La tigre abusata. Triste, doppia, guarnita d’assenza. Divora bocca e preghiera. Pelliccia da stampa – la tigre è una moda. Vive di gloria stregata. Felino-amuleto, titolo da coronare.
Tra predatore e candore, s’insinua il duello del verbo – madido di umori francesi. Artiglia la neve, Triste tigre di Neige Sinno (Neri Pozza) – Strega europeo d’attuale annata. Premio ch’è decoro al decoro. Sgarbo al romanzo.
Letteratura a emendare la letteratura, fa uso di un abuso, l’autrice, per sciaguattare il proprio limo biografico – soprusi carnali del patrigno – suturandolo in un caso di dozzinale modernità editoriale.
Scialba, la paura di nobilitare il male con la scrittura – excusatio non petita per un derivato narrativo di sterile stile. Cupa ammenda alla superficialità della sincerità. Ineleganza ornata dal vezzo della testimonianza. Elude il trascendere lo squallore dell’esperienza, Neige Sinno, per opzionare una triviale autenticità. Al lettore, ammaestrato, è fatto veto di ‘crogiolarsi nella negazione’ dei fatti.
Animata da miasmi democratici prossimi all’uomo comune, si flette, l’autrice, alla più infima forma di snobismo a rovescio. Scomponendo insinceramente l’umanità in critici intelligenti e lettori bovini, opta per questi ultimi. Sagace scelta dei seguaci – si scrive, dunque, per un pubblico? – questi la gratificano con lo Strega-fedeltà e recensioni all’incenso.
“Fare arte con la mia storia mi fa schifo. […] Creare bellezza con l’orrore non equivale molto semplicemente a creare orrore? […] La letteratura può salvarci?”.
Ne deriva un prodotto da deriva, novella da dimenticatoio. Declassa l’estetizzazione della violenza a mera faciloneria linguistica, la Sinno. Con buona pace di Vladimir Nabokov.
Di cui esaspera un’esegesi dell’inesigibile – di Lolita, l’autrice, perverte l’estasi estetica con il ravvedimento. Deve pentirsi, il lettore, di amare una storia d’amore per la manifesta, immortale immoralità di una finzione dalla prosa ornata – “Molto infantile, infinitamente adescante”.
Nella patria della secolarizzazione europea e dei liberi costumi, il fuoco dei lombi di Humbert Humbert incendiava i sensi e la ninfolessia inconsapevole dei lettori di Lolita – cucita nella veste verde della prima edizione – nell’agosto 1955, per l’Olympia Press. La cornea anglofona aveva ricusato il manoscritto per scandalo della parola.
Arbitrati, i dibattiti su ambedue i libri, dalle pagine della “Nouvelle Revue Française”, s’assiste, a sessantacinque anni di distanza, alla fisiologica metamorfosi critica – da difesa della letteratura a sapienza engagé. “Nabokov ha dato alla bellezza dell’America una lingua. È questa lingua che eleva il fatto di cronaca al livello di tragedia, o del poema in prosa” – chiosa, sulla NRF del maggio 1959, Dominique Aury, alias Pauline Réage. Madrina della gioia nel martirio – l’autrice di Histoire d’O –, è marchiata in seno dalla cognizione d’una genetica distanza tra scandalo e letteratura. “Neige Sinno può considerarsi resiliente, perché è sopravvissuta, perché non è caduta, perché l’ha superata […] Neige Sinno è comunque animata da una forte convinzione: ha scritto questo libro per testimoniare” – quindi, Lydie Salvayre sulla NRF Printemps 2024. Esecrabile resilienza, colpevolezza, innocenza, commento che calca tribuna e tribunale. La lingua? Segregata ai margini della morale.
Trastullo e ambiguità della parola essudano, all’opposto, da La figlia femmina di Anna Giurickovic Dato (Fazi, 2017)– candita Lolita fra Roma e Rabat. Corruzione e seduzione del lettore, adescamento, lusinga della lingua a raccontare l’irraccontabile – consanguineo illecito.
Osannata come atto di coraggio – Oltralpe pullulano le discepole dell’affaire Springora – Triste tigre è viceversa opera foderata di viltà. Non spicca il balzo della lingua – il felino. Non cavalca il rischio di frequentare la letteratura. Quella che pasce il dolore, scevra da salvifici artifici.
Scrivere, oggi, è rigurgitare aridamente la personale versione di un fatto privato. Contumelia in contumacia. Nell’epoca delle verità predefinite – un tempo diari e intime verità si ustionavano in falò – Triste tigre è giusto che vinca il suo premio. Che li vinca anche tutti. Ne è l’emblema perfetto.
Unica, poetica licenza, a licenziare ogni licenziosità, il titolo. Prende le mosse dai versi di William Blake – “Tigre! Tigre! che ardi e splendi / nelle selve della notte, / che immortale ti foggiò / la tremenda simmetria?”. Nel 2011, se n’era già servita Margaux Fragoso, pubblicando Tigre, tigre (Mondadori) – triste, analoga storia. Tigre al miele, lauto pasto editoriale. Cotenna da copertina.
Bastava La tigre assenza. O l’assenza. Di Triste Tigre.
Fabrizia Sabbatini
*In copertina: Koson Ohara, Tigre e luna crescente, 1910