27 Marzo 2018

Torna Georges Perec (era ora), scrittore di culto e cabalista dell’OuLiPo. Con un testo scintillante sul free jazz. Intervista a Paolo Fabbri

Un tempo era inevitabile, inesorabile. Leggere i libri di Georges Perec, intendo. Il libro ‘di culto’ s’intitola – lo sanno anche i rubinetti – La vita istruzioni per l’uso ed esiste da 40 anni esatti. Come se fossi James Stewart in La finestra sul cortile, spii la vita che si svolge in una palazzina di Parigi all’11 di Rue Simon-Crubellier, tentacolare e articolata intorno al cuore del miliardario pazzo Bartlebooth. Perec aveva la faccia a metà tra il cabalista e il domatore di bolle di sapone. Proliferarono gli esegeti. Quelli che ritenevano imperdibile Le cose, quelli che adoravano Un uomo che dorme. Perec è nell’Olimpo dell’OuLiPo, l’‘officina di letteratura potenziale’ fondata da Raymond Queneau, cui partecipava anche Italo Calvino. Morto giovane – nel 1982, neppure cinquantenne – Perec fu prima santificato, poi – ora – un po’ troppo dimenticato. Forse, non sappiamo più ‘giocare’ con la letteratura né avventarci verso gli ignoti della speculazione. Intanto, in Francia Georges Perec è un classico – l’anno scorso la ‘Pléiade’, cioè il mausoleo della letteratura transalpina, ha pubblicato i due tomi delle Œuvres – e in Italia esce una piccola delizia. S’intitola La cosa (‘La Chose’), stampa Edb (pp.42, euro 6,50, nella collana ‘Lampi d’autore’). Il testo sta all’origine dell’opera di Perec: è un articolo, pubblicato nel 1967, dedicato al free jazz. Cosa interessa a Perec del jazz? La disciplina. La combinazione misteriosa tra norma e a-normalità, tra tecnica e istinto, tra ‘gabbia’ e fuga. “Costrizione e libertà definiscono i due assi di ogni sistema estetico. Questa figura spaziale (ascissa, ordinata) dimostra sufficientemente che costrizione e libertà sono funzioni indissociabili dall’opera: la costrizione non impedisce la libertà, la libertà non è ciò che non è costrizione; al contrario, la costrizione è ciò che permette la libertà, la libertà è ciò che nasce dalla costrizione”. La riflessione – che coglie altri ambiti del movimentismo artistico, ad esempio l’happening – è di intrigante profondità. Di scrittori stilisticamente influenzati dal jazz è piena la libreria – da Fitzgerald a Céline fino a Cortazar e ai ‘beat’ – ma in pochi hanno tentato una giustificazione così profonda, radicata sulle origini del fatto artistico. Si potrebbe dire che l’anarchia, in arte, per accadere, ha bisogno di una tradizione solidissima. Esegeta del testo di Perec appena edito, il gran semiologo Paolo Fabbri. Che abbiamo interpellato.

La cosaIntanto, come hai ‘incontrato’ Georges Perec? 

L’articolo che ho scritto intorno a La cosa di Georges Perec è apparso su Musica Jazz nel 2004, diretta allora dall’amico Filippo Bianchi. Entrambi in contatto con Daniel Soutif, già direttore del CCI, Centro di Creazione industriale di Beauborg che avrebbe realizzato nel 2009 al Musée des Arts Premiers, quai Branly a Parigi la grande mostra Le siècle du jazz. Io sono solo un avventore del jazz, avvantaggiato dalle loro amicizie: il mio interesse da semiologo è per l’aspetto conversazionale e improvvisato della Cosa, del free jazz. All’eccezione di rari casi cerimoniali non si parla da soli, né per parole e frasi, ma per mosse e contromosse interattive. Parlare è making music together: è un’azione interdipendente ed è sempre un’improvvisazione. Dopo questa breve nota a Perec  ho scritto  un articolo “L’improvvisazione Jazz: conversazione e racconto”per AA.VV., Jazz in Emilia Romagna. L’arte, la storia, il pubblico, Europe Jazz Network Ed., 2005 (trad. in spagnolo “Lo imprevisto de improviso”, in Revista de Occidente,  Madrid, julio-agusto 2005).

Che rapporto c’è tra il free jazz e la contestazione ‘sessantottina’?

 Anche il Sessantotto ha avuto momenti memorabili di improvvisazione e di invenzione; quello francese era meno politichese del nostro – che ha avuto il suo culmine o colmo l’anno successivo. In Francia il Maggio era sotto il segno desiderante del Surrealismo con il suo trozkysmo e anarchismo. Evidenti negli slogan che emergevano dalla chiassosa pratica dei collettivi. Nell’azione politica improvvisata, come nella conversazione e nel feee jazz, spesso però si stona!

Che legame tra il jazz e la scrittura specifica di Perec? Forse tutto sta nel ‘gioco esemplare dei vincoli e delle libertà’, come scrivi?

Si, tengo molto all’idea che darsi vincoli è condizione e premessa di libertà – con quaranta carte e poche regole si possono giocare infinite partite, anche se non tutte egualmente riuscite. Il contrario di quanti dicono che la lingua è fascista perché ci fa dire quello che vuole lei. Più ancora, penso che seguire tenacemente una regola – per es. quella semiotica  a dispetto delle epidemie di mode – sia l’equivalente di una firma, di una soggettività non psicologica.

Esercizi letterari come l’Oulipo oggi sono improponibili? La lettura della realtà attraverso il gioco, lo schema, l’imposizione dell’enigma: una eresia?

L’Oulipo (in italiano Oplepo, opificio di letteratura potenziale) è molto vivo, ne fanno parte anche gli scomparsi come Queneau, Calvino e Perec – è vietato dimettersi col pretesto di morire! La poesia non è necessariamente lirica: non rappresenta solo l’intimo, sperimenta tutte le forme e forze comunicative. Pensa all’amico Nanni Balestrini. Nell’ultimo numero de Il Verri,  il n. 66  dedicato a lui, c’è una recensione della Cosa di Perec da parte della poetessa Milli Graffi.  Oltre alla letteratura ci sono artisti come Bruce Naumann, gran premio delle Biennale di Venezia, che fanno giochi verbovisivi  al neon molto ulipisti. Insomma si può giocare molto seriamente, ma anche ridere che è nella fisionomia  dell’uomo. (O come chiedono le femministe “della persona”).

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