“Ho dormito nel vostro letto: era come un essere vivente”. Merline & Rilke, due solitudini che si inchinano
Letterature
Riccardo Peratoner e Marilena Garis
Ho guidato per strade buie e pugliesi, ogni tanto una masseria illuminata nella sera annottata, come mausolei radioattivi. A destinazione ho iniziato a leggere Un bagliore di Jon Fosse e mi è sembrato di essere entrato in un libro di Antonio Moresco, nel suo ultimo, il Canto del buio e della luce, perché il racconto di Fosse è di un uomo che entra nel bosco, nel buio di un bosco, e ci incontra “un’entità splendente.” Ed è una storia di pacata e assoluta solitudine.
Avessi guidato anche io come ha guidato l’io de Un bagliore, “dove potevo girare a destra o a sinistra giravo a destra, e dove al bivio successivo potevo prendere a destra o a sinistra prendevo a sinistra”,avrei potuto smarrirmi anch’io, perché capita a tutti di guidare dandosi per destinazione una perdizione quale che sia, quando il fondo che si sente di aver toccato dentro si ha bisogno di toccarlo anche fuori, fosse pure con un frontale. Dubito però sarei potuto finire in un bosco fitto abbastanza, in una ‘selva oscura’, in una antonomasia. Più in un oliveto, per quanti ne rimangono. La terra rossa su cui crescono più rachitici è a ricordo della strage degli ulivi recente.
L’io del racconto di Fosse finisce nella selva perché era “rimasto vittima” della noia. “Io, che normalmente non mi annoiavo mai.” Dove siamo, in che fantascienza? E quando siamo? Da quale tempo racconta questo io? Nella traduzione di Margherita Podestà Heir l’attacco del romanzo è all’imperfetto:
“Mi ero messo al volante ed ero partito.”
Un io che attacca a raccontare così dà l’idea immediata di star raccontando da un dopo, da un luogo in cui è sopravvissuto. Non è il caso dell’io de Un bagliore. Come non lo è per l’io del Canto del buio e della luce. Questo io narrato da Fosse sta andando, è andato, andrà in un “nulla che respira”, allora come fa, come avrà fatto, come farà a raccontare?
Ricordarselo: siamo nella letteratura. Il chi e il dove e il come e il quando e il perché – caposaldi realistici, giornalistici – possono essere sovvertiti, disattesi. Possono aprire voragini. Allora è come se chi scrive, un io che non è l’io del personaggio ma neppure quello di Fosse, un io intermedio, sia entrato nel bosco dove è sparito l’io del personaggio inventato da Fosse e ne abbia assorbito e trasmesso i pensieri e le sensazioni ultimi. L’io che racconta è sulla soglia, è tra l’io di Fosse e l’io del personaggio inventato da Fosse.
Che è raccontare sia l’uomo visto “là tra due alberi, sì, là, là c’è un uomo. Indossa un abito ero. E ha una camicia bianca. E una cravatta nera. Ed è scalzo.” Scalzo nel bosco buio, nella notte norvegese fredda di neve appena caduta. Perché poi norvegese? Nel racconto non appare nessuna indicazione geolocalizzante. Solo strade e bosco. Norvegese perché Fosse è norvegese? Perché nella pagina dei crediti si viene a sapere che “Questo libro è stato tradotto grazie al sostegno di NORLA”, il Norwegian Literature Abroad? Norvegese perché è stata tradotta dal norvegese di Fosse? Un solo piccolo indizio: l’io che normalmente non si annoiava mai mangia pane e salame di agnello.
“E di colpo mi ero reso conto che erano passati parecchi giorni, non riuscivo a ricordare con esattezza quanti, dall’ultima volta che avevo cenato. Ma spesso è così per noi che viviamo soli.”
Sappiamo così poco di quest’io che ha guidato verso il buio del bosco. È come un io moreschiano. Sappiamo praticamente niente del prima del racconto. Sappiamo del suo durante. All’interno di un incubo che non fa paura perché la paura è stata disattivata dall’apatia di una solitudine assoluta, normalizzata.
“Perché mai mi ero spinto così lontano?” si chiede l’io di Fosse, dal buio, in quel buio calato su tutto il mondo e in cui tutto il mondo continua a vivere come se il buio fosse la nuova luce. “Non mi ero mai comportato peggio di così” dice di sé l’io raccontato da Fosse, questo io sperduto, che ha guidato dritto verso lo smarrimento, per dare uno spazio esterno allo smarrimento interno in cui già brancolava. L’io raccontato da Fosse ha avuto il bisogno di materializzare, di concretizzare, di rendere visibile ciò che già esisteva invisibilmente dentro di lui, dentro di tutti.
Fosse fa come fa la letteratura, fa come fa anche la letteratura di Moresco: deve rendere visibile l’invisibile. Spinge a guardare il buio al buio. Il buio è soltanto il contrario della luce, l’assenza della luce, o il buio è il buio al di là della luce? Che è come domandarsi: la luce è la luce o è solo il contrario del buio, l’assenza del buio?
Questo di Fosse è un piccolo libro, come avvisa il titolo ha la durata di un bagliore, lo si legge nel tempo che occorre al sole autunnale per declinare, per farsi sera, per scivolare nella notte. Come la luce del giorno sparisce nella notte ogni giorno così ogni giorno si può leggere il piccolo libro di Fosse, si può ogni giorno leggere e vedere la luce che declina. È così apparentemente semplice il racconto di Fosse. È così apparentemente semplice la fine infinitamente ciclica del giorno. Invece è terribile. Deve – dovrebbe – sempre spaventare la calata del buio sul mondo. Dubitare del ritorno della luce. Tanto più che se il buio è diventato la nuova luce si potrebbe vivere in un mondo completamente e continuamente al buio scambiandolo per un mondo completamente e continuamente illuminato.
“Forse è proprio questo il motivo per cui sono entrato nel bosco, perché volevo morire assiderato.”
L’io a cui Fosse dà la parola pensa la sua sia una “vita da peccatore” per questo l’entità splendente che incontra nel bosco oscuro crede possa essere un angelo:
“qualunque cosa fosse, non era umana, però, non era neanche un fantasma, ma forse, forse, forse era semplicemente un angelo, forse un angelo di Dio. Perché l’entità era così luminosamente bianca, o forse era un angelo del male. Perché anche gli angeli del male sono angeli della luce, forse tutti gli angeli splendono di bianco, sia quelli buoni che quelli cattivi.”
Non basta essere creature di luce per non essere creature malvagie. Essere creature buie non esclude si possa essere allo stesso tempo buone creature. L’io raccontato da Fosse s’addentra in un bosco oscuro e ci incontra un angelo senza poterlo sapere prima se sia un angelo del bene o se un angelo del male, se esista differenza tra un angelo del bene e un angelo del male, se il male e il bene sono lo stesso angelo.
Sono fermamente convinto che se l’io raccontato da Fosse avesse continuato a viaggiare nel buio prima o poi si sarebbe imbattuto nella carovana del buio raccontata da Moresco in Canto del buio e della luce. Il bosco al buio di Fosse, in cui tutti “Sono scomparsi nel buio (…) completamente coperti dal buio”, non è che un frammento del mondo scomparso nel buio, completamente coperto dal buio raccontato da Moresco.
Nell’ultimo romanzo di Fosse come nell’ultimo di Moresco si viaggia al buio in cerca di una voce luminosa. Se in Moresco la voce si è levata, è il magnete dell’azione, è il nord della bussola, in Fosse la voce non c’è, non s’è levata. In Fosse ci sono solo mormorii.
“Perché è nel silenzio che si può sentire Dio. O almeno lo ha detto qualcuno, eppure non riesco a sentire nessuna voce di Dio, l’unica cosa che riesco a sentire, sì, è il nulla.”
L’io raccontato da Fosse ne Un bagliore è pacatamente e assolutamente solo. Si lascia condurre da mute presenza attraverso il bosco oscuro. Attraversa il buio, poi una grigità che rende tutto più indistinguibile di quanto possa renderlo indistinguibile il buio, dunque più invisibile ancora, verso una “luce così forte che non è una luce, no, non può essere una luce, ma un vuoto, un nulla”.
Per superare il buio. Per superare la luce. Per superare la vita. Per superare la morte. Per superare il mondo. Per superare il nulla. Oltre il limite dei sensi, dalla ragionevolezza. Per abbandonarsi cretinamente alla pigrizia di un mistero? No, per spingersi più avanti tramite il combattimento della letteratura.
“Perché mai mi ero spinto così lontano?” Perché è impossibile spingersi più lontano di così, eppure dobbiamo continuare a spingerci più lontano di così, perciò ci spingiamo più lontano di così.
antonio coda
*In copertina: un quadro di Odd Nerdrum