla consapevolezza del presente”».
Il raffronto tra il sacro tempio di Bayreuth e il parco giochi americano può lasciare perplessi e magari anche irritare, ma non esageriamo: qui siamo a un punto cruciale della faccenda.
L’influenza di Wagner ha bensì diverse scaturigini, che pertengono alla sensibilità e ai programmi dei singoli artisti, ma a mio giudizio l’impatto esercitato da Wagner sulla cultura europea si deve soprattutto e a un certo livello in via esclusiva a un fattore principale e unico: quel mito cui Richard Wagner, dopo secoli di silenzio in tutto il Vecchio Continente, ridà vita. Dico «ridà vita» egli non limitandosi a trattarlo da studioso ma portandolo sulla scena, offerto così ai sensi e all’intelletto. E non pesa che il mito sia di origine nordica e Wagner si rivolgesse principalmente ai tedeschi: i miti, salvo rare eccezioni, sfuggono o possono sfuggire alle specificità etniche e culturali. Se così non fosse, non si spiegherebbe perché Il Signore degli Anelli – che pure ha un significato più circoscritto a petto dell’opera wagneriana – è letto studiato e amato da milioni di lettori di tutto il mondo.
Prova di ciò sia l’introiettamento di certo wagnerismo nella saga di Guerra Stellari, a buon diritto considerabile una sorta di mitologia moderna. Sentiamo un particolare del resoconto di Ross:
«L’intenzione di Lucas era di usare musica preesistente invece di una partitura originale… La colonna sonora provvisoria di Star Wars comprendeva un brano non specificato di Wagner accanto ad altri di Bruckner, Dvořák, Holst, Stravinskij e, stranamente, al Bolero di Ravel».
Ma allorché Lucas incontrò il compositore John Williams, questi «sostenne che una musica appositamente composta sarebbe stata più efficace per creare un’atmosfera di cappa e spada». Il risultato fu «una collezione di una sessantina di Leitmotive distinti».
Questi sono solo sprazzi di un lavoro che già da adesso deve restare infisso negli studi wagneriani e della cultura occidentale.
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Vorrei però abusare ancora della pazienza del lettore impegnandolo in alcune considerazioni bensì a margine ma non così oziose, che servono da complemento al nucleo di Wagnerismi.
Il plauso mio personale e quello che mi auguro verrà da più parti, scaturisce anche dalla coscienza di quanto poco, avanti a Ross, quasi nessuno e senz’altro nessuno come lui, ha inteso metter mano a simile soggetto, forse proprio neppure avvedendosene. Ciò depone tanto a favore di Ross e della sua vastissima cultura, mai sterile o fine a sé stessa, quanto a detrimento degli intellettuali. Ma se fino a oggi nessuno si è immesso in una simile strada, non è affatto un caso, anzi. Tentiamo di vedere quali invece siano alcuni dei motivi di tale “distrazione”.
Partiamo dall’ultima osservazione della prima parte di questo contributo.
L’epoca moderna trova insopportabile il mito. Essa gode di eccellente salute perché dei vecchi miti ha fatto strame; ma non ha potuto sostituirli con altro per colmare il vuoto insopportabile alla natura, se non col nichilismo e con una serie indefinita ideologie, cangianti e strumentali, spesso risibili e miserabili. Gratta gratta, però, c’è sempre un mito, una storia o una serie di storie cui rifarsi e riferirsi, entro cui innestarsi, anima e corpo. E in ogni caso senza una storia l’uomo non è possibile. Epperò non è più il tempo del mito, come non lo era più l’Ottocento. Non è un caso che Richard Wagner sia stato l’unico a ripristinarlo, Tolkien a parte.
In Italia ad esempio, da alcun punto di vista, esso troverà cittadinanza, se non nell’attimo tanto fuggevole quanto straordinario creato da Vittorio Gnecchi, compositore grandissimo e (pertanto) ignorato, che con Cassandra volle tradurre in palcoscenico anche partecipando alla stesura del libretto affidato a Luigi Illica, il mito greco. E non si scordi che lo stesso Tolkien, sebbene in misura assai minore e diversa a petto di Wagner, suscita accanite partigianerie, prova ne sia l’ultima querelle sulla nuova traduzione del Signore degli Anelli, che a detta di qualche serio conoscitore, tenderebbe a svilire la portata spirituale e mitologica tolkieniana.
In secondo luogo, la musica, Cenerentola delle arti.
Per quanto colto e preparato possa essere uno scrittore, di rado frequenta Euterpe, se non qualche sera all’anno in teatro per diporto, soprattutto in Italia. «Incredibile, ma vero», direbbe proprio l’Andrea Chénier. Basti vedere le trasmissioni televisive dedicate, si fa per dire, alla musica: di tutto si parla – registi, trame, amanti di cantanti – a esclusione della musica. Ci vuole, converrete, molta abilità.
Tale negligenza data da due secoli almeno, se Hector Berlioz, nel 1831, scendendo in Italia dovette registrare con indignazione l’attitudine dei nostri connazionali verso l’arte si suoni organizzati. Precisa Piero Buscaroli:
«All’Italia restavano costumi musicali degradati e il cattivo gusto del suo pubblico eternamente maleducato: la descrizione che Berlioz dà dei costumi musicali italiani è confermata da numerosi altri viaggiatori, oltre che dalle memorie del tempo. Mendelssohn riferì le stesse cose, seppure addolcite da un amore, di timbro pacatamente classico, per l’Italia, che a Berlioz mancava».
(P. Buscaroli, La vista, l’udito, la memoria, Fògola, Torino, 1987, p. 211)
Rispetto a quegli anni, l’Italia è solo peggiorata, tanto che ancora Buscaroli quasi cinquant’anni fa notava con irritazione quanto «la Nazione intera sembra aver eletto domicilio morale a Sanremo».
Complici del nullo o poco conto in cui è tenuta la musica sono senz’altro il corpo docente d’ogni ordine e grado, su su, sino ai provveditorati, ai ministeri, ai giornali e alla televisione (le eccezioni sono trascurabili). E insomma: le classi dirigente e culturale nostrane, figlie dello sciagurato Sessantotto. (Tuttavia ancora nei Sessanta, prima che i «formidabili anni» polverizzassero quel che restava di dignitoso, e nonostante Sanremo, davanti ai teatri sfilavano da notte torme di giovani e giovanissimi sbrindellati e dalle facce pulite per andare ad ascoltare Maria Callas: si dirà scontato, ma che manna, santo Cielo!). La musica oggidì è tenuta in considerazione come un passatempo, un divertimento, un giocattolo per intellettuali annoiati, non la si integra nella storia della cultura, né nelle orecchie del sempre e troppo decantato popolo. Dall’altra parte, quella dei cosiddetti addetti ai lavori, musicisti pratici e musicologi e storici della musica, c’è dello snobismo mica male. Nel senso che costoro vivono rinserrati nel loro mondo, escludendo tutto il resto, con atteggiamento o passatista oppure ostentatamente avanguardistico. Rara avis sono i polimorfi in tal settore, un Bortolotto, un Buscaroli, un Isotta, un Teodoro Celli (e si lascino perdere i musicisti pratici in tal senso, spesso ignorantissimi), e ancor più rari i curiosi d’altre specie.
A incrudire la faccenda c’è quanto denunciava alla fine degli anni Settanta un critico Mandelli, ossia l’Italia come luogo in cui
«si tratta di musica, più che altro, o con le spocchiose e talvolta ingannevoli complicazioni verbali e mentali della filologia e della critica di tendenza (ma fuori da un sano senso dei fatti musicali vivi) ovvero senza le opportune cognizioni sulla musica in genere».
(A. Mandelli, «Premessa» a H. Jourdan-Morhange, Ravel, Edizioni Accademia, Torino, 1978, p. 7)
Si metta lo stesso lettore alla prova e si dica se abbia mai sentito o si sia mai soffermato, poni, sui nomi di Jourdan-Morhange, di Ravel, se abbia mai letto, perché interessato di musica, un titolo di Paolo Isotta. Ce l’hanno fatta ad abbattere a così infimo ipogeo persino le pagine più alate della nostra gloriosa tradizione. Quando Beethoven, o Smetana, o Bizet servono a veicolare carta igienica, cibo per gatti e biscotti, gli sfinteri del Kali Yuga sono laceri.
Detto tutto ciò è incauto e anzi gravemente sbagliato relegare Richard Wagner nell’alveo esclusivo della musica o del teatro d’opera, per quanto egli troneggi e imperi. E siamo al terzo motivo. La sua intera biografia materiale e intellettuale dovrebbe obbligare critica e pubblico a considerare Wagner l’inclassificabile e l’irriducibile per eccellenza. Si può forse evocare un Virgilio, un Dante, persino un Tolkien; ma non si è mai arrivati, né mai si arriverà, a Wagner.
L’opera d’arte totale, si dirà, e sta bene. Ma non è sufficiente. Richard Wagner esorbita dalle specifiche (al plurale) competenze e dedizioni. Ed è l’unico. Prova ne siano, se non bastasse l’evidenza, giustappunto le legioni di artisti d’ogni dominio e provenienza che hanno dovuto fare i conti con lui, giusta la lezione di Ross. Non esistette mai, né mai esisterà, artista così totalizzante e ciclopico. Sarà un computo spurio ma quanto verosimile: Richard Wagner è, nella storia, la terza figura più discussa, dopo nientemeno Napoleone in seconda posizione e, nemmeno a dirlo, Gesù sul vertice del podio. Nel ristretto àmbito artistico lo precede soltanto Shakespeare, la cui primazia si deve soprattutto a due fattori: la lingua, perché sebbene l’inglese del Bardo sia disusata, la sua derivazione resta pur sempre quella più corrente nel globo; eppoi l’assenza di plurimi marchi a fuoco, stigmi pregiudizievoli e balordi. A ogni buon conto resta che l’arte di Shakespeare non ha le ricadute, se non nella sola letteratura e nel teatro, di quella d’un Wagner.
L’unico artista che per integralità quanto meno di sforzo, peraltro da lui stesso ammessa e ricercata, potrebbe trovare una collocazione analoga è Gabriele d’Annunzio, un altro, d’altra parte, su cui contumelie sarcasmi e calunnie si sprecano con dovizia di fessaggine.
Non metto poi in conto, perché è risaputo, ancora un quarto motivo, che pertiene a quanto accennavamo sopra, “nazismo” e tutta la paccottiglia puteolente, ben sorvegliata e propalata dalle vestali eredi, in Italia, di un Massimo Mila e nipotame, italiano e internazionale.
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Dopo tante scempiaggini, finalmente un libro su Richard Wagner bensì a tratti discutibile, ma che dovrà di necessità segnare per gli avveduti e i volenterosi un punto fermo e costante nella ricerca culturale di quest’Europa ormai slabbrata e alla deriva.
Poi mi auguro, anche se so di esser un illuso, che i molti e anzi troppi detrattori contemporanei e futuri di Wagner, gli incauti e disinvolti spregiatori si istruiscano una buona volta circa una delle molteplici nature del genio di Lipsia, arrendendosi di poi all’evidenza che senza Wagner neppure loro esisterebbero (e questa notazione, dico con ironia, è una lacuna nel libro di Ross).
Infine, per quanto riguarda gli altri, potrebbe anche darsi che essi, quasi aprendo a caso il volume, si riscoprano “wagneriani” senza essersene fino a quel momento accorti.